C’è spazio per una fiscalità degli stili di vita?*

Thomas Tassani[1]

 

 

Il termine fiscalité comportamentale non definisce una categoria giuridica precisa, facendo riferimento a quelle, variegate, forme di interventi tributari che hanno, anche, la finalità di incidere sugli stili di vita dei singoli: la fiscalità dell’ambiente, la fiscalità alimentare, la fiscalità cosiddetta “etica”.
L’elemento comune è il perseguimento di finalità extrafiscali ed è noto come, nel sistema giuridico italiano, l’utilizzo dello strumento tributario per questi scopi è ammissibile a due condizioni. Per un verso, è necessario che il tributo colpisca comunque manifestazioni di forza economica (art. 53 Cost.); per l’altro, che ciò non costituisca una violazione del principio di uguaglianza, anche alla luce di altri principi di rango costituzionale.

Il tributo deve dunque essere giustificato sul piano economico e che si possa giustificare, alla luce dei valori dell’ordinamento, l’eventuale diversità di trattamento che in questo modo si determina in relazione a certi soggetti, attività, atti, prodotti, consumi, ecc.

A mio avviso, sulla base di queste premesse, non dovrebbero essere ammissibili, perché incostituzionali, forme di tassazione la cui finalità extrafiscale è esclusivamente di natura etica o morale.

Questo anche perché in un sistema costituzionale “aperto”, di ispirazione liberale, interventi di questo tipo sono in grado di alterare le scelte individuali, comprimendo la libertà dei singoli.

Peraltro, se determinate condotte dalla Stato sono considerate pericolose, se determinati consumi sono considerati inammissibili, in rapporto a valori costituzionali primari (come, per esempio, la dignità umana o la tutela dell’infanzia) quegli stessi comportamenti dovrebbero essere del tutto vietati, non, invece, tassati (o tassati maggiormente di altri).

In Italia dal 2008, esiste un addizionale IRES, che colpisce con il 25% di maggiore imposizione i redditi delle imprese che operano nei settori della produzione e vendita di materiale pornografico, incitamento alla violenza o che sfruttano l’incredulità popolare attraverso numeri telefonici a pagamento (maghi, cartomanti). Si tratta, a tutti gli effetti, di una “imposta etica” che non ha altra giustificazione se non quella della censurabilità sul piano morale, il che pone forti dubbi di costituzionalità ai sensi dell’art. 53 della Costituzione.

Al tempo stesso, occorre però sottolineare come, secondo una importante tesi dottrinale, l’articolo 53 Cost. consentirebbe di assoggettare a tassazione in alternativa ai tradizionali indici (reddito, patrimonio, consumo) anche “presupposti di imposta socialmente rilevanti”, con gli unici limiti della ragionevolezza, della congruità, della proporzionalità. In base a questa tesi, si potrebbero allora legittimare forme di imposizione in cui comportamenti o consumi viziosi e frivoli, al limite della moralità, siano tassati in maniera superiore, rispetto ad altri, proprio per il diverso impatto sul piano sociale della riprovazione degli stessi da parte della collettività.

A mio avviso, un’impostazione di questo tipo darebbe luogo a forme di controllo sociale e di arbitrio legislativo potenzialmente molto pericolose.

L’unica ipotesi di Fisco veramente etico dovrebbe essere quella di dare reale attuazione all’art. 53 Cost. e, quindi, raggiungere l’obiettivo del concorso di tutti i consociati alle spese pubbliche in base all’effettiva capacità contributiva.

Un ulteriore tema, oltre a quello della fiscalità morale, è quello della fiscalità alimentare di cui molto si discute a livello dottrinale, in ambito italiano ed europeo.

Vi sono due argomentazioni che vengono addotte per giustificare forme di tassazione più elevate per il consumo del junk food.

La prima è che la fiscalità ottiene in questo modo l’effetto di disincentivare il consumo di questi cibi e, quindi, garantire la tutela della salute dei consociati (che rappresenta un valore di rango costituzionale).

La seconda si basa su una sorta di principio del beneficio 2.0. Dato che questi consumi sono in grado di generare future spese finanziarie, connesse ad un maggior intervento del sistema sanitario nazionale, la maggiore tassazione degli stessi consente di garantire l’equilibrio finanziario.

In questa prospettiva, sono state introdotte imposte di questo tipo, nel corso degli anni, in Norvegia (fin dal 1981 esiste una imposizione ad hoc su dolci, cioccolato, bevande zuccherate), in Finlandia (dal 2011 esiste un’imposta sui prodotti dolciari), in Ungheria (introdotta nel 2011 una chips tax), in Francia (dal 2012, la tax sodà o la coca cola tax) e così altre forme di imposizione nel contesto Europeo. In Italia nel 2013 è stata presentata una proposta di legge sul junk food, che però è stata stracciata, cito testualmente dalla relazione “perché bisognosa di maggiori approfondimenti”.

Queste forme di tassazione presentano però vari elementi di criticità.

In primo luogo, vi è il profilo comunitario, qualora si tratti di imposte armonizzate (aumento di aliquote o di accise), con allora margini di intervento molto limitati per i legislatori nazionali.

Sempre a livello comunitario, diviene poi rilevante l’aspetto della distorsione delle dinamiche del mercato che in questo modo possono realizzarsi. Significativa è la vicenda del prelievo danese su cibi aventi una certa percentuale di grassi, introdotto nel 2011, che provocò la reazione dei produttori nazionali dei celebri biscotti, poiché i consumatori continuavano a comprare il medesimo prodotto in Stati confinanti, con un grosso danno per le attività delle imprese nazionali. Ciò che portò il legislatore ad abrogare il tributo.

Inoltre, l’imposta sul junk food si presenta come un’imposta fortemente regressiva, perché colpisce alimenti che, essendo i più economici, sono in prevalenza consumati dai ceti meno abbienti. Con l’ulteriore effetto, rilevato da diversi studi, di spostare il consumo su prodotti di fascia di prezzo ancora più bassa, esattamente opposto a quello perseguito dal legislatore.

In termini generali, è da segnalare che gli studi scientifici non riescono a dimostrare in modo univoco la correlazione tra maggiore imposizione fiscale e cambiamento dei comportamenti alimentari (in senso maggiormente “virtuoso”) dei singoli.

Tra l’altro, a livello giuridico, lo stesso principio del beneficio relativamente ai futuri costi sanitari potrebbe essere messo seriamente in discussione perché, se si escludono determinati prodotti (come alcool e tabacco per esempio) non è il consumo di un determinato alimento in sé a determinare la patologia e quindi il costo sanitario prevedibile, bensì, più in generale, il complessivo stile di vita del soggetto. Stile di vita che, ben difficilmente, il tributo sarà in grado di rilevare e quindi di orientare.

Ed è da sottolineare che se, dal punto di vista scientifico e/o giuridico, viene meno la possibilità di collegare chiaramente il tributo sul junk food alla tutela della salute, si toglie del tutto giustificazione all’intervento legislativo, che non potrebbe considerarsi legittimo, prima di tutto in termini costituzionali.

Soprattutto perché allora [ri]emergerebbe quella che è, probabilmente, la vera natura di queste forme di prelievo fiscale, basata sia su opzioni lato sensu di tipo etico o morale sia sulla esigenza dello Stato di elaborare [sempre] nuove forme di entrate tributarie.

Ed è significativo, per questo ultimo aspetto, che il dibattito sulla fiscalità comportamentale si sia sviluppato soprattutto durante questo periodo di crisi finanziaria degli Stati, legata alla più ampia crisi economica mondiale.

 

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* Come citare questo articolo: Tassani T., C’è spazio per una fiscalità degli stili di vita?, in Studi Tributari Europei, 2016, n. 1 (ste.unibo.it), pp. 66-69, DOI: https://doi.org/10.6092/issn.2036-3583/7829.

[1] Thomas Tassani, Professore Ordinario di Diritto Tributario presso l’Università di Bologna.