L’integrazione giuridica delle norme tributarie interne, internazionali ed europee*

 

 

Gianluigi Bizioli[1]

 

“Oggi che lo statalismo moderno è da tempo in crisi profonda, oggi che la dimensione economica sta prendendo il sopravvento su quella politica e che sempre più siamo chiamati a considerare un orizzonte globale e, insieme, virtuale; oggi che, come giuristi, stiamo contemplando (io con sincera soddisfazione) la erosione ogni giorno più squassante del massiccio sistema delle fonti edificato con pietra forte dai nostri padri ma simile ormai a un castello di sabbia; oggi noi dobbiamo prender coscienza che è giunta l’ora di un recupero per il diritto”

P. Grossi, Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Vol. 70, Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 2006, p. X--XI

 

Die Ermächtigung, supranationale Zuständigkeiten auszuüben, stammt allerdings von den Mitgliedstaaten einer solchen Einrichtung. Sie bleiben deshalb dauerhaft die Herren der Verträge. Die Quelle der Gemeinschaftsgewalt und der sie konstituierenden europäischen Verfassung im funktionellen Sinne sind die in ihren Staaten demokratisch verfassten Völker Europas.

BVerfG, 30 giugno 2009, Lissabon-Urteil

 

1.Introduzione

La principale funzione di questo contributo è quella di introdurre un volume monografico dedicato alle fonti del diritto tributario e alla loro interpretazione. L’obiettivo principale che si propone questo articolo è, dunque, quello di offrire una delle possibili letture del tema, piuttosto che una sistematica ricostruzione delle varie teorie che la dottrina ha proposto e continua a proporre.

Per fare ciò, il primo passo da compiere è quello di disvelare la prospettiva che s’intende adottare e, questo compito, è piuttosto agevole perché ragioni di coerenza impongono l’adozione di quella medesima prospettiva d’indagine sviluppata in un precedente lavoro monografico[2]. Si tratta, dunque, di ricostruire l’assetto delle fonti del diritto e dei rapporti fra ordinamenti giuridici nei termini dell’«integrazione giuridica», secondo i plurimi significati che se ne daranno infra.

Il passo successivo consiste nella presentazione del metodo dell’indagine. Anche in questo caso, la scelta è agevolata dall’occasio di questo lavoro. Il metodo più efficace per dimostrare che la teoria dell’integrazione giuridica è lo strumento di lettura più adeguato per l’attuale varietà e pluralità di fonti del diritto e di ordinamenti giuridici è quello storico. In questo senso, semplificando molto, la trattazione sarà suddivisa in tre diversi periodi, convenzionalmente determinati, a cui corrispondono altrettanti modelli teorici.

Da ultimo, la struttura dell’indagine. Alla descrizione dell’evoluzione storica seguirà la presentazione del “caso tributario” o, meglio, dei “casi tributari”. In forma casistica, infatti, saranno presentati una serie di situazioni in cui appare con tutta evidenza la validità euristica della teoria dell’integrazione giuridica.

 

2.La sovranità della legge

Il tema delle fonti del diritto è strettamente connesso alla concezione dello Stato e della sua sovranità. Nella sistematizzazione propria della Staatslehre, dalla volontà dello Stato, manifestazione della sovranità, derivava la validità della legge, intesa come sinonimo di diritto[3]. In questo senso, lo Stato si ergeva ad autorità superiore a qualunque altra istituzione presente in un dato territorio, assumendo la funzione di direzione e di unità rispetto a tutte le altre istituzioni politiche presenti. La legittimazione di questa sovranità assoluta si trovava nella perfetta identificazione fra società civile e Stato, prodotto del trionfo ottocentesco della borghesia (liberale).

Le conseguenze di questo processo, come è stato acutamente evidenziato[4], sono duplici. Per un verso, esso conduce all’assolutizzazione/esclusività dell’ordinamento giuridico statale rispetto alle altre espressioni istituzionali interne (assolutizzazione/esclusività dell’ordinamento “in sé”) e, per altro verso, alla relativizzazione/esclusività dell’ordinamento giuridico statale nel confronto con gli altri ordinamenti giuridici statali. Sul piano delle fonti del diritto “interne”[5], ovverosia di quelle previste dall’ordinamento giuridico statale, si assiste all’affermazione del monopolio assoluto da parte dello Stato, espresso attraverso la legge[6]. Lo Stato diviene, in questo modo, la sola autorità pubblica titolare, fra gli altri, dell’esclusiva potestà di produzione del diritto (attraverso la legge), togliendo ogni ruolo alle altre istituzioni diverse e riducendo quello del giurista a mero esecutore della volontà legislativa.

Diversamente, sul piano dei rapporti fra gli ordinamenti giuridici “sovrani”, l’affermazione dell’assolutezza del diritto statale si traduce, per un verso, nell’ammissione della sua relatività, poiché impone il riconoscimento delle altre realtà ordinamentali e, per altro verso, nell’indipendenza (e nella sostanziale impermeabilità) dell’ordinamento giuridico statale sia nei confronti degli altri ordinamenti giuridici statali sia nei confronti di quello internazionale (o superstatale).

In sintesi, in virtù del concetto di sovranità, lo Stato e il suo ordinamento giuridico formavano autonomi universi normativi[7].

Ritornando ai rapporti fra ordinamento giuridico statale e internazionale (o superstatale), questa impostazione teorica conduceva, inevitabilmente, a trovare il fondamento (e, quindi, la validità e l’efficacia) del diritto internazionale (o superstatale) nell’auto-limitazione da parte dello stesso Stato. In questo senso, “la decisione ultima circa la sua esistenza [del diritto internazionale] spetta alle collettività, per le quali esso deve valere, cioè agli Stati. Se questi riconoscono il diritto internazionale come per loro medesimi obbligatorio, è dato così, in ragione della natura psicologica di ogni diritto, la base sicura per la esistenza di esso[8]. Il diritto internazionale, secondo questa concezione, trova dunque origine nella sovranità statale e, più precisamente, nell’auto-limitazione della volontà dello Stato che acconsente alla regolazione dei rapporti fra i diversi ordinamenti statali[9]. Le conseguenze sono evidenti. Le fonti “esterne” assumono rilevanza all’interno dell’ordinamento giuridico statale solo se “recepite” o “trasformate” da uno specifico atto giuridico statale.

Tuttavia, il profilo più interessante riguarda le conseguenze sul piano della teoria delle fonti. Questo modo di intendere il fenomeno giuridico, infatti, presuppone una netta separazione fra fonte e norma giuridica, ovvero, fra fonte in senso formale e sostanziale, e la prevalenza della prima sulla seconda.

 

3.La sovranità della Costituzione

Il processo costituente che scaturisce dalla Seconda Guerra Mondiale produce la trasformazione di questo concetto di sovranità, non ancora l’integrale superamento.

In primo luogo, la sovranità è ricondotta nell’alveo del diritto, come forma di manifestazione dell’autorità pubblica integralmente regolata dalla Costituzione[10]. L’autorità pubblica, in altre parole, trova il proprio fondamento e i propri limiti nella Costituzione; è semmai la legittimazione di tale autorità che appartiene ai fenomeni del mondo reale e, più precisamente, nel popolo.

In secondo luogo, la Costituzione sancisce la fine del monopolio della legge. Essa stessa si erge a fonte super-primaria, fondamento e limite di tutte le fonti del diritto ma, soprattutto, riconosce il pluralismo istituzionale che connota ogni organizzazione sociale. Attraverso tale riconoscimento, la Costituzione altro non fa che ammettere la molteplicità delle autorità (o istituzioni) in grado di produrre diritto (in senso formale e sostanziale). Detto in altri termini, la Costituzione prende atto del pluralismo sociale e istituzionale che aveva messo in crisi, a partire dalla fine dell’Ottocento, lo Stato liberale e riconosce il pluralismo giuridico “interno” all’organizzazione statale.

Sul versante “esterno”, la Costituzione si apre al fenomeno internazionale, riconoscendone le norme generali. Tuttavia, tale apertura resta sempre condizionata dalla precedenza e dalla prevalenza della sovranità statale, che si manifesta attraverso la c.d. teoria dei “controlimiti”. Da ultimo nella sentenza 22 ottobre 2014, n. 238, la Corte costituzionale afferma che “i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona [costituiscono] un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (…) ed [operano] quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (…), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (…). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale” (punto 3.2.). Nonostante la Corte si riferisca ai diversi limiti con termini differenti, essi, come emerge testualmente dalla citata pericope, appaiono la manifestazione di un’unica esigenza imprescindibile e trovano fondamento nell’esigenza di proteggere l’identità costituzionale dell’ordinamento[11]. In questo senso, la sovranità, seppur ricondotta nell’alveo del diritto (costituzionale), continua a esercitare una fondamentale funzione di paratia all’ingresso del diritto internazionale (e/o superstatale). Funzione che trova giustificazione nella precedenza e prevalenza del “sovrano statale” rispetto alle altre istituzioni.

Per ragioni di completezza, è opportuno segnalare che questa interpretazione non è una esclusiva della Corte costituzionale italiana, ma è stata condivisa dal Bundesverfassungsgericht tedesco fin dal 1974[12] e ulteriormente sviluppata nei famosi Maastricht-Urteil e Lissabon-Urteil. In quest’ultima pronuncia, il Tribunale costituzionale tedesco ha affermato che “[d]as Grundgesetz ermächtigt die für Deutschland handelnden Organe nicht, durch einen Eintritt in einen Bundesstaat das Selbstbestimmungsrecht des Deutschen Volkes in Gestalt der völkerrechtlichen Souveränität Deutschlands aufzugeben. Dieser Schritt ist wegen der mit ihm verbundenen unwiderruflichen Souveränitätsübertragung auf ein neues Legitimationssubjekt allein dem unmittelbar erklärten Willen des Deutschen Volkes vorbehalten”.

Sul piano delle fonti, nulla muta rispetto a quanto già osservato al paragrafo precedente. I diversi ordinamenti giuridici – statale, internazionale ed europeo – appaiono separati e, quindi, separate sono anche le fonti istitutive e derivate, e la loro efficacia nell’ordinamento statale è condizionata dall’espresso riconoscimento, nel senso di esecuzione o adattamento, da parte di quest’ultimo.

 

4.La sovranità dei principi

Il dopoguerra giuridico europeo non ha prodotto solo la nascita delle moderne costituzioni, bensì l’emergere di processi di integrazione (economica) e il riconoscimento, a livello sovrastatuale, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo. Seppur ricondotti, almeno all’origine, nell’ambito delle tradizionali spiegazioni dei rapporti fra ordinamento statale e internazionale, questi fenomeni hanno progressivamente assunto un’autonoma e originale rilevanza (giuridica) fino a produrre una rottura, nel senso di rivoluzione, nell’evoluzione del pensiero giuridico[13].

Le prime avvisaglie di questo mutamento si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Nella sentenza van Gend & Loos, il giudice qualifica l’esperienza comunitaria come “ordinamento di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini[14]. In questa pericope sono presenti, in nuce, gli elementi della rivoluzione giuridica: l’ordinamento comunitario rappresenta un tertium genus che non può essere ricondotto né nell’ambito delle esperienze nazionali né in quella internazionale; la sovranità statale ha subito, per effetto dell’adesione al progetto giuridico europeo, una diminutio, che ne ha fatto venir meno il suo carattere assoluto.

Per altro verso, una parte della dottrina e isolate pronunce della Corte costituzionale iniziano a riconoscere la prevalenza della portata assiologica delle convenzioni internazionali in materia di diritti e libertà fondamentali dell’uomo sulla nozione di fonte formale e sulla gerarchia delle fonti del diritto. Nella sentenza 19 gennaio 1993, n. 10, il giudice costituzionale ha utilizzato alcune disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (“CEDU”)[15] e del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966[16], entrambe rese esecutive dall’Italia, per chiarire il significato del fondamentale diritto di difesa contenuto nell’art. 24, secondo comma, Cost. Riferendosi al diritto dell’imputato di essere dettagliatamente informato nella lingua da lui conosciuta, la Corte ha affermato che “poiché si tratta di un diritto la cui garanzia, ancorché esplicitata da atti aventi il rango della legge ordinaria [gli accordi internazionali sopra citati], esprime un contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo (cittadino o straniero), del diritto inviolabile alla difesa (art. 24, secondo comma, della Costituzione), ne consegue che, in ragione della natura di quest’ultimo quale principio fondamentale, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie dei diritti di difesa in ordine alla esatta comprensione dell’accusa, un significato espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei limiti del possibile, il sopra indicato diritto dell’imputato” (punto 3.)[17].

Orbene, il consolidamento di queste tendenze giurisprudenziali produce il fiorire dei tentativi di comprensione del nuovo corso del pensiero giuridico. Escludendo l’impiego dei modelli tradizionali di spiegazione del mutamento[18], la reazione dei giuristi poggia sulla rivalutazione del diritto come fatto sociale e, dunque, sulla rivalutazione del pluralismo giuridico non solo all’interno degli ordinamenti statali, bensì come elemento fondante dell’ordine giuridico nel suo complesso.

Il più convincente di questi tentativi è quello che assume che il rapporto fra i diversi ordinamenti giuridici possa essere compreso in termini di “integrazione giuridica” e, più specificamente, per l’esperienza storica e culturale del continente europeo, in termini di “integrazione (giuridica) europea”.

Si deve escludere, anzitutto, che l’espressione abbia qualche prossimità con la ricostruzione offerta da R. Smend, il quale impiegava il termine integrazione per descrivere un processo socio-economico, quello di costruzione dello Stato attraverso la progressiva assimilazione della società civile[19].

Piuttosto, nei primi tentativi di sistematizzazione, l’integrazione è stata descritta come “the establishment of a common interest between two or more States in an essential area, such as security or economic affairs, and it is brought into being by the organization of inter-State relations on the basis of an attitude of solidarity in such a way that the safeguarding of the over-all interests prevails over motives drawn from the defence of national interest[20]. In questo primo tentativo, dunque, si riconosce la natura profondamente differente della relazione fra ordinamenti statali e ordinamento europeo rispetto a quella con l’ordinamento internazionale perché basata sul valore della solidarietà fra gli Stati membri e sulla prevalenza di un comune interesse europeo rispetto a quelli nazionali. Non più, in questo senso, la composizione dei conflitti statali attraverso regole comuni, bensì l’enucleazione e la disciplina di un interesse “altro”, differente, dalla somma degli interessi statali. In nuce, in questa ricostruzione si trovano tutti gli elementi caratterizzanti il nuovo “pensiero giuridico” europeo.

La compiuta teorizzazione del fenomeno europeo come processo di integrazione giuridica è opera della dottrina tedesca (che, pur investita dall’onda del positivismo giuridico, non ha mai abbandonato la grande tradizione giuridica medievale e post-medievale). Trasferendo la nota concezione di J. Monnet, Ipsen descrive le Comunità Europee come “Zweckverbände funktioneller Integration” degli ordinamenti statali[21], cogliendo due degli elementi fondanti dell’esperienza giuridica (e sociale ed economica) europea. In primo luogo, che l’integrazione (giuridica) europea è un processo e, quindi, un continuo divenire di atti e attività volti a un determinato obiettivo. Per altro verso, che l’esperienza europea si traduce in un’integrazione funzionale diretta a realizzare un interesse (o una serie di interessi) comune(i) agli Stati membri.

A questo punto della ricostruzione, rimangono da analizzare (non meno di) due questioni, indispensabili per comprendere appieno il significato dell’integrazione giuridica. Il riferimento è, in primo luogo, all’oggetto dell’integrazione; in secondo luogo, alla rilevanza anche internazionale (e non esclusivamente europea) del fenomeno.

Di integrazione giuridica si può parlare con riferimento sia alle norme e agli ordinamenti giuridici sia alle istituzioni[22]. Con riferimento alla prima accezione, l’integrazione giuridica deve intendersi come il processo di unificazione di due o più ordinamenti giuridici. Si tratta di un processo che provoca, costantemente, un continuo disordine e una tendenza verso un nuovo ordine giuridico integrato, prodotto dall’interazione e dal recepimento di principi e norme appartenenti a sistemi giuridici differenti. In aggiunta, si tratta di un processo “multidirezionale”: il diritto europeo si integra nel diritto statale, ma anche quest’ultimo si integra in quello dell’Unione europea. Entrambi gli ordinamenti giuridici sono, a loro volta, aperti al recepimento dei diritti e principi internazionali relativi alla protezione dei diritti dell’uomo. Il percorso discendente del diritto europeo è ampiamente testimoniato dall’elaborazione dei caratteri della “prevalenza” e della “efficacia diretta” delle norme europee; per altro verso, il processo ascendente è stato riconosciuto dal giudice europeo in funzione di chiusura delle più evidenti lacune del suddetto ordinamento e quale reazione alla giurisprudenza degli anni ’70 delle Corti costituzionali italiane e tedesca[23].

Nella seconda accezione, l’integrazione riguarda le istituzioni appartenenti a ordinamenti differenti, “che collaborano alla realizzazione di una legalità comune”[24]. L’istituzione delle Comunità europee prima, e dell’Unione europea, poi, ha prodotto un apparato integrato finalizzato all’applicazione del diritto europeo, sia con riguardo alla funzione giurisdizionale sia a quella amministrativa. La creazione più originale dell’ordinamento europeo è probabilmente la struttura giudiziale integrata “Corte di Giustizia-giudici nazionali” che coopera quotidianamente nell’interpretazione e applicazione del diritto europeo[25]. In questo senso, come è stato acutamente osservato, “il perseguimento dell’obiettivo di (…) un unico ordinamento giuridico integrato (…) è passato sia attraverso la creazione di un sistema giudiziario europeo integrato – un circuito istituzionale Corte giust.-giudici nazionali: un aspetto dell’integrazione politica – sia attraverso la creazione di una comunità di giuristi europei – un lessico comune, principi comuni, fiducia reciproca: un aspetto dell’integrazione socio-culturale[26].

La dottrina internazionalistica, a partire dalla metà degli anni ’70, ha iniziato a individuare e descrivere un peculiare fenomeno normativo, etichettato e conosciuto col nome di “soft law[27]. Con tale espressione non si individua un complesso omogeneo di atti né di soggetti (o istituzioni) che partecipano alla formazione degli stessi e che vi aderiscono. All’opposto, l’espressione ha una portata esclusivamente descrittiva diretta a individuare un insieme di atti, contenenti norme di condotta o di comportamento, privi di effetti giuridici vincolanti sebbene, comunque, produttivi di determinati effetti pratici[28]. In questo senso, si tratta di una definizione a contenuto sostanzialmente negativo, comprendente tutti quegli atti e quelle regole che non producono effetti giuridici vincolanti, ma che, nondimeno, sono utili alla ricostruzione delle norme internazionali consuetudinarie, alla preparazione della base giuridica dei trattati internazionali ovvero alla interpretazione o integrazione delle norme internazionali. Gli atti e le regole appaiono accomunati, sul piano funzionale, dalla strumentalità/accessorietà rispetto agli atti giuridicamente vincolanti.

Tutto questo premesso, appare piuttosto evidente che il processo di integrazione giuridica coinvolge anche il soft law, sia sul piano normativo, sia rispetto a quello istituzionale. Il primo sviluppo è intuitivo: il soft law differisce dall’hard law in ragione degli effetti (non vincolanti), non per la natura e la struttura delle regole che lo compongono. Quanto al profilo istituzionale, diversamente, attraverso il soft law si manifesta, nella maniera più concreta possibile, la socialità del diritto, intesa come formazione delle regole giuridiche in maniera diffusa, partendo dai soggetti che compongono la società civile. Da questo punto di vista, si tratta di uno strumento estremamente flessibile, in grado di coinvolgere gli attori istituzionalmente deputati alla produzione del diritto ma, altresì, i soggetti (privati) cui il diritto è rivolto.

Da ultimo, si deve rilevare che tale fenomeno riguarda sia il diritto internazionale, dove il soft law è nato e si è sviluppato, ma in maniera altrettanto significativa anche il diritto dell’UE. Nell’ambito del diritto internazionale uno degli esempi più conosciuti è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948[29] che ha costituito la base dei successivi trattati internazionali Onu in materia di diritti dell’uomo. Restringendo lo sguardo alla materia tributaria, il Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni[30] e il relativo Commentario elaborato dall’Ocse a partire dal 1963. Nell’ambito dell’ordinamento UE, da anni la dottrina sta indagando il rapporto fra raccomandazioni, comunicazioni e codici di condotta e l’evoluzione del coordinamento della materia tributaria[31]. In questo caso, il soft law diviene lo strumento che consente di aggirare il vincolo dell’unanimità per l’armonizzazione del settore tributario.

Volendo trarre delle conclusioni, e cercando un’espressione di sintesi che descriva efficacemente il fenomeno, si deve ricorrere nuovamente al lessico giuridico tedesco: l’integrazione giuridica europea ha prodotto una Rechtsgemeinschaft[32]. Tale “comunità di diritto” si caratterizza per un ordinamento integrato con quello degli Stati membri ma, anche, per un circuito istituzionale integrato, fonte della legalità comune.

Come si è già anticipato, il processo di integrazione coinvolge anche le norme internazionali. In questo caso, tuttavia, si tratta di un fenomeno quantitativamente diverso rispetto al processo d’integrazione europeo. L’integrazione giuridica delle norme internazionali riguarda, infatti, esclusivamente i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo come riconosciute dai trattati internazionali, ovvero si riferisce a quelle norme dotate di una significativa rilevanza assiologica nel panorama del diritto internazionale[33]. Nel contesto europeo, il riferimento obbligato è alla CEDU, la cui adozione sottende un patrimonio culturale e giuridico in larga parte comune agli Stati contraenti[34].

Si tratta, nondimeno, di un fenomeno qualitativamente simile a quello del processo di integrazione europeo perché, oltre all’integrazione normativa, sottende anche un sistema istituzionale integrato. Di nuovo, nel caso della CEDU, il ruolo svolto dalla Corte CEDU è essenziale e determinante per la creazione di un pensiero giuridico comune.

Questa prima parte non richiede particolari conclusioni, già tratte nel corso dell’esposizione. Tuttavia, un punto merita di essere richiamato, quello relativo alla trasformazione del concetto di sovranità. Non vi è alcun dubbio che il concetto abbia passato indenne le vicende storiche che, a partire dal XVII secolo, momento dell’iniziale teorizzazione, lo hanno condotto fino all’attuale globalizzazione economica e finanziaria. Non vi è alcun dubbio, nondimeno, che il concetto abbia subito profonde mutazioni del proprio significato, passando dalla simbiosi col potere, inteso come supremazia, dello Stato-soggetto alla supremazia assiologica, all’interno dell’ordinamento, dei principi fondamentali sui cui poggia. Si tratta di un percorso storico lungo più di 150 anni che segna il definitivo declino del “sovrano” per affermare l’ascesa dei valori comuni a una comunità statale, europea e internazionale.

 

5. Il caso fiscale

5.1 Il principio di eguaglianza tributaria

In materia tributaria, l’esempio più significativo del processo di integrazione dei principi è quello dell’eguaglianza.

In termini generali, l’eguaglianza rappresenta uno dei valori fondanti i sistemi giuridici contemporanei (almeno del continente europeo)[35] e la sua carica assiologica deriva direttamente dalla rivoluzione francese, segnando la definitiva rottura con l’ancien régime.

Né l’ordinamento dell’Unione Europea né la CEDU prevedono, almeno formalmente, un generale principio di eguaglianza. Entrambi, all’opposto, prevedono un principio di non discriminazione limitato, nel caso dell’UE, alla nazionalità e al sesso, almeno fino all’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE[36]. Tuttavia, l’evoluzione giurisprudenziale ha mostrato la progressiva costruzione di un vero e proprio principio di eguaglianza quale fondamento dell’ordine giuridico europeo, esteso anche fuori dalla materia economica. La formale positivizzazione è avvenuta con l’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Limitando l’attenzione all’ordinamento dell’UE e ai soli profili economici, è possibile ricondurre la disciplina del mercato interno dettata dai trattati al comune valore dell’eguaglianza[37]. Questa affermazione richiede qualche ulteriore precisazione.

Non s’intende sostenere che la disciplina del mercato interno poggi esclusivamente sul principio di eguaglianza. Al di fuori della materia tributaria, ovvero in materia tributaria nell’ambito della libera circolazione delle merci, il mercato interno garantisce e tutela non solo l’eguale trattamento, bensì anche la libera circolazione in senso proprio[38]. Tuttavia, in materia tributaria, la giurisprudenza della Corte di Giustizia risolve ogni questione di compatibilità fra i sistemi tributari statali e il mercato interno nei termini dell’eguale trattamento fra le situazioni transfrontaliere e le situazioni puramente interne. In questo senso, le libertà fondamentali e il divieto di aiuti di Stato assumono, in primo luogo, la forma tripartita del classico giudizio di eguaglianza – fattispecie concreta, tertium comparationis e disciplina positiva – ma, anche, la forma del giudizio di proporzionalità (o di ragionevolezza, secondo la definizione italiana) fra la disciplina tributaria statale e l’obiettivo (o l’interesse europeo o statale) perseguito.

Come è noto, la giurisprudenza europea sul punto è sterminata. In ambito di libertà fondamentali, l’eguale trattamento si misura attraverso il divieto di discriminazione e di restrizione, rispettivamente nello Stato della fonte del reddito (o del patrimonio) e nello Stato della residenza del possessore del reddito (o del patrimonio)[39]. In relazione alla nozione di divieti di aiuti di Stato, centralità assume il concetto di “selettività”, nelle forme materiale e regionale. In particolare, l’applicazione della prima alle disposizioni tributarie implica il confronto fra la disciplina statale “agevolativa” e quella qualificata come “ordinaria”[40]. Dalla commensurabilità delle due discipline deriva l’incompatibilità della disciplina statale “agevolativa”[41], salvo possa soddisfare e sia proporzionale a un interesse europeo.

In questo senso, l’interpretazione dell’art. 3 della Costituzione italiana (ma, allo stesso risultato si deve giungere per gli altri principi di eguaglianza contenuti nelle altre Carte costituzionali europee) deve essere tale da proibire qualsiasi discriminazione fondata sulla residenza del soggetto ovvero sulla localizzazione del reddito al di fuori del territorio statale, nonché diretta a proibire quelle agevolazioni fiscali che avvantaggino solo alcune imprese o produzioni. Come si è anticipato nel paragrafo 4., diviene irrilevante la fonte di produzione e di appartenenza della disposizione; diversamente, ciò che rileva è il suo contenuto materiale che si integra, secondo il significato attribuito dalla giurisprudenza europea, alla disposizione costituzionale statale.

È appena il caso di notare che gli effetti assumono rilevanza sia sul piano normativo, perché muta il significato del principio di eguaglianza attraverso l’integrazione di quello europeo, sia sul piano ermeneutico, poiché il parametro normativo diviene vincolante per l’interpretazione adeguatrice[42].

Volgendo lo sguardo all’art. 14 della Convenzione CEDU, occorre preliminarmente notare che si tratta di una previsione generale, che si estende a qualsiasi forma di discriminazione, e che è applicabile solo in caso di combinata applicazione con, o di violazione sostanziale di, un’altra disposizione convenzionale. Sebbene la Corte CEDU abbia riconosciuto l’applicabilità dell’art. 14 anche alla materia tributaria, ne ha fatto un’applicazione piuttosto ristretta, valorizzando in maniera significativa la discrezionalità degli Stati membri[43]. Questo principio non assume, dunque, quella portata assiologica che il medesimo principio assume all’interno dell’ordinamento dell’UE.

 

5.2 L’abuso del diritto in materia tributaria

Un secondo esempio di integrazione giuridica concerne la contaminazione prodotta dal riconoscimento del divieto di abuso del diritto nell’ambito del sistema dell’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) e quale giustificazione del diverso trattamento nell’ambito delle libertà fondamentali da parte della giurisprudenza europea.

Il percorso è sufficientemente noto e merita di essere ripercorso in questa sede solo per sommi tratti. Dopo il riconoscimento, con la sentenza Halifax, del divieto di abuso del diritto nel sistema comune IVA[44], anche la Corte di Cassazione, innovando il proprio precedente orientamento giurisprudenziale, ritenne applicabile suddetto divieto anche al settore dell’imposizione diretta, dovendo gli Stati membri “esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle libertà fondamentali contenuti nel Trattato CE[45].

Pur premettendo che le conclusioni cui giunse la Corte non erano pienamente condivisibili, perché il divieto di abuso del diritto non è un principio “generale” dell’ordinamento UE, ma assume funzioni e contenuti differenti in ragione dei diversi settori a cui è applicato[46], come del resto riconosciuto successivamente dalla medesima giurisprudenza di legittimità[47], l’operazione compiuta dal giudice nazionale appartiene chiaramente alla teorica dell’integrazione giuridica.

Ma vi è di più. È difficilmente dubitabile che l’evoluzione del divieto di abuso del diritto nell’ordinamento dell’UE non abbia significativamente condizionato le scelte interpretative operate dal giudice di legittimità, dapprima estendendo il divieto anche all’ambito dei tributi non armonizzati e, successivamente, riconoscendo la “esistenza di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano[48]. Si tratta di una conclusione che è chiaramente sintomatica di quel processo di integrazione giuridica di tipo istituzionale sopra evidenziato, derivante dal dialogo fra corti appartenenti (formalmente) a ordinamenti giuridici differenti. Dialogo che si traduce, sul piano normativo, nella creazione di un ordinamento giuridico integrato e, sul piano culturale, di un pensiero giuridico comune.

Un processo analogo si sta realizzando anche in relazione al principio del contraddittorio. Nella recente sentenza 18 settembre 2014, n. 19667, la Corte di Cassazione, dopo aver riconosciuto rilevanza costituzionale al modello della “«decisione partecipata» mediante la promozione del contraddittorio (…) tra amministrazione e contribuente”, afferma che “[i]l rispetto dei diritti della difesa e del diritto che ne deriva, per ogni persona, di essere sentita prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi, costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione, come afferma – ricordando la propria precedente sentenza del 18 dicembre 2008, in causa C-349/07 Sopropè[49] – la Corte di Giustizia nella sua recentissima sentenza del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellman Worldwide Logistics BV[50]” (punto 15.2.).

 

5.3 Il divieto di imposizioni tributarie confiscatorie

L’art. 1 del primo Protocollo CEDU prevede, per un verso, che “[e]very natural or legal person is entitled to the peaceful enjoyment of his possessions” e, per altro verso, che la privazione della proprietà deve essere consentita a specifiche condizioni, sostanziali e formali[51]. In aggiunta, la medesima disposizione dispone che il riconoscimento di tale diritto non può privare lo Stato contraente del potere “to enforce such laws as it deems necessary to control the use of property in accordance with the general interest or to secure the payment of taxes or other contributions or penalties”.

L’interpretazione che si è progressivamente consolidata nella giurisprudenza europea è quella di considerare l’imposizione tributaria come una “interferenza” legittima che si frappone all’esercizio della proprietà privata[52]. Ciò produce due (principali) conseguenze. Per un verso, poiché limite negativo all’esercizio di un diritto fondamentale, l’intervento dell’autorità pubblica non può tradursi in un’imposizione eccessiva o tale da ledere fondamentalmente la situazione finanziaria dell’individuo[53]. Per altro verso, proprio perché “interferenza”, la norma ammette che gli Stati contraenti possano prevedere una regolamentazione speciale al fine di garantire la riscossione delle imposte (o, detto altrimenti, l’interesse fiscale statale).

Con riguardo alla questione dell’imposizione eccessiva, essa appare il risultato di un giudizio di bilanciamento dei diritti, ove il giudice europeo si propone la realizzazione di un “«fair balance» between the demands of the general interest of the community and the requirements of the protection of the individual’s fundamental rights[54]. Tale bilanciamento è informato a un duplice accertamento: quello relativo allo scopo perseguito dalla disciplina tributaria nazionale e quello di una “reasonable relationship of proportionality between the means employed and the aim sought to be realised[55]. In una prima approssimazione, dunque, si ripropone nel sistema convenzionale la medesima dicotomia che parte della dottrina italiana ha elaborato in riferimento alla natura dei vincoli costituzionali posti all’esercizio della potestà tributaria, sia con riferimento all’individuazione della fonte del tributo e sia alla quantificazione del fatto economico posto alla base del concorso[56].

La conclusione che si può dunque trarre da questa sintetica ricostruzione è che la CEDU influenza le regole nazionali relative alla quantificazione dell’obbligazione tributaria, integrando, in questo modo, il principio della capacità contributiva, nel senso che tale obbligazione non può essere eccessiva o particolarmente lesiva della fonte economica assunta quale indice del concorso alla spese pubbliche. Pur restando titolare della potestà tributaria e delle relative scelte, in particolare con riguardo ai fatti economici da sottoporre a imposizione, il legislatore nazionale è vincolato dall’art. 1 del Protocollo nella determinazione della misura massima dell’obbligazione tributaria.

Anche l’analisi della disciplina tributaria “sostanziale” contenuta nella CEDU consente di far emergere, dunque, le medesime conclusioni a cui si è giunti in relazione all’ordinamento dell’UE: la prospettiva attraverso cui indagare il rapporto fra fonti e, ancor prima, le relazioni fra ordinamenti, è quella propria dell’integrazione giuridica, normativa e istituzionale.

 

6.Conclusioni

Le conclusioni sono piuttosto agevoli e non richiedono un particolare spazio.

L’esperienza europea e il riconoscimento internazionale dei diritti dell’uomo hanno prodotto una rivoluzione nel pensiero giuridico emerso alla fine dell’Ottocento. Tale rivoluzione ha travolto il modo d’intendere le fonti del diritto e i rapporti fra ordinamenti giuridici. Riguardo alle prime, si è prodotta la prevalenza delle sostanza – le norme – rispetto alla forma – le fonti. In relazione ai rapporti fra ordinamenti giuridici, diversamente, questi devono essere ricostruiti nei termini di integrazione, di norme e di istituzioni.

 

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* Come citare questo articolo: G. Bizioli, L’integrazione giuridica delle norme tributarie interne, internazionali ed europee, in Studi Tributari Europei, n. 1/2015 (ste.unibo.it), pag. 32-52.

[1] Gianluigi Bizioli, Professore Associato di Diritto Tributario all’Università di Bergamo.

[2] Il riferimento è a Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, Padova, 2008.

[3] Una delle più chiare espressioni di questa dottrina si trova in G. Jellinek, Die Lehre von den Staatenverbindungen, Berlin, 1882, p. 16 ss.: “Was bis jetzt nur trotz der Souveränität und gegen die Souveränität behauptet werden konnte, kann nur durch die Souveränität erklärt werden” (p. 36).

[4] Da F. Modugno, Pluralità degli ordinamenti, in Enciclopedia del Diritto, Vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 1 (p. 2 ss.).

[5] Il riferimento deve intendersi, ovviamente, al concetto formale di fonte, come atto autorizzato a produrre norme giuridiche. Così, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Vol. I, Padova, 1970, p. 44 ss. La dottrina costituzionalistica riconosce l’esistenza anche di un concetto materiale di fonte, individuato da ogni atto che produce effettivamente norme giuridiche. Sul punto, cfr. anche R. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici, Milano, 2010, p. 45 ss., in Trattato di diritto civile e commerciale.

[6] Il fenomeno è colto soprattutto dagli storici del diritto: “[i]l paesaggio giuridico di allora si presentava assai ristretto. Lo Stato si proponeva come il produttore necessario del diritto, l’unico ente capace di conferire a una regola sociale il crisma di giuridicità. Il diritto si riduceva perciò in leggi, cioè in manifestazione della volontà suprema dello Stato, e si inchiodò il sistema delle fonti in una rigida piramide gerarchica che toglieva vigore alle manifestazioni di grado inferiore” (così, P. Grossi, Società, diritto, Stato, Vol. 70, Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 2006, p. 239). Lo stesso Autore prosegue con un giudizio: “[i]n questo clima giuridico proto-moderno non c’è molto spazio per i giuristi, siano essi teorici o pratici. È il tempo della mitizzazione legislativa, della legolatria più spinta, in cui l’unico soggetto legittimato ad esprimere una volontà e ad avere un ruolo non solo attivo ma addirittura monopolistico è il legislatore. Al culto della legge non può che accompagnarsi per ogni giurista dottrinario o empirico quella dimensione passiva umile servile che suol condensarsi nella esegesi, un termine non a caso preso a prestito dai teologi e ben eloquente della necessaria passività dell’interprete nei confronti di un testo ritenuto sacro” (p. 239-240).

[7] L’espressione è di A. von Bogdandy, Common principles for a plurality of orders: A study on public authority in the European legal area, in International Journal of Constitutional Law, 2014, p. 980 (p. 984).

[8] G. Jellinek, Allegemeine Staatslehre, Berlin, 1900, citato nella traduzione italiana La dottrina generale dello Stato. I. Studi introduttivi – Dottrina generale sociale dello Stato, Milano, 1921, p. 669.

[9] Come è noto, quella descritta non è la sola ricostruzione teorica delle dottrine dualiste né la sola ricostruzione teorica dei rapporti fra ordinamenti giuridici affermatasi nel XX secolo. Per una sintetica esposizione, si rinvia a G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, cit., p. 2 ss.

[10] È appena il caso di ricordare che uno dei concetti di sovranità sviluppati da G. Jellinek appartenevano al mondo “reale” e dovevano intendersi come volontà dello Stato inteso in senso ipostatizzato e antropomorfo. G. Jellinek, Allegemeine Staatslehre, cit., p. 71-72.

[11] In questi termini, M. Branca, Il punto sui “controlimiti”, in Giurisprudenza costituzionale, 2014, p. 3899.

[12] Bundesverfassungsgericht, sentenza 29 maggio 1974, Solange I (BVerGE 37, 271 ss.).

[13] L’espressione deve essere intesa nella “convinzione che (…) il diritto, nella sua essenza, fisiologicamente, è espressione fedele di una civilità” (P. Grossi, Pensiero giuridico (Appunto per una ‘voce’ enciclopedica), Vol. XVII, Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 1988, p. 263 (p. 264). L’Autore continua osservando che “l’Occidente ha avuto il singolare privilegio di aver costruito la propria civiltà come diritto; la sua è innanzi tutto una civilità giuridica, nel senso che un ruolo decisivo nella sua architettura progettuale spetta al diritto” (p. 265).

[14] Corte di Giustizia, sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, NV Algemene Transport- en Expeditie Onderneming van Gend & Loos v Amministrazione olandese delle imposte, in Racc. p. 3.

[15] Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

[16] Patto Internazionale relativo ai Diritti Civili e Politici.

[17] Corte Costituzionale, sentenza 19 gennaio 1993, n. 10.

[18] Limitatamente all’ambito tributario, tentativi in questa direzione sono quelli tentati, fra gli altri, da L. Ferlazzo Natoli, Rapporto tra ordinamento comunitario ed interno nel diritto tributario: dalla teoria dualista a quella monista?, p. 323, in L. Perrone e C. Berliri (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli-Roma, 2006.

[19] R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, Berlin, 1928.

[20] Così, P. Pescatore, International Law and Community Law – A Comparative Analysis, in Common Market Law Review, 1970, p. 167 (p. 169).

[21] H.P. Ipsen, Europäisches Gemeinschaftsrecht, Tübingen, 1972, p. 196.

[22] La distinzione è enucleata da G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, in Diritto Pubblico, 2005, p. 749 (p. 759 ss.).

[23] L’integrazione del diritto statale è stata affermata dalla Corte di Giustizia, sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internationale Handelsgesellschaft mbH v Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel, in Racc. p. 1125: “[l]a tutela dei diritti fondamentali costituisce infatti parte integrante dei principi giuridici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza” (punto 4). Quella del diritto internazionale, Corte di Giustizia, sentenza 14 maggio 1974, causa 4/73, J. Nold, Kohlen- und Baustoffgroßhandlung v Commissione delle Comunità europee, in Racc. p. 985: “[i] trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario” (punto 13). Per ulteriori riferimenti, si rinvia a G. Bizioli, Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale, cit., p. 67 ss.

[24] G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, cit., p. 751.

[25] La dottrina, sul punto, è sterminata. Per un’analisi che si avvicina a quella effettuata in queste pagine, cfr. A.M. Slaughter, A. Stone Sweet, J.H.H. Weiler, The European Court and National Courts, Oxford, 1998, p. 227 ss.

[26] G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, cit., p. 774.

[27] La migliore traduzione italiana è quella di atti “quasi-giuridici” (A. Tanzi, Introduzione al diritto internazionale contemporaneo, Padova, 2003, p. 169). Riferisce M. Distefano, Origini e funzioni del soft law in diritto internazionale, in Lavoro e Diritto, 2003, p. 17 (p. 18), che l’espressione è stata coniata, in una serie di interventi orali, da Lord A.D. McNair verso la fine degli anni ’60.

[28] Per un’introduzione al soft law, si rinvia, a M. Distefano, Origini e funzioni del soft law in diritto internazionale, cit., p. 20 ss. e, per la materia tributaria, a H. Gribnau, Improving the Legitimacy of Soft Law in EU Tax Law, in Intertax, 2007, p. 30 (p. 33).

[29] Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

[30] Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni.

[31] Per approfondimenti, si rinvia a G. Melis, Coordinamento fiscale nell’Unione europea, in Enciclopedia del Diritto, Annali, I, Milano 2007, p. 394 (p. 407 ss.) e H. Gribnau, Improving the Legitimacy of Soft Law in EU Tax Law, p. 30 ss.

[32] L’espressione è stata accolta anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 23 aprile 1986, causa 294/83, Parti écologiste “Les Verts” v Parlamento europeo, in Racc. p. 1339, punto 23.

[33] Anche su questo tema la dottrina è sterminata. Una prima introduzione alla questione si trova in I. Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, in Common Market Law Review, 1999, p. 703 e A. Ruggeri, Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, in Diritto e Società, 2000, p. 141.

[34] È noto che la giurisprudenza costituzionale italiana è assestata su posizioni formalistiche e non accoglie questa sistematizzazione. A partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n. 348 e 349, che per la prima volta affrontano l’interpretazione del novellato art. 117, comma 1, Cost., le norme CEDU sono qualificate quali “norme interposte”, dotate della forza di produrre l’incostituzionalità di norme primarie in contrasto. Al punto 3.3. della sentenza n. 348 la Corte afferma che “[l]a distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto”.

[35] In termini esemplificativi, art. 1 della Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen (richiamata dalla Costituzione francese vigente); art. 3 della Grundgesetz; art. 3 della Costituzione italiana e art. 14 della Constitución española.

[36] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a G. Bizioli, Il principio di non discriminazione, p. 191 ss., in A. Di Pietro e T. Tassani, I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013.

[37] Di nuovo, ampi approfondimenti sono contenuti in G. Bizioli, Il principio di non discriminazione, cit., p. 197 ss.

[38] La distinzione è elaborata e gli effetti approfonditi da M. Lehner, Limitation of the national power of taxation by the fundamental freedoms and non–discrimination clauses of the EC Treaty, in EC Tax Review, 2000, p. 5 (p. 7 ss.) e da E. Reimer, Die Auswirkungen der Grundfreiheiten auf das Ertragsteuerrecht der Bundesrepublik Deutschland – Eine Bestandsaufnahme –, p. 39 (p. 58-59), in M. Lehner (Hrsg.), Grundfreiheiten im Steuerrecht der EU-Staaten, München, 2000).

[39] Un tentativo di ricostruzione sistematica della tumultuosa evoluzione della giurisprudenza tributaria in materia di libertà fondamentali si rinviene in C. Sacchetto, Le libertà fondamentali ed i sistemi fiscali nazionali attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in materia di imposte dirette, p. 43 ss., in La normativa tributaria nella giurisprudenza delle Corti e nella nuova legislatura. Atti del Convegno “Gli ottanta anni di Diritto e Pratica Tributaria” (Genova, 9-10 February 2007), coordinato da V. Uckmar, Padova, 2007; F.A. García Prats, Imposición directa, no discriminación y derecho comunitario, Madrid, 1998; M. Isenbaert, EC law and the sovereignty of the member states in direct taxation, Amsterdam, 2010.

[40] La questione è, da ultimo, approfondita da C. Micheau, State Aid, Subsidy and Tax Incentives under EU and WTO Law, Alphen aan den Rijn, 2014, p. 219 ss., la quale osserva preliminarmente: “assessing the selectivity of a tax measure requires defining a dividing line between general and specific tax measures” (p. 224).

[41] In giurisprudenza questo approccio trova conferma nella sentenza 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline GmbH e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke GmbH v Finanzlandesdirektion für Kärnten, in Racc. p. 8365: “[a]i fini dell’applicazione dell’art. 92 del Trattato, è irrilevante che la situazione del presunto beneficiario del provvedimento sia migliorata o aggravata con riferimento alla situazione giuridica precedente o, all’opposto, non sia evoluta nel tempo (v., in tal senso, sentenza 7 giugno 1988, causa 57/86, Grecia/Commissione, Racc. pag. 2855, punto 10). Occorre unicamente determinare se, nell’ambito di un dato regime giuridico, un provvedimento statale sia tale da favorire «talune imprese o talune produzioni» ai sensi dell’art. 92, n. 1, del Trattato rispetto ad altre imprese che si trovino in una situazione fattuale e giuridica analoga tenuto conto dell’obiettivo perseguito dal provvedimento interessato” (punto 41).

[42] Questo effetto è colto e approfondito da G. D’Angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, p. 59 ss., il quale distingue le conseguenze interpretative in ragione dei diversi ambiti tributari (imposte dirette, indirette, procedimento e processo).

[43] In questo filone giurisprudenziale si inseriscono, per esempio, quelle pronunce di rigetto in merito al carattere discriminatorio del differente trattamento fiscale fra reddito di lavoro dipendente e reddito di lavoro autonomo (ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 19 dicembre 1974, X v. Austria) e del differente trattamento fiscale fra coppie sposate e non sposate (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 ottobre 1993, Feteris-Geerards v. The Netherlands).

[44] Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd e County Wide Property Investments Ltd v Commissioners of Customs & Excise, in Racc. p. 1609, nei seguenti termini: “l’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti, estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario. Questo principio di divieto di comportamenti abusivi si applica anche al settore IVA” (punti 69 e 70).

[45] Corte di Cassazione, V, sentenza 29 settembre 2009, n. 21221, punto 3.5. L’interpretazione è stata ribadita nelle sentenze 4 aprile 2008, n. 8772, 21 aprile 2008, n. 10257, 15 novembre 2008, n. 23633 e 17 ottobre 2008, n. 25374.

[46] Questa ricostruzione è rinvenibile, inter alia, in F. Vanistendael, Cadbury Schweppes and Abuse from an EU Tax Law Perspective, p. 407 (p. 422 ss.), in R. de la Feria and S. Vogenauer (Eds.), Prohibition of Abuse of Law. A New General Principle of EU Law?, Oxford and Portland, 2011.

[47] Corte di Cassazione, ss.uu., sentenze 24 dicembre 2008, n. 30055, n. 30057 e n. 30058.

[48] Corte di Cassazione, sentenza n. 30055 del 2008, punto 2.2.

[49] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropè.

[50] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 3 luglio 2014, C-129/13, Kamino International Logistics.

[51] Nella versione ufficiale in lingua inglese, questa è la formulazione della disposizione: “[e]very natural or legal person is entitled to the peaceful enjoyment of his possessions. No one shall be deprived of his possessions except in the public interest and subject to the conditions provided for by law and by the general principles of international law. The preceding provisions shall not, however, in any way impair the right of a State to enforce such laws as it deems necessary to control the use of property in accordance with the general interest or to secure the payment of taxes or other contributions or penalties”.

[52] Cfr., da ultimo, Corte EDU, sentenza 2 luglio, 2013, R.Sz. v. Hungary, punto 31. Si noti che la giurisprudenza europea utilizza il termine “interferenza” quale sintesi dei concetti di privazione del diritto di proprietà (seconda frase del primo para.) e di regolamentazione del medesimo (secondo para.). Questa sistemazione teorica trova riscontri anche nella dottrina, soprattutto anglosassone. È sufficiente citare R. Nozick, Anarchy, State, and Utopia, New York, 1977, p. 169: “[t]axation of earnings from labor is on a par with forced labor” e R.A. Epstein, Taxation in a Lockean World, in Soc. Phil. Pol., 1986, p. 49: “[t]axation is the power to coerce other individuals to surrender their property without their consent”.

[53] Per una delle prime pronunce in questo senso, Commissione EDU, decisione 14 dicembre 1988, Wasa Liv Ömsesidigt, Försäkringbolaget Valands Pensionsstiftelse, a group of approximately 15.000 individuals v. Suède, in D.R. n. 58, p. 163: “(…) though it is certain that no general prohibition of taxes payable exclusively out of the tax-payer’s capital can ben derived from Article 1 (P1-1), a financial liability arising out of the raising of taxes or contributions may adversely affect the guarantee secured under this provision if it places an excessive burden on the person or entity concerned or fundamentally interferes with his or its financial position”. Più recentemente, Corte EDU, sentenza 3 luglio 2003, Buffalo, punto 32; decisione 3 giugno 2004, Di Belmonte (n. 2) c. l’Italie, punto 1 in diritto; sentenza 4 gennaio 2008, Imbert de Tremiolles c. France; sentenza 16 marzo 2010, Di Belmonte c. Italie, punto 40; sentenza 20 settembre 2011, Yukos, punto 606; sentenza 14 maggio 2013, N.K.M. v. Hungary, punti 60 e 70-72; sentenza 25 giugno 2013, Gáll, punti 59 e 69-71; sentenza 2 luglio 2013, R.Sz., punti 49 e 59-61. In termini formalmente differenti, ma identici nella sostanza, cfr. sentenza 23 febbraio 1995, Gasus, punto 67: “it was already understood to reserve the States’ power to pass whatever fiscal laws they considered desirable, provided always that measures in this field did not amount to arbitrary confiscation”; sentenza 11 ottobre 2005, Masa Invest Group v. Ukraine. Nota R. Ergec, Taxation and Property Rights under the European Convention on Human Rights, in Intertax, 2011, p. 2, che “recent case law has a broader approach by avoiding the term “confiscation””(p. 3).

[54] Commissione EDU, decisione 14 dicembre 1988, Wasa Liv Ömsesidigt, Försäkringbolaget Valands Pensionsstiftelse, a group of approximately 15.000 individuals v. Suède, in D.R. n. 58, p. 163. Da ultimo, Corte EDU, R.Sz. v. Hungary, punto 31.

[55] Da ultimo, Corte EDU, sentenza 2 luglio 2013, R.Sz., punto 31.

[56] In questo senso, per tutti, E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2007, p. 84.