Diritto tributario europeo e diritto tributario internazionale*

 

 

Philippe Marchessou[1]

 

 

1. Introduzione

L’interesse nel trattare questo tema risiede principalmente nella difficoltà di delimitarne l’ambito di ricerca: esiste un diritto tributario internazionale? Ancora, quali sono le componenti fondamentali del diritto tributario europeo? Tali domande si impongono ancor prima di analizzare le relazioni intercorrenti tra il diritto tributario europeo e quello tributario internazionale. Esistono due modi di concepire il diritto internazionale. Da un lato, può essere l’espressione di Stati in posizione paritaria tra loro che, al fine della creazione del diritto internazionale, delegano una parte delle loro competenze per metterle in comune e, così facendo, rinunciano ad una parte della loro sovranità. Dall’altro, questo ramo del diritto può caratterizzarsi per la messa in risalto di principi comuni e preesistenti. Queste due concezioni, lontane dall’essere in contrapposizione, sembrano piuttosto unirsi e fornire, congiuntamente, la struttura portante del diritto tributario internazionale. È poi necessario delineare i contorni del diritto tributario internazionale. Lo scopo del diritto tributario è quello di legittimare l’imposizione, di definire le regole concernenti i singoli tributi e le modalità della loro riscossione. L’imposta è un prelievo finalizzato al soddisfacimento dei bisogni della collettività pubblica: il legame intercorrente tra imposizione e collettività è talmente stretto che la prima concorre a definire la stessa nozione di collettività. Come prima approssimazione si può dire che il potere d’imposizione dello Stato è elemento centrale della sua sovranità. Non si deve però dimenticare che il potere impositivo può essere costituzionalmente riconosciuto alle autonomie territoriali (se lo Stato è federale o decentralizzato) e, in via eccezionale, ad alcune organizzazioni internazionali: l’Unione Europea, ad esempio, percepisce i diritti doganali, una parte dell’IVA riscossa dagli Stati membri e l’imposta sul reddito dei propri funzionari. A partire da questa constatazione si può affermare che il diritto tributario internazionale è formato da due componenti. La prima, che ne rappresenta il fulcro, organizza la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati evitando sovrapposizioni. Dal momento che i soggetti coinvolti sono gli Stati verrà utilizzato il diritto internazionale pubblico e, dunque, gli strumenti che operano sotto condizione di reciprocità, in particolare le convenzioni internazionali. Tuttavia le tecniche poste in essere per evitare i conflitti di competenza tra gli Stati sovrani sono quelle tipiche del diritto internazionale privato: il rinvio alla legge del Paese di residenza e la scelta della regola lex rei sitae per l’imposizione degli immobili sono due esempi significativi. Questa prima componente del diritto internazionale ne rappresenta sicuramente il fulcro, ma è necessario ricordare che la sua dimensione è minimale, dal momento che non esiste se non sotto forma di accordi bilaterali e con lo scopo prevalente di assicurare un equilibrio ragionevole tra Stati fiscalmente sovrani. In altre parole, fornisce delle soluzioni per risolvere gli eventuali conflitti tra Stati ma non prevede norme sostanziali. La seconda componente del diritto tributario internazionale è meno affermata ma ha grandi potenzialità future. Questa seconda componente parte dalla ricerca di eventuali standard di diritto tributario internazionale o, perlomeno, di principi regolatori della materia che si affermano nell’universo del diritto tributario internazionale e che hanno come denominatore comune una certa idea di uguaglianza in campo tributario. La prospettiva è in parte cronologica, ha inzio dall’esistenza di uno standard comune effettivo per evitare la doppia imposizione nella tassazione del consumo. Ed effettivamente la quasi totalità degli Stati al mondo si accordano per considerare esente da tassazione la merce in uscita dal Paese di esportazione, che poi transita in sospensione di imposta attraverso lo Stato (o gli Stati) di transito, per poi scontare l’imposizione solo nello Stato di destinazione finale, ossia lo Stato del consumo. Questa regola è ammessa in via consuetudinaria al fine di non penalizzare le esportazioni degli Stati. Per quanto concerne invece l’imposizione diretta in senso lato – l’imposta sul reddito delle persone fisiche, l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta sul patrimonio – la regola comune assume un carattere meno universale. Da molti decenni, o addirittura da secoli, esistono delle convenzioni bilaterali, ad oggi ve ne sono circa 3000, ma accanto agli Stati virtuosi firmatari di queste convenzioni, prosperano anche una decina di stati meno virtuosi che hanno in comune la mancata sottoscrizione di questo genere di accordi, alterando così il gioco della fiscalità internazionale. Questo quadro viene reso omogeneo dall’influenza direttrice esercitata dall’OCSE[2]. Questa organizzazione ha sviluppato l’elaborazione di modelli di convenzione le cui clausole sono riprese nella loro parte essenziale da tutti gli Stati contraenti. Il perseguimento omogeneo di tre obiettivi in tutti i testi convenzionali sottolinea la loro preminenza a livello internazionale. Primariamente queste convenzioni si prefiggono di lottare contro la doppia imposizione giuridica (imposte diverse vengono a gravare più volte sul medesimo soggetto, a causa del verificarsi di un unico presupposto impositivo) che appare come un fenomeno deprecabile nonostante nessuna norma positiva ne imponga il divieto. Per eliminare la doppia imposizione tutte le convenzioni privilegiano il criterio della residenza del contribuente al fine di stabilire quale Stato sia fiscalmente competente. Il secondo obiettivo è la lotta contro quei contribuenti che cercano di occultare materia imponibile tramite operazioni transfrontaliere. Questo obiettivo scaturisce dal principio di uguaglianza dinnanzi agli oneri pubblici dal momento che i comportamenti osteggiati hanno come conseguenza quella di alterare l’uguaglianza tra i contribuenti. L’uguaglianza è un principio di portata universale – nessuno Stato può attentare al principio di uguaglianza per il tramite dell’imposizione – ma la sua portata concreta è restata limitata fino agli ultimi anni, sia in ragione di un’insufficienza dello strumento convenzionale, sia in ragione della disapplicazione concreta delle disposizioni dedicate alla realizzazione di questo obiettivo. Dal 2009 ad oggi i sistemi posti in essere dalle convenzioni sono sensibilmente migliorati in termini di precisione ed efficacia. Il principio di uguaglianza è presente anche nel terzo obiettivo, cioè la lotta contro la discriminazione in ragione della nazionalità. Conducendo un’analisi sulla dimensione pratica di questi tre temi, così come affrontati dagli Stati nelle convenzioni, scaturisce l’immagine di un diritto tributario internazionale che riconosce largamente, coma una sorta di lingua franca, una teoria generale tributaria che comprende il principio di riserva di legge (fondamento storico delle democrazie rappresentative), il rispetto della capacità contributiva, l’uguaglianza di fronte agli oneri pubblici e la progressività (prevista attraverso la tecnica dell’aliquota effettiva globale). Le domande suscitate dal diritto tributario europeo sono meno “esistenziali”,perché è indubbio che esista un diritto tributario europeo, sebbene i suoi contorni siano difficili da delineare. Il diritto tributario europeo pare essere al servizio degli obiettivi tracciati dai Trattati, e questo lo porta ad avere due diversi aspetti. Da un lato, esiste un corpus di regole positive che definiscono i regimi di imposizione per le imposte che hanno un forte collegamento con gli obiettivi dell’Unione: un regime unificato per i dazi doganali ed uno altamente armonizzato per l’imposta sul consumo (IVA e accise). Dall’altro, per le imposte dirette, che ricadono sotto la competenza degli Stati membri, si constata un intervento marginale dell’Unione Europea, eccezion fatta per la Corte di Giustizia, garante delle libertà fondamentali dei Trattati e, dunque, sollecitata ad intervenire anche nel campo delle imposte dirette. Nel panorama dell’unione Europea coesistono dunque due forme di diritto: un diritto forte (droit dur) ed uno mite (droit mou). L’applicazione combinata di queste due forme del diritto tributario europeo è complicata ma efficiente, sicuramente in grado di gestire i problemi contemporanei della fiscalità transnazionale.

 

2. La differenza classica tra due ordinamento giuridici

È bene sottolineare in premessa che le manifestazioni del diritto tributario internazionale e di quello eurounitario si distinguono perché mirano all’ottenimento di obiettivi differenti e per raggiungerli utilizzano modalità diverse.

 

2.1 Differenza rispetto agli obiettivi perseguiti

Mentre il diritto tributario internazionale opera in una prospettiva eminentemente funzionale, quello europeo appare come elemento all’interno di un vero e proprio ordinamento giuridico.

 

2.1.1 Gli obiettivi del diritto tributario internazionale

A) La protezione della sovranità degli Stati 

Maxime Chrétien aveva mostrato come la sovranità impositiva sia un principio di diritto internazionale che presenta carattere essenzialmente territoriale[3], nella misura in cui le imposte straniere non sono applicabili sul territorio dello Stato, quest’ultimo detiene il monopolio dell’imposizione sul proprio territorio. Lo sviluppo degli scambi sta inevitabilmente scalfendo la certezza di questo schema classico e condurrà ad un modello di coabitazione sovrana tra Stati. Chrétien parla di diritto internazionale tributario, e non di diritto tributario internazionale, per sottolineare che siamo in presenza di una branca del diritto internazionale pubblico, volto comunque alla protezione degli Stati. La sua elaborazione è il frutto di una sedimentazione storica parallela all’evoluzione del mondo – lo sviluppo della circolazione delle persone e delle merci – ed alla crescente importanza del sistema fiscale di ciascun Stato, a volte in ragione degli sconvolgimenti portati dall’instaurazione dei regimi democratici e dal progresso economico, ma anche in ragione del formidabile aumento dei bisogni finanziari degli Stati a partire dal primo conflitto mondiale.

Le soluzioni sono elaborate all’interno di un diritto internazionale tributario creato a misura delle circostanze: di qui la necessità di ricostruire tale ramo del diritto tributario con un approccio cronologico. In funzione dei bisogni del contesto sono innanzitutto i diritti doganali, imposte semplici da istituire ed agevolmente riscuotibili dagli Stati, a costituire un terreno comune. I benefici generati dagli scambi commerciali transazionali prevalgono sui benefici derivanti dalla riscossione di questi tributi, di conseguenza alcuni Stati utilizzano lo strumento convenzionale per abolirli o alleggerirli attraverso la forma di un’unione doganale. È il caso della Lega Anseatica dal XIII al XVII secolo e dell’Unione doganale tedesca dal 1834. È subito dopo che nasce la preoccupazione per cui la doppia imposizione – ossia l’applicazione di due imposte a carico di un medesimo soggetto passivo sulla stessa base imponibile – sia una manifestazione di sovranità non solo portata all’eccesso, ma anche contro produttiva, e per conseguenza sia auspicabile eliminarla. Anche in questo caso la motivazione sottostante risiede nella volontà di non ostacolare la circolazione delle persone e gli scambi di merci a causa di un’applicazione troppo rigida di due o più regimi fiscali nazionali, che avrebbe come conseguenza quella di sottomettere la base imponibile all’imposizione simultanea di più Stati. La doppia imposizione giuridica risulta dall’esercizio simultaneo di più sovranità impositive e diventa un ostacolo da rimuovere, non solo per ragioni di uguaglianza ed equità di fronte all’imposta, ma soprattutto per ragioni di efficacia. In tale ottica ogni Stato ha interesse nel limitare la sua sovranità impositiva per permettere lo sviluppo degli scambi e, di conseguenza, generare redditi e risorse fiscali maggiori. Tale idea si radica anche nel campo delle imposte sul consumo, che presentano la caratteristica comune di essere imposte semplici e applicate da tutti gli Stati. Nell’ambito delle imposte sul consumo pare esserci un effettivo standard comune al fine di combattere contro la doppia imposizione. Invero, la quasi totalità degli Stati sono concordi nel ritenere che la merce debba fuoriuscire dal Paese di esportazione libera da tassazione, attraversare lo Stato (o gli Stati) di transito in regime di sospensione di imposta e sopportare il peso dell’imposizione solamente nello Stato finale (Stato del consumo). Tale regola non scritta è generalmente ammessa perché uno Stato non desidera penalizzare le proprie esportazioni, eccetto casi rari. L’uso di tale regola è talmente esteso che è possibile parlare di diritto consuetudinario. Tuttavia tale regola vale solamente nella misura in cui gli Stati la applichino e la sua violazione non è sanzionata.

La storia mostra l’apparizione di un’imposizione diretta moderna – sui redditi – a partire dal XIX secolo, nel 1848 nel Regno Unito, nel 1870 in Germania e nel 1914-1917 in Francia. Per queste tipologie di imposta il rischio di doppia imposizione appare ancora più possibile perché si tratta del prelievo fiscale del quale gli Stati sono più gelosi, nella misura in cui incarna il collegamento più profondo con il cittadino, richiamando il principio di capacità contributiva nello stato democratico. Le imposte dirette sono l’espressione più visibile della sovranità impositiva. Anche per queste imposte l’eliminazione della doppia imposizione giuridica è stata ritenuta necessaria: la realizzazione di tale obiettivo, tuttavia, è apparsa più difficile. Alcuni autori[4] sostengono che il potere degli Stati di sottoporre ad imposizione il reddito si inscriva all’interno di un diritto consuetudinario internazionale che propone allo Stato una scelta tra i seguenti criteri di assoggettamento all’imposta: la nazionalità, il domicilio o la residenza, una presenza o un’attività professionale effettiva all’interno del Paese, o, infine, la localizzazione all’interno del Paese di beni o di operazioni generanti reddito. Senza avere la precisione di uno standard né la forza di una consuetudine, questa regola è generalmente accolta e molti Stati l’hanno utilizzata in maniera esclusiva per decenni. Detto altrimenti, gli Stati hanno costruito i loro sistemi tributari nel rispetto di questi criteri, evitando così la nascita di situazioni di doppia imposizione giuridica. Tuttavia, lo sviluppo degli scambi, la loro complessità crescente e la tensione provocata dalla discrepanza tra gli schemi di ottimizzazione transnazionale e la rarefazione delle risorse pubbliche hanno indotto al maggior parte degli Stati del forum fiscale mondiale ad adottare delle convenzioni bilaterali. Il processo è iniziato nel XVIII secolo (convenzione Francia-Belgio 1843, convenzione del 1871 del Secondo Reich con gli Stati confinanti) ma si è sviluppato principalmente a partire dal XIX secolo, con una forte accelerazione a partire dagli anni 60. Nella maggior parte dei casi queste convenzioni uniscono gli Stati a due a due, esistono attualmente più di 3000 convenzioni. Insieme agli Stati virtuosi del forum mondiale fiscale che hanno concluso le convenzioni tra di loro, esiste anche, tuttavia, una decina di Stati che hanno in comune il fatto di non aver concluso questo tipo di accordi e di aver deregolamentato il gioco fiscale internazionale. Questo quadro è reso omogeneo dall’influenza direttrice dell’OCSE che, proseguendo i lavori preparatori svolti dalla Società delle Nazioni, ha sviluppato, a partire dal 1963, l’elaborazione di convenzioni modello le cui clausole sono riprese sostanzialmente da tutti gli Stati contraenti. Tali convenzioni perseguono tre obiettivi: questa comunanza di intenti rivela il desiderio di vederle preminenti nella regolamentazione della competenze fiscali tra Stati. Si tratta innanzitutto di lottare contro la doppia imposizione giuridica che appare come un fenomeno oggettivamente condannabile, al fine di eliminarla, infatti, tutte le convenzioni cercano di bilanciare correttamente il rispetto della sovranità impositiva di ogni Stato con la necessità di non ostacolare gli scambi commerciali. Nel far questo gli Stati privilegiano il criterio della residenza del contribuente per stabilire quale dei due sia competente. Tale regola, tuttavia, non viene considerata come un imperativo categorico. Gli Stati la applicano nella misura in cui la ritengano utile, ma non hanno un obbligo in tal senso: basti pensare che gli Stati possono addirittura convenire l’adozione di misure che lasciano un residuo di doppia imposizione. Il secondo obiettivo è la lotta contro la non imposizione dei contribuenti che tentano di sottrarre materia imponibile con l’utilizzo di operazioni transnazionali. Questo obiettivo è duplice, da un punto di vista tecnico si tratta di implementare il gettito derivante dalle imposte per finanziare le spese pubbliche, ottimizzando la base imponibile. Da un punto di vista politico, invece, può essere considerato un’emanazione del principio di uguaglianza davanti agli oneri pubblici dal momento che il comportamento osteggiato da tali convenzioni ha come conseguenza quella di infrangere l’uguaglianza tra i contribuenti. Si tratta di un obiettivo che concerne essenzialmente le imposte personali (imposta sul reddito, imposta sulle successioni) in ragione dell’equazione politica soggiacente. L’uguaglianza è un principio di portata universale – nessuno Stato, invero, può pensare di attentare a tale principio per il tramite dell’imposizione – ma la sua portata concreta è rimasta limitata agli ultimi anni, tanto in ragione dell’insufficienza del mezzo convenzionale, tanto in ragione della disapplicazione in concreto delle disposizioni relative a tale obiettivo. Dal 2009 le misure messe in atto hanno sensibilmente guadagnato in precisione e dunque in efficacia. Il principio di uguaglianza si ritrova anche nel terzo obiettivo, cioè nella lotta contro le discriminazioni in ragione della nazionalità, riassumibile nella massima secondo la quale due contribuenti di nazionalità diversa, ma residenti nello stesso Stato, devono essere trattati in maniera identica se la loro situazione è identica. Questo principio è considerato di lapalissiana evidenza a livello mondiale, perlomeno per gli Stati che hanno firmato le convenzioni. Il carattere dominante della filosofia neo-liberista e quello dell’opera posta in essere dall’ONU vanno nella stessa direzione. Maxime Chrétien non considerava il diritto internazionale tributario al di là di questa visione funzionale destinata a stabilire le competenze in materia fiscale degli Stati. Oggi, al di là di quanto sopra esposto che rappresenta il fulcro della dimensione internazione del diritto tributario, è possibile occuparsi prudentemente di una dimensione più ampia.

 

B) L’affermazione dei principi comuni

Attraverso l’ampiezza della pratica condotta dagli Stati su questi tre temi si intravede l’immagine di un diritto tributario internazionale che riconosce senza dubbio una sorta di lingua franca, una teoria generale (anteporre l’aggettivo tributario a quello internazionale dà priorità ai problemi fiscali odierni provocati da situazioni transnazionali subite/organizzate dai contribuenti). Questo ingloba il principio di riserva di legge, il rispetto della capacità contributiva, l’uguaglianza di fronte agli oneri pubblici e la progressività (raggiunta mediante l’utilizzo dell’aliquota effettiva globale). La necessità di efficienza si ricollega qui all’ideale democratico nella misura in cui uno Stato democratico e uno autoritario potranno firmare una convenzione bilaterale riguardante disposizioni che in certa maniera riflettono un’idea di equilibrio tra Stato e contribuente, o perlomeno una diminuzione dei poteri arbitrari del primo. Si tratta di una semplice constatazione statistica, precisando che circa una decina di Stati hanno firmato un numero ridotto di convenzioni – a volte nessuna – senza essere per questo motivo dei paradisi fiscali. Ogni Stato è libero di disapplicare le convenzioni che ha precedentemente firmato – caso della Danimarca nel 2009, che ha denunciato le convenzioni che aveva firmato con Francia e Spagna, e della Francia che ha denunciato nel giugno 2014 la convenzione con la Svizzera del 1953 relativa alle successioni, ma la soluzione che adotta a riscossione completata rispetta il quadro descritto da Gustafson e Peroni, a riprova che i contorni del diritto tributario internazionale sono più ampi di quelli riconosciuti da Chrétien.

 

2.1.2 Gli obiettivi del diritto tributario europeo

A) assicurare la realizzazione degli obiettivi del Trattato

Il diritto tributario europeo si atteggia a pieno titolo come la componente di un sistema giuridico transnazionale. Come tale assicura la realizzazione degli obiettivi del Trattato, e parimenti sorveglia gli ordinamenti tributari nazionali.

Le differenti norme – Trattati e diritto derivato – che intervengono nel ramo del diritto tributario fanno parte dell’insieme che costituisce il diritto dell’Unione e si mirano a raggiungere gli obiettivi dell’Unione Europea ed a  contribuire, di conseguenza, alla realizzazione del mercato unico nel rispetto delle libertà sancite dal Trattato. In altre parole, le disposizioni sono, come in un sistema tributario nazionale, un ambito specifico al servizio di un insieme politico coerente destinato a permettere il funzionamento delle attività pubbliche sul proprio territorio. È su questo piano che il diritto tributario europeo, attraverso le disposizioni che lo compongono, mostra la sua ricchezza sostanziale e la sua pertinenza a servizio della missione che gli è stata assegnata. Il diritto doganale costituisce la prima categoria di imposte unificate dal diritto unionale. Gli articoli 28-33 del TFUE disciplinano la libera circolazione della merce e mettono in atto un sistema uniforme di tassazione all’importazione. L’aver fissato una tariffa doganale comune è opera dell’Unione – nei limiti massimi imposti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Quanto alla riscossione dei diritti doganali, si richiama alla cooperazione delle agenzie doganali degli Stati membri, dal momento che si tratta di una risorsa propria del bilancio dell’Unione Europea. Altre imposte sono state armonizzate sotto l’egida dell’Unione Europea: l’imposta sul valore aggiunto e le accise, che costituiscono gettito principalmente per gli Stati membri – eccezion fatta per la frazione di IVA destinata all’Unione Europea – ma il fulcro della loro regolamentazione è stato elaborato a partire dall’art. 113 TFUE allo scopo di realizzare il mercato comune. La disciplina è dettata da diverse direttive, per l’IVA il testo essenziale è la VI Direttiva[5], consolidata dalla Direttiva 2006/112/CE[6]. Per i diritti di accisa sull’alcol, il tabacco e l’energia la normativa di riferimento è la Direttiva 2008/118/CE[7]. L’armonizzazione sostanziale che caratterizza queste due tipologie di imposta obbliga gli Stati membri a trasporre il testo delle direttive nella legislazione nazionale. Allo stato dell’arte esistono per l’imposizione sui consumi 28 imposte nazionali: circa l’80% delle disposizioni sono identiche (così per il campo di applicazione, i criteri di imposizione, la definizione di presupposto di imposta, il diritto di detrazione e le aliquote). Il quadro generale per l’evoluzione di queste imposte è fissato dall’articolo 113 TFUE, che prevede, per adottare nuove misure di armonizzazione, un intervento specifico del Consiglio, che statuisce all’unanimità dopo la consultazione del Parlamento e del Comitato economico e sociale. Le altre imposte non sono entrate così profondamente nella competenza dell’Unione. L’art. 293 (ex art. 220) del Trattato obbliga gli Stati membri ad iniziare delle negoziazioni per assicurare l’eliminazione della doppia imposizione all’interno della Comunità. Tale norma, che poneva un’obbligazione di mezzi, non ha trovato applicazione nel settore delle imposte dirette ed è stata abrogata dal Trattato di Lisbona. Le disposizioni del TFUE sono ancora meno vincolanti, si tratta essenzialmente dell’art. 115 che prevede l’adozione, da parte del Consiglio che delibera all’unanimità, di misure di ravvicinamento delle norme nazionali dal momento che queste hanno un’incidenza diretta sull’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L’apparato normativo è dunque più limitato dal momento che queste imposte sono di competenza degli Stati Membri.

Per l’imposta sul reddito delle persone fisiche l’unico testo significativo è costituito dalla Direttiva relativa alla tassazione del risparmio sotto forma di pagamento di interessi[8]. Tale Direttiva prevede uno scambio di informazioni tra amministrazioni in modo tale che ciascuna comunichi alle altre l’identità dei propri cittadini titolari di un conto corrente nel territorio dello Stato ed il totale degli interessi generati dal denaro ogni anno sul conto. Questa comunicazione è sostituita da una ritenuta alla fonte negli Stati che garantiscono tutela costituzionale al segreto bancario (Austria, Belgio e Lussemburgo). Tali disposizioni si stanno evolvendo dal momento che il Consiglio ha adottato una modifica destinata ad ampliarne l’ambito di applicazione, rendendo obbligatorio lo scambio di informazioni per le persone fisiche[9], tanto che la lotta contro la frode intrapresa dall’OCSE sotto l’egida del G20 ha esortato i tre Stati beneficiari di una deroga a rinunciare al sistema di ritenuta alla fonte.

L’imposizione sugli utili delle società ha visto protagonista il legislatore dell’Unione dal 1969 con l’adozione di una Direttiva che tratta la questione in maniera indiretta istituendo ed armonizzando le imposte indirette che applicate sulla raccolta dei capitali[10]. Numerose proposte della Commissione si sono scontrate con l’opposizione del Consiglio. Tuttavia il 23 luglio 1990 sono state adottate due Direttive ed una convenzione multilaterale. La Direttiva n. 90/434[11] è relativa alla disciplina fiscale delle fusioni, scissioni e conferimenti. Obbliga ogni Stato membro dotato di un regime favorevole ad estendere il beneficio non solo alle operazioni nazionali ma anche a quelle che vedono la partecipazione di una società residente in un altro Stato membro. Questo testo è stato modificato nel 2005[12] per inglobare le nuove forme giuridiche societarie. Il secondo testo, adottato il 23 luglio 1990, è la Direttiva relativa al regime fiscale comune applicabile alle società “madri-figlie” di Stati membri differenti[13]. Con le stesse intenzioni della precedente, questa Direttiva non crea un regime fiscale strictu sensu, ma crea l’obbligo in capo a ogni Stato di prevedere l’esenzione dei dividendi che una società madre riceve dalla figlia – esenzione motivata da ragioni di neutralità con riguardo ai gruppi societari – di applicare lo stesso regime di favore ai dividendi provenienti da una società figlia residente in un altro Stato membro. Il campo di applicazione della Direttiva è esteso[14] dal momento che i due testi sono stati sostituiti da una nuova Direttiva[15], che fornisce una versione delle disposizioni più adatta alle esigenze contemporanee. La Commissione si è resa conto che il nuovo testo non impediva una certa erosione di base imponibile degli Stati a causa delle operazioni fittizie, e per questa ragione ha proposto l’adozione di un testo che impedirà a una società madre di uno Stato terzo di aggirare la ritenuta alla fonte che applica lo Stato in cui è collocata la società figlia grazie all’interposizione di un’altra figlia stabilita in uno Stato membro che non applica la ritenuta alla fonte[16]; inoltre postula l’adozione di una regola antiabuso comune (ma che in concreto non è ancora stata adottata). Tale insieme normativo mira a garantire un corretto funzionamento del mercato interno, in cui la concorrenza non sia falsata dalle disposizioni fiscali nazionali. Il terzo testo adottato il 23 giugno 1990 non ha lo stesso dinamismo perché si tratta semplicemente di una convenzione multilaterale (presa dalla conversione di una proposta di direttiva) che regola una procedura arbitrale per dirimere le controversie tra due imprese di Stati membri diversi alle loro amministrazioni fiscali competenti, quando almeno una delle due ricalcoli la propria base imponibile sulla base dei prezzi di trasferimento. Il presupposto di applicazione di questo testo lo relegano a un piano teorico ed il suo ruolo nella delicata questione dei prezzi di trasferimento è sicuramente meno incisivo di quello del Forum Mondiale congiunto sui prezzi di trasferimento; si tratta di una semplice struttura di accordo tra amministrazioni fiscali e contribuenti, nonostante i lavori sembrino utili[17].

Al di fuori di questo insieme sostanziale (ma tutto sommato isolato) di norme, il diritto derivato consacra alla tassazione delle società delle norme piuttosto etiche, il solo testo significativo di diritto positivo è rappresentato da una Direttiva del 2003 che ha stabilito l’eliminazione di tutte le ritenute alla fonte sugli interessi e i canoni delle società collegate[18].

Non esiste alcun testo di diritto derivato relativo all’imposta sulle successioni. Le altre norme derivate riguardano l’implementazione dello scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali degli Stati membri. Il testo iniziale era una Direttiva del 1977[19], poi sostituito dalla Direttiva 2011/16/UE[20] la cui applicazione si deve inserire nel quadro globale e probabilmente più vincolante dato dalla convenzione multilaterale OCSE in corso di adozione. L’altro testo è una Direttiva relativa all’assistenza reciproca in materia di riscossione di crediti tributari, al fine di favorire la cooperazione. Uno Stato non intraprende in autonomia una procedura di riscossione in un altro Stato, ma può chiedere l’aiuto di quest’ultimo per dare esecuzione a un titolo esecutivo (amministrativo e giudiziario)                    nazionale[21].

La missione del diritto tributario europeo non si ferma all’adozione di queste norme sostanziali, essendo concepito anche per controllare la normativa fiscali degli Stati membri.

 

B) Controllo delle norme tributarie nazionali

Questo secondo obiettivo del diritto tributario europeo è in armonia con la specificità del diritto dell’Unione nel suo insieme e, di conseguenza, è necessario effettuare una distinzione tra due casi.

Nel primo caso, il controllo riguarda il modo in cui gli Stati membri traspongono e/o applicano i testi dell’Unione relativi alla fiscalità. In questo caso il ruolo di controllo è svolto dalla Commissione europea con le procedure di infrazione. L’iniziativa della Corte è molto cauta al riguardo perché privilegia la negoziazione con lo Stato e la procedura è lunga. Così la Commissione ha avuto occasione di constatare nel caso “Marks & Spencer”[22] che il regime inglese della tassazione di gruppo, ossia la possibilità di imputare perdite di una società del gruppo sul reddito complessivo, non era conforme alla libertà di stabilimento nella parte in cui escludeva tale possibilità per le società del gruppo residenti in un altro Stato membro. Il Regno Unito ha rifiutato di accettare la giurisprudenza della Corte di Giustizia e di modificare, di conseguenza, la legislazione nonostante la sentenza fosse stata equilibrata e ragionevole. Il caso ha dunque visto l’intervento della Commissione che, dopo aver esperito il tentativo di negoziazione con il Regno Unito, ha intentato un ricorso per inadempimento[23]. La Corte, nel quadro dei rinvii pregiudiziali, andrà ad indicare la norma controversa e a ricordarne la portata (per esempio, circa i fondamenti dell’imposta sulla cifra d’affari[24]). L’azione di censura si sostituisce a quella del legislatore quando la legislazione unionale esiste ma non è ancora stata oggetto di una modernizzazione in ragione dell’ostacolo costituito dalla regola dell’unanimità, che talvolta paralizza i lavori del Consiglio. Il miglior esempio è dato dall’IVA: imposta armonizzata all’80% che rappresenta tra il 25% e il 45% delle risorse ma le cui disposizioni risalgono a quasi 40 anni fa. Grazie al rinvio pregiudiziale la Corte dirime i conflitti tra interpretazioni diverse che vedono opposte le amministrazioni fiscali ai contribuenti; è alla Corte che spetta il compito di tracciare i contorni del campo di applicazione di un’imposta nata nel 1977 ma che oggi deve fronteggiare delle situazioni economiche mutate[25]. L’assolvimento di questo compito rende insoddisfatti tutti gli attori coinvolti, primo fra tutti il giudice che, senza compiere dinieghi di giustizia adisce la Corte di Giustizia, ma si lamenta del pretesto addotto dalla Corte con riferimento alle carenze del Consiglio, poiché de minimis non curat praetor; parimenti insoddisfatta la Commissione davanti alla creazione di questa soft law, difficile da gestire perché tesse un mantello di Arlecchino con il filo delle sentenze; insoddisfazione, infine, dei contribuenti e delle amministrazioni fiscali perché le regole mancano in chiarezza e semplicità.

Il secondo caso è più sottile, originale e interessante. Nell’ambito della fiscalità diretta, conservata gelosamente all’interno della competenza degli Stati membri, il giudice dell’Unione europea è chiamato ad intervenire per stabilire se delle leggi nazionali pienamente competenti siano conformi al diritto dell’Unione, ed in particolare alle libertà sancite dai trattati. La situazione è insolita perché il giudice dell’Unione risponde alle richieste dei giudici tributari nazionali o della Commissione per pronunciarsi in un ambito che non fa intrinsecamente parte del diritto dell’Unione, al fine di verificare la conformità delle disposizioni nazionali alle libertà riconosciute dai trattati, con la successiva abrogazione delle disposizioni in caso di non conformità dichiarata. Il diritto tributario europeo si costruisce dunque in negativo dal momento che non cerca di creare un regime d’imposta positivo nell’ambito della fiscalità diretta, ma imbastisce una serie di divieti che gravano sul legislatore nazionale. La differenza con il diritto tributario internazionale è dunque multiforme e si ritrova sul terreno dei mezzi impiegati.

 

2.2 Differenza negli strumenti utilizzati

2.2.1 Strumenti tecnici impiegati dal diritto tributario internazionale

Gli strumenti tecnici impiegati sono sostanzialmente diversi. Il diritto tributario internazionale classico privilegia l’utilizzo delle convenzioni, soprattutto bilaterali, e sviluppa un metodo rispettoso della sovranità degli Stati.

 

2.2.1.1 Utilizzo della convenzione internazionale

Il diritto tributario internazionale classico privilegia la tecnica della convenzione bilaterale come strumento per la realizzazione degli obiettivi funzionali che persegue, prima fra tutte l’eliminazione della doppia imposizione giuridica. Sono trattati internazionali classici che fondano il processo di adozione sui meccanismi del diritto internazionale pubblico: negoziazione, firma delle parti contraenti e ratifica al fine – perlomeno nella concezione dualista – di diventare una componente del diritto positivo, posto nella gerarchia delle fonti generalmente sotto la Costituzione, ma in posizione preminente rispetto alla legge nazionale. Alcuni giudici – a partire dal Consiglio di Stato francese – hanno fatto presente che tale preminenza nella gerarchia delle convenzioni regolarmente ratificate non corrisponde alla realtà. In una sentenza del 2002 il Consiglio di Stato francese ha ben descritto il paradosso della situazione, mostrando che la loro superiorità nella gerarchia delle norme non si traduce in una preminenza assoluta delle convenzioni con riferimento alla legge francese. Esse hanno rilevanza nella misura della funzione che assumono, vale a dire la lotta contro la doppia imposizione, all’opposto devono cedere il passo davanti alla legge nazionale quando si tratta di determinare il regime di imposta applicabile:

Considerando che una convenzione bilaterale conclusa con l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione può, in virtù dell’art. 55 della Costituzione, condurre all’eliminazione della legge tributaria nazionale, essa non può tuttavia costituire in sé base legale di una decisione relativa a un tributo; di conseguenza spetta al giudice tributario, adito in riferimento a una controversia che implica l’utilizzo di queste convenzioni, di cercare all’interno della legge nazionale se vi è un titolo per fondare validamente il prelievo e, in caso di risposta affermativa, sulla base di quale qualificazione; gli spetta successivamente, all’occorrenza, comparando tale qualificazione con le norme delle convenzioni, determinare se tale convenzione sia o meno un ostacolo per l’applicazione della legge tributaria[26].

In altri termini, la convenzione è una fonte del diritto tributario preminente per il suo status e sussidiaria per il suo contenuto perché rinvia primariamente ai criteri della legge nazionale. È bene ricordare che tale ricostruzione è portata avanti dal Consiglio di Stato in maniera sistematica, anche quando le convenzioni forniscono proprie definizioni. La posizione del Consiglio di Stato è dunque contestabile[27]. Il giudice ammette che l’applicazione della convenzione possa aggravare la situazione dei contribuenti[28].

L’OCSE ha elaborato e aggiornato due modelli di convenzione, una per l’imposta sui redditi in senso lato e sulla tassazione dei capitali, di cui l’ultima versione risale al 2014; l’altra è per l’imposta sulle successioni del 1982. La prima è in assoluto la più importante e ha facilitato l’adozione di circa 3.000 convenzioni, contro le 150 della seconda (pertanto l’analisi della prima è più importante).

 

A) Occupandosi della lotta contro la doppia imposizione giuridica, in quanto suo obiettivo fondamentale, la convenzione utilizza tre serie di mezzi. Primariamente l’elaborazione di definizioni comuni che tracciano un principio comune, quello della territorialità, con la rilevante eccezione degli Stati Uniti che prendono in considerazione anche la cittadinanza. Secondariamente definiscono un metodo comune che, a partire dalla territorialità, permette di determinare in concreto a quale dei due Stati spetti incidere sulla base imponibile nelle diverse situazioni. Infine, la convenzione definisce, per ogni imposta che evoca, i criteri che permettono di evitare una situazione di doppia imposizione: Stato di residenza del contribuente o Stato della fonte per l’imposta sui redditi, Stato di ubicazione dell’immobile per l’imposta sul patrimonio, o infine Stato dell’ultimo domicilio per l’imposta sulle successioni. Ogni criterio è poi declinato in altri sotto criteri che dovrebbero permettere di risolvere qualsiasi potenziale doppia imposizione. Così, per il criterio di residenza le convenzioni rinviano alla definizione data dal legislatore nazionale, tale rinvio mostra il carattere funzionale delle convenzioni e l’impossibilità di considerarle un vero e proprio sistema giuridico. Ma se il contribuente può essere considerato residente in ciascuno dei due Stati per l’applicazione della legislazione nazionale, solo allora la convenzione vedrà utilizzati i propri criteri in maniera sussidiaria (centro effettivo degli interessi; centro degli interessi vitali; luogo di soggiorno principale; nazionalità) per stabilire in quale dei due Stati il contribuente sia residente e così evitare che sia sottoposto a una doppia imposizione giuridica. In via eccezionale vi sono anche delle convenzioni che non rimandano ai criteri nazionali ma definiscono in autonomia il concetto di residenza (convenzione franco-belga e convenzione franco-libica). Ciascuna convenzione prevede poi criteri di attribuzione del gettito e permette alle amministrazioni di ciascuno Stato di scambiare le informazioni di cui dispongono per assicurare un’applicazione effettiva della convenzione e migliorare la riscossione di ogni imposta nazionale.

 

B) L’eliminazione del fenomeno della non imposizione ricorre ad alcune disposizioni dai contorni più imprecisi e che variano sensibilmente da una convenzione all’altra. Si tratta di mettere in atto delle procedure di scambio di informazioni a formazione progressiva a seconda che lo scambio sia automatico o spontaneo (culmine dello scambio di informazioni) o, ancora, su domanda, e in quest’ultimo caso può essere limitato dai divieti costituzionali che condizionano l’operato dell’amministrazione di uno degli Stati, ad esempio nel caso del segreto bancario. È in questo ambito che sono intervenute negli ultimi anni le modifiche più importanti. Tali modifiche sono state introdotte per fare fronte al problema della scarsità delle risorse finanziarie ed il correlato bisogno per gli Stati di implementare le entrate derivanti dal gettito fiscale. Le reticenze di alcuni Stati a rispondere alle richieste dei propri omologhi stanno per essere spazzate via per l’effetto di due fenomeni. Il primo è rappresentato dall’entrata in vigore, dal primo luglio 2014, della legislazione americana dei “FACTA”[29] (Foreign Acount Tax Compliance Act). Gli accordi FACTA obbligano gli istituti finanziari esteri a comunicare al Tesoro Federale i conti correnti dei cittadini americani, qualunque che sia il loro Stato di residenza. Tale legislazione ha un impatto mondiale e le sanzioni che prevede sono dissuasive, obbligando tutti gli Stati ad attenervisi, nel migliore dei casi firmando con gli Stati Uniti un protocollo che regoli le modalità di esecuzione di questo obbligo di comunicazione[30]. L’impatto della legislazione americana, il contesto derivante dalla crisi finanziaria del 2008, le conclusioni del G20 di Londra dell’aprile 2009, hanno spinto gli Stati reticenti allo scambio di informazioni a rivedere la propria posizione e hanno dato un impulso che sembra essere decisivo ai lavori di adozione di una convezione multilaterale relativa allo scambio automatico di informazioni tra amministrazioni finanziarie, che fu per la prima volta elaborata dal Consiglio d’Europa e dall’OCSE nel 1988. Su richiesta del G20 tenutosi a Cannes l’OCSE ha perfezionato il suo testo e l’ha proposto per la firma: più di 80 Stati lo hanno firmato, compresa Andorra, Irlanda, Svizzera, Liechtenstein, San Marino, Kazakhstan e Singapore. Il processo di ratifica è in corso e gli Stati si sono accordati sulle forme che prenderà questo scambio di informazioni automatico, avendo l’OCSE sottoposto all’approvazione del G20 del settembre 2014 le disposizioni in merito allo scambio di informazioni automatico relative ai conti correnti in materia fiscale. A partire dal 2017 il progresso sarà considerevole: la convenzione sarà multilaterale e la sua adozione è stata accelerata dagli avvenimenti sopravvenuti a partire dalla crisi del 2008 in quasi tutti gli Stati.

 

C) L’eliminazione delle discriminazioni in ragione della nazionalità è assicurata nell’ambito del diritto tributario internazionale dall’art. 24 della convenzione modello bilaterale dell’OCSE e che quasi tutte le convenzioni riprendono in maniera puntuale. A mente dell’art. 24 il legislatore nazionale deve applicare lo stesso regime a situazioni identiche ed un regime diverso per casi non identici. La protezione massima è assicurata nel momento in cui la norma si applica anche quando il cittadino di uno Stato risieda in uno Stato terzo rispetto alla convenzione. Il caso più eclatante di questa protezione è fornito dal caso Biso del Consiglio di Stato francese[31] nel quale i giudici si sono spinti a stabilire che un soggetto italiano ed uno inglese, residenti a Monaco, devono, nel rispetto dei termini della Convenzione intercorrente tra la Francia e i loro Stati di riferimento, essere considerati come dei francesi residenti a Monaco, la cui situazione è regolata da una convenzione franco-monegasca secondo la quale trova applicazione l’imposta sui loro redditi reali di fonte francese che, e non le norme derogatorie di cui all’articolo 164 del Codice Generale delle Imposte per i non residenti che abbiano in Francia la disponibilità di una o più abitazioni imponibili su base presuntiva. Questa disposizione è efficace ma, nel caso mancasse, sul territorio europeo possono trovare applicazione due disposizioni simili: l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo[32] e l’art. 18 TFUE. La prima deriva dal diritto internazionale tributario e la seconda è una diposizione di diritto europeo puro.

 

2.2.2 Strumenti tecnici impiegati dal diritto tributario europeo

Gli strumenti impiegati dal diritto tributario europeo si inseriscono nella prospettiva di un sistema giuridico specifico. Il primo elemento è la preminenza generale del diritto dell’Unione che la Corte afferma dal 1962: “in effetti il Trattato CEE ha priorità, nelle materie che regola, sulle convenzioni concluse prima della sua entrata in vigore tra gli Stati membri[33]. Tale superiorità vale parimenti per il diritto derivato (direttive e regolamenti), in maniera ancora maggiore poiché tali norme beneficiano degli effetti diretti. In queste condizioni le disposizioni giuridiche dell’Unione Europea partecipano in maniera positiva alla definizione del regime impositivo applicabile in ogni Stato membro, così come deve essere applicato dai contribuenti e dall’amministrazione. La differenza tra diritto internazionale e diritto euro unitario risiede principalmente nell’ampiezza dell’ambito di applicazione, decisamente più esteso per il secondo. La giurisprudenza della Corte si è affinata durante gli anni, ha notato la difficoltà di articolazione con il diritto internazionale privato[34], ma nel momento in cui ha dovuto statuire circa la sussidiarietà e le competenze implicite, con riferimento ad un nuovo Stato membro legato da convenzioni anteriori che rischiano di incidere sulle competenze dell’Unione, la riaffermazione della superiorità del diritto dell’Unione è stata priva di ambiguità[35].

Il secondo strumento si inserisce nel quadro tracciato dal primo. Nell’ambito di competenza attribuitogli dai Trattati e forte del sopracitato principio di superiorità, il diritto tributario europeo utilizza mezzi propri di un sistema giuridico originario, maggiormente integrato, come un sistema giuridico nazionale, rispetto a quello del diritto tributario internazionale pubblico classico. Il quadro applicabile non è quello specifico del diritto tributario europeo ma lo disciplina completamente: gli effetti diretti di alcune disposizioni, l’obbligo di trasporre le direttive (esistono pochi regolamenti in materia fiscale) e la superiorità pressoché assoluta delle libertà derivanti dai Trattati sulle disposizioni tributarie nazionali sono assicurate e controllate dalla Commissione, in maniera spontanea o su domanda del contribuente o di uno Stato membro, e nel caso sottoposte alla censura della Corte di Giustizia. La competenza della Corte include la possibilità di condannare uno Stato che non ha adempiuto all’obbligo di eseguire una sentenza per inadempimento[36]. Essa può parimenti essere adita con un ricorso per annullamento contro un atto emanato da un’Istituzione dell’Unione per contrarietà al diritto dell’Unione, così ad esempio ha rigettato il ricorso del Regno Unito contro la decisione del Consiglio che, in data gennaio 2013, aveva autorizzato una cooperazione rafforzata nell’ambito dell’imposta sulle transazioni finanziarie[37]. La differenza con il diritto tributario internazionale è qui evidente, marcata dalla necessità di servire gli interessi degli Stati. La realtà quotidiana vissuta dai soggetti di questo diritto mostra un’interpretazione sempre più estensiva.

 

3. Interpretazione estensiva attuale

Lo Stato di diritto lascia due tipi di preoccupazioni, che sono oggettivamente contrapposte. Innanzitutto il problema, per ogni amministrazione finanziaria, di massimizzare il gettito fiscale, e dall’altro la preoccupazione opposta dei contribuenti di minimizzare i carichi fiscali. Il primo corrisponde ad un interesse generale, ma anche il secondo non è privo di pregio. L’equilibrio sociale impone di assicurare un bilanciamento di queste due istanze contrapposte con delle norme che organizzino sia il diritto sostanziale che quello procedurale. Su un territorio con una cultura giuridica così antica come quello europeo vi può essere una risonanza tra le regole poste dalle convenzioni bilaterali, quelle del diritto dell’Unione ed altre ancora della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo. L’esempio già citato della non discriminazione sulla base della nazionalità è il più consono per illustrare questa situazione. Alla fine sarà compito del giudice tributario nazionale definire le regole applicabili e la loro articolazione, ed è la Corte di Giustizia che verificherà l’insieme. Quest’ultima pone delle regole di coesistenza tra i due ordinamenti e definisce le modalità di gestione degli attuali problemi di ordine impositivo sul piano transnazionale.

 

3.1 Regole di coesistenza definite dalla Corte di Giustizia dell’Unione

Le convenzioni internazionali e le disposizioni del diritto dell’Unione europea intervengono in ambiti diversi, ma la loro articolazione si traduce in una relazione di gerarchia che porta la Corte a sanzionare gli eventuali sconfinamenti del diritto tributario internazionale sulle libertà del Trattato.

 

3.1.1 Una ripartizione di competenze per ambito e la relazione gerarchica

Se esiste un diritto tributario internazionale, esso si definisce principalmente per la sua funzione. La Corte ricorda che le convenzioni bilaterali, passate sotto l’egida concettuale dell’OCSE, hanno la funzione di organizzare l’eliminazione della doppia imposizione giuridica,[38] e ciò secondo le modalità, e di conseguenza i limiti, che le parti contraenti hanno deciso di dare all’esercizio. Nel caso Gilly la Corte denota che il ruolo svolto dal diritto internazionale tributario non è stato affievolito dalle norme dell’Unione, poiché gli Stati non hanno utilizzato l’articolo 293 che permetteva loro di intraprendere delle misure di armonizzazione in materia di fiscalità diretta, prima dell’abrogazione di tale articolo per opera del Trattato di Lisbona. Allo stesso tempo la Corte omette di pronunciarsi quando la Commissione cerca di portarla a riconoscere che: “la fiscalità diretta non è una competenza esclusiva degli Stati membri, ma che è implicitamente e necessariamente inclusa nella competenza relativa ai mercati interni prevista all’art. 4, paragrafo 2, a del TFUE e considerata come una competenza ripartita tra l’Unione europea e gli Stati membri[39]. Così la Corte rigetta la domanda del contribuente che lamenta la sovra-imposizione dei dividendi di origine francese rispetto a quelli di fonte belga per semplice applicazione della Convenzione franco-belga[40]. Allo stesso modo una convenzione può ignorare alcune conseguenze – sotto forma di doppia imposizione – risultanti dall’esercizio parallelo delle rispettive competenze tributarie ad opera degli Stati[41]. In altre parole, i trattati internazionali classici tendono ad occuparsi di questa parte di fiscalità internazionale e la Corte riconosce loro il carattere esclusivo di questa competenza poiché il Consiglio non è stato in grado di prendere (all’unanimità) delle misure per l’armonizzazione delle imposte sui redditi, né per l’eliminazione della doppia imposizione. In qualità di Stati sovrani e soggetti di diritto internazionale, dunque, gli Stati membri dell’Unione europea organizzano in binomio l’eliminazione della doppia imposizione giuridica, in senso lato, senza che il diritto dell’Unione permetta di censurare la violazione da uno Stato firmatario del diritto convenzionale[42]. Le circa 310 convenzioni bilaterali necessarie per coprire totalmente le relazioni tra i 28 stati membri non sono complete, per esempio non esiste una convenzione tra Grecia e Portogallo, né una tra Spagna e Danimarca o una tra la Danimarca e la Francia. La ripresa sostanziale del modello OCSE fornisce a queste convenzioni la necessaria omogeneità di programmazione, ma in esse dimora una sovranità piena e intera. Così il loro contenuto varia in funzione delle realtà economiche e fisiche che caratterizzano le relazioni tra i due stati firmatari; alcune contengono delle disposizioni relative ai lavoratori transfrontalieri, cosicché le modalità di eliminazione della doppia imposizione variano sensibilmente. Parimenti i vantaggi ottenuti da un cittadino proveniente dall’altro Stato possono essere molto diversi a seconda di quale sia l’altro Stato firmatario, e tali vantaggi possono essere maggiori per il cittadino di uno Stato terzo, dal momento che non esiste un obbligo per gli Stati membri di accordare ai propri partner dell’Unione il beneficio nascente dalla clausola della nazione favorita. Viceversa, quando una convenzione urta una disposizione del diritto dell’Unione, la Corte ricorda che la ripartizione di competenze deve rispettare una certa gerarchia.

 

3.1.2 La libertà contrattuale degli Stati membri è subordinata al rispetto del diritto dell’Unione

Il diritto dell’Unione entra in gioco in questo ambito tributario che non rientra nelle competenze del Trattato per limitare le possibilità normative degli Stati membri quando concludono delle convenzioni contro la doppia imposizione. L’intervento della Corte di Giustizia riprende l’argomentazione sempre utilizzata in caso di accordi tra gli Stati membri, la sua giurisprudenza discerne a seconda che tali accordi siano intervenuti antecedentemente o meno all’adesione e, in maniera sottile, riafferma la superiorità del diritto dell’Unione Europea, ma fa valere anche che lo Stato membro non potrà addurre la propria adesione come pretesto per disattendere gli obblighi discendenti dalla convenzione verso lo Stato terzo, soprattutto se tale adesione è antecedente all’adesione; viceversa lo Stato terzo non merita tale protezione poiché consapevolmente ha negoziato con uno Stato già membro dell’Unione europea. La giurisprudenza della Corte a partire dal già evocato caso Commissione c. Italia ha conosciuto uno sviluppo considerevole sulla questione delle competenze implicite o, perlomeno, non ancora esercitate dall’Unione con i casi Commissione c. Austria e Commissione c. Svezia già citati, non ha invece ancora avuto modo di pronunciarsi su accordi che gli Stati membri hanno concluso con altri Stati relativamente ad un’imposta unificata o armonizzata, in questo ambito è intervenuta solamente con riferimento alle disposizioni nazionali. Chiamata a confrontarsi con le convenzioni bilaterali la Corte ha due metodi per assicurare il rispetto delle libertà garantite dai Trattati. Innanzitutto non esita a dichiarare non conforme alle regole di libera circolazione dei capitali una disposizione legislativa nazionale che riprende il contenuto di una convenzione bilaterale, precisando che: “…gli articoli 56 CE e 58 CE devono essere interpretati nel senso che ostano a una regolamentazione nazionale che risulti da una convenzione preventiva contro la doppia imposizione, come la convenzione franco-svedese…[43]; è dunque difficile essere più chiari circa la questione della gerarchia tra i due ordinamenti giuridici.

Secondariamente, la Corte vuole assicurare un’applicazione effettiva delle libertà del Trattato, pertanto se l’interpretazione restrittiva di una norma convenzionale porta a convalidare una legge nazionale discriminatoria, la Corte dona alla libertà tutelata una portata che trascende l’ostacolo convenzionale per permettere di dichiarare la non conformità della disposizione nazionale. La Corte scioglie il nodo dato dalla convenzione bilaterale e dal testo unionale per mostrare il valore aggiunto del Trattato rispetto alla convenzione. Il più calzante è il caso Schumacker[44] nel quale la Corte mostra che il non riconoscimento del beneficio derivante dallo status di residente a un soggetto non residente, la cui maggior parte dei redditi sono di fonte tedesca, impedisce un’applicazione effettiva della libertà di circolazione dei lavoratori per un cittadino belga, residente in Belgio con la famiglia e lavoratore in Germania. L’applicazione pura e semplice della convenzione franco-tedesca l’avrebbe reso “fiscalmente invisibile”, cosicché le circostanze familiari non sarebbero state prese in considerazione né in Belgio, poiché il reddito è troppo esiguo per essere tassato, nè dalla Germania, che prevede questo tipo di benefici solo per i soggetti residenti. La portata della convenzione bilaterale qui è diminuita poiché la sua applicazione porterebbe alla lesione di una libertà riconosciuta come superiore. L’approccio pratico della Corte ha portato alle estreme conseguenze la protezione accordata al contribuente da una libertà garantita dai Trattati in un ambito che non è di competenza dell’Unione. Per tenere in considerazione questo caso la legislazione tedesca ha dovuto subire delle modifiche, e da oggi prevede che il contribuente benefici dello status di residente qualora il 90 % dei suoi redditi siano di fonte tedesca. È necessario ricordare che la Corte utilizza, come referenti normativi per stabilire la validità o meno di una norma nazionale in materia di imposizione diretta, Trattati di altra natura, come ad esempio l’accordo tra l’Unione e la confederazione svizzera sulla libera circolazione delle persone[45] per dichiarare la non conformità di una decisione dell’amministrazione finanziaria tedesca che rifiuta per i residenti svizzeri di nazionalità tedesca, che percepiscono i redditi in Germania, i benefici che la Legge tedesca riserva ai residenti[46]. La Corte ha utilizzato l’Accordo sullo Spazio Economico Europeo[47] per dichiarare la non conformità alla libera circolazione dei capitali dell’imposta belga pagata dalle sole banche non residenti, permettendo la condanna di questa imposizione sulla base degli articoli 56 e 63 TFUE, ma anche 36 e 40 dell’accordo sull’E.E.E[48]. Con una logica comparabile la Corte ha dichiarato contrario alla libertà di stabilimento ex art. 56 TFUE il regime belga che riserva alle istituzioni stabilite in Belgio il beneficio della riduzione di imposta per i contributi nel quadro del risparmio-pensioni[49], mettendo così un termine all’eccezione fondata sulla coerenza del sistema fiscale Belga fornita da due sentenze del gennaio 1992, Bachmann[50] e Commissione c. Belgio[51].

Attraverso il suo ruolo di interprete e di vigilante del rispetto delle libertà del Trattato, il lavoro della Corte ha portato a modificare il regime di imposta applicabile al contribuente come risulta dalla combinazione del diritto nazionale e delle convenzioni applicabili. D’ora in avanti il legislatore nazionale e le parti contraenti hanno consapevolezza della necessità di integrare nel loro processo di elaborazione delle norme i limiti loro imposti dall’integrazione europea. La Corte riconosce loro a posteriori la possibilità di giustificare i limiti posti da una disposizione nazionale ad una delle libertà del Trattato per una ragione imperativa di interesse generale, a condizione che rappresenti una misura proporzionale all’obiettivo ricercato, ovvero arrechi un danno minimo all’esercizio della libertà necessario per la preservazione della ragione di interesse generale: la coerenza del sistema fiscale nazionale[52]; la salvaguardia della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati Membri[53]; la prevenzione del rischio di evasione fiscale[54], o ancora la necessità di preservare l’efficacia dei controlli fiscali[55]. Queste rappresentano ragioni che giustificano la deroga ad una libertà fondamentale. In difetto di proporzionalità della misura derogatoria, la stessa viene censurata dalla Corte[56]. Questo quadro generale serve come analisi per gestire le principali questioni che sorgono in materia di fiscalità internazionale.

 

3.2 Modalità di gestione degli attuali problemi fiscali transnazionali

La fiscalità internazionale affronta oggi un certo numero di problemi legati all’evoluzione delle tecniche, al cambiamento del comportamento degli attori del gioco – sia contribuenti che amministrazioni – e alla scarsità delle risorse pubbliche. Le questioni possono essere suddivise in tre categorie.

 

3.2.1 Gestione dei problemi fiscali delle imprese

Le imprese traggono profitto dalla globalizzazione ma anche dallo sviluppo della digitalizzazione per organizzare la loro situazione in modo da pagare meno imposte. I soggetti coinvolti in operazioni internazionali, e singolarmente gli Stati, hanno identificato tre tipologie di problemi attuali la cui soluzione impone forme di cooperazione transfrontaliera, nella quale l’Unione europea, coniugata al quadro convenzionale classico, apporta degli elementi di soluzione. Si tratta della disciplina dei prezzi di trasferimento, della nozione di stabile organizzazione, e della nozione di gruppo con la regola di compensazione delle perdite.

 

3.2.2 Gestione dei problemi fiscali relativi alle persone fisiche

Il diritto tributario tocca in quest’ambito la sua dimensione più politica, quella che incarna meglio la materia della sovranità degli Stati, molto gelosi del proprio rapporto con i cittadini contribuenti. La gestione di alcune situazioni di doppia imposizione giuridica non è assicurata dall’impianto delle convenzioni, o perché non esistono o perché le parti non sono riuscite a trovare un accordo sulla questione. Il regime giuridico diventa qui più complesso, innanzitutto perché tocca la situazione degli individui e implica di conseguenza delle realtà pubbliche, ma anche perché in questo caso trova applicazione un’altra normativa internazionale, che è quella della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In totale, ci sono quattro questioni delicate; riguardano l’incidenza della Convenzione europea dei diritto dell’Uomo, lo statuto del contribuente, il regime dei contributi sociali e delle pensioni transfrontaliere ed, infine, la validità della tassazione in uscita per gli individui.

 

3.2.3 Gestione dei problemi fiscali relativi alla cooperazione delle amministrazioni fiscali

Questa cooperazione è informata a due obiettivi, si mira a migliorare la lotta contro la doppia imposizione ed anche l’organizzare la riscossione. Il quadro istituzionale tracciato per raggiungere questi obiettivi è in via di evoluzione, esso è a due livelli; le convenzioni prevedono generalmente una cooperazione amministrativa per lo scambio di informazioni e un’assistenza alla riscossione. Ma il contesto è oggi modificato dalla globalizzazione. La frode transnazionale ha generato e genera delle reazioni all’altezza del fenomeno, molte delle quali si ispirano alla legislazione americana dei FACTA la cui entrata in vigore a partire dal primo luglio 2014 deve permettere di misurare l’efficienza del sistema. Lo stesso dicasi per la convenzione multilaterale OCSE relativa allo scambio automatico delle informazioni in materia fiscale, il completamento del processo di ratifica e l’adozione dei documenti permettono un effettivo scambio automatico di dati e costituiscono una prova di lealtà degli Stati firmatari, tutto ciò a partire dal 2017. Il bilancio di questa grande operazione dovrà tenere conto dell’ampiezza dell’immaginazione dei contribuenti e delle soluzioni che metteranno in atto per aggirare gli effetti di tale scambio. In maniera più realistica i risultati ottenuti dall’applicazione della Direttiva 2011/16/UE potranno essere misurati più rapidamente. L’articolo 288 TFUE mira a ricordare l’agilità e la forza delle Direttive. Il dispositivo BEPS dell’OCSE che sarà portato a termine il 31 dicembre 2015 che darà la possibilità di articolare una convenzione multilaterale sulle convenzioni bilaterali esistenti, rappresenta un’innovazione e sarà molto interessante valutarne l’impatto. Il progresso verso una maggiore giustizia impositiva a livello transnazionale nasce da questo incontro tra un diritto tributario europeo paralizzato nella sua evoluzione dalla paura degli Stati di cedere altra sovranità in materia fiscale all’Unione, ed un diritto tributario internazionale che giunge a raccogliere l’unanimità di quegli stessi Stati membri su un progetto preciso attraverso una versione aggiornata del mezzo convenzionale.

 

 

 

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* Come citare questo articolo: P. Marchessou, Diritto tributario europeo e diritto tributario internazionale, in Studi Tributari Europei, n. 1/2015, (ste.unibo.it), pagg.1-31.

[1] Philippe Marchessou, Professore di diritto tributario e finanziario presso l’Università di Strasburgo, Professore al College of Europe. Traduzione a cura di Elisa Midassi, Dottoranda di ricerca in Diritto Tributario Europeo presso l’Università di Bologna.

[2] Convenzione modello OCSE.

[3] CHRÉTIEN, M., Alla ricerca di un diritto tributario internazionale comune, Paris, Sirey 1955, p. 246.

[4]GUSTAFSON,C.H., PERONI R.J., CRAWFORD PUGH R., Imposizione delle Transazioni Internazionali, IV Edizione, 2011, West, p.16.

[5] Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, L. 145 del 13 giugno 1977.

[6] Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, L. 347 del 11 dicembre 2006.

[7] Direttiva 2008/118/CE, del 16 dicembre 2008, L. 9 del 14 gennaio 2009.

[8] Direttiva 2003/48/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, L. 157/38 del 26 giugno 2003.

[9] Direttiva 2014/48/UE del 24 marzo 2014, L. 111/50 del 15 aprile 2014.

[10] Direttiva del Consiglio 69/335 del 17 luglio 1969, sostituita da Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008, L. 46/11 del 21 febbraio 2008.

[11] Direttiva 1990/434/CEE del Consiglio, L. 225 del 20 agosto 1990.

[12] Direttiva del Consiglio 2005/19/CE del 17 febbraio 2005, L. 58/19 del 4 marzo 2005.

[13] Direttiva del Consiglio 90/435/CE, L. 225 del 20 agosto 1990.

[14] Direttiva 2003/123/CE del 22 dicembre 2003, L. 07/41 del 13 gennaio 2003.

[15] Direttiva 2011/96/UE del Consiglio, L. 345/8 del 29 dicembre 2011.

[16] Proposta di direttiva del Consiglio del 25 novembre 2013, COM(2013) 814 final.

[17] Decisione 2007/75/CE.

[18] Direttiva 2003/49 del Consiglio, L. 157 del 26 giugno 2003.

[19] Direttiva 77/799 del Consiglio, del 19 dicembre 1977, del 27 dicembre 1977.

[20] Direttiva 2011/16/UE del Consiglio del 15 febbraio 2011, L. 64/1 dell’11 marzo 2011.

[21] Direttiva 2010/24/UE del Consiglio del 16 marzo 2010, GU L 84/1, del 31 marzo 2010.

[22] Corte di Giustizia, 13 dicembre 2005, C-446/03.

[23] Corte di Giustizia, 3 febbraio 2015, C-172/13, Commissione c. Regno Unito.

[24] Corte di Giustizia, 3 ottobre 2006, C-475/03, Banca Popolare di Cremona.

[25] Si veda, ad esempio, il caso dell’esonero delle prestazioni legale allo sport, Corte di Giustizia, 19 dicembre 2013, C-495/12.

[26] Consiglio di Stato, Ass. 28 giugno 2002, 232276, Schneider Elecrtic.

[27] Consiglio di Stato, 11 aprile 2008, Chenyel, 285583, per la convenzione franco- belga.

[28] Consiglio di Stato 12 marzo 2004, 362528, Sté Céline, concl. Aladjidi, note Ph. Durand, Rev Dr. Fisc. 2014/22, comm. 356.

[29] Foreign Account Tax Compliance Act.

[30] Protocollo firmato il 5 febbraio 2012 dalla Francia, la Germania, l’Italia, la Spagna e il Regno Unito.

[31]  Consiglio di Stato, 11 giugno 2003, 221075, Epoux Biso.

[32] Articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

[33] Corte di Giustizia, 27 febbraio 1962, Commissione c. Italia, 10/61.

[34] Corte di Giustizia, 14 ottobre 2008, C-353/06, Stefan Grunkin, con le conclusioni dell’Avv. Generale Sharpston, p. 37-46.

[35] Corte di Giustizia 3 marzo 2009, C-205/06 e Commissione c. Austria e c. Svezia, 249/06.

[36] Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, C-184/11.

[37] Corte di Giustizia, 30 aprile 2014, Regno Unito c. Commissione, C- 209/13.

[38] Per esempio nella sentenza Epoux Robert Gilly, Corte di Giustizia, 12 maggio 1998, C-336/96.

[39] Corte di Giustizia, 6 giugno 2013, Commissione c. Belgio, C-383/10, paragrafo 10.

[40] Corte di Giustizia, 16 luglio 2009, C-128/08, Jacques Damseaux.

[41] Corte di Giustizia, 10 febbraio 2011, Haribo, C-436 e 437/08; 19 settembre 2012, Levy e Sebbag, C-540/11.

[42] Caso Lévy e Sebbag, v. supra.

[43] Corte di Giustizia, 19 gennaio 2006, C-265/04, Margaretha Bouanich.

[44] Corte di Giustizia, 14 febbraio 1995, C-279/93.

[45] Accordo tra Regno Unito e Svizzera sulla libertà di movimento delle persone, firmato in Lussemburgo 21 giugno 1999, GU 2002, L 114, p. 6.

[46] Corte di Giustizia, 28 febbraio 2013, Ettwein, C-425/11.

[47] Accordo sullo spazio economico europeo.

[48] Corte di Giustizia, 6 giugno 2013, Commissione c. Belgio, C- 383/10.

[49] Corte di Giustizia, 23 gennaio 2014, Commissione c. Belgio, C-296/13.

[50] Corte di Giustizia. 28 gennaio 1992, C-204/90.

[51] Commissione c. Belgio, C-300/90.

[52] Corte di Giustizia, 1 dicembre 2011, C-253/09; Commissione c. Ungheria, C-250-08, Commissione c. Belgio.

[53] Corte di Giustizia 21 febbraio 2013, A Oy, C-123/11.

[54] Corte di Giustizia 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes, C-196/04.

[55] Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, Baxter, C-254/97; a contrario, Corte di Giustizia, 17 ottobre 2013, Yvon Welte, C-181/12.

[56] Corte di Giustizia, 5 luglio 2012, SIAT, C-318/10.