Brevi riflessioni sul rapporto tra il diritto alla proprietà e i sistemi fiscali confiscatori [1]

Stefania Martinengo [2]

 

Il diritto alla proprietà è espressamente previsto dall’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[3] (d’ora in poi CEDU), ove gli Stati Contraenti hanno stabilito che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio possono al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”. Tali disposizioni, che furono originariamente introdotte per assicurare a tutti gli Stati la prerogativa di regolare il diritto di proprietà, nel corso dei decenni vennero trasformate, dalla Corte Europea dei Diritti Umani, in uno strumento di tutela dei contribuenti nei confronti degli atti illegittimi posti in essere dal potere statale.

Il concetto di “pacifico godimento dei propri beni”, in combinato disposto con i principi generali di diritto, quali quello di legalità e di proporzionalità, ormai di portata internazionale, è divenuto un criterio di primaria importanza nella valutazione delle legislazioni tributarie degli Stati Contraenti[4], come si evince chiaramente dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. Tuttavia, ciò non significa che la Corte interferisca in modo rilevante con la potestà impositiva degli Stati, posto che la stessa ha più volte ribadito nelle proprie pronunce, che gli Stati Contraenti godono di un ampio raggio d’azione in materia di fiscalità e generalmente tende ad evitare il ricorso al termine “imposte confiscatorie” nelle proprie decisioni[5]. Certamente non spetta alla Corte Europea dei Diritti Umani garantire l’attuazione di un sistema tributario che rispetti il principio di eguaglianza e consegua un’equa redistribuzione del reddito, poiché ciò compete strettamente a ciascuno Stato Contraente e, difatti, non esiste alcuna pronuncia che riconosca una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU basandosi unicamente sull’eccessiva pressione fiscale o sull’esistenza di aliquote estremamente elevate. La Corte valuta, infatti, se vi sia un corretto bilanciamento tra l’esigenza di soddisfare un interesse pubblico e la tutela dei diritti fondamentali del contribuente, poiché sono unicamente le autorità nazionali a dover stabilire cosa, come e quanto tassare.

Tali considerazioni si possono evincere anche da tre recenti sentenze[6], ove la Corte ha accertato una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU posta in essere dal legislatore ungherese, dato che quest’ultimo aveva introdotto retroattivamente un’imposta, con l’aliquota del 98%, sulle somme corrisposte ai lavoratori del pubblico impiego in occasione della conclusione del rapporto di lavoro. Ebbene prescindendo dai fatti di causa, dal generale quadro giuridico di riferimento e dalle conclusioni della Corte relative alla violazione del principio di legalità (la norma si applicava retroattivamente) e del principio di uguaglianza (la norma riguardava solamente i dipendenti del pubblico impiego), la sentenza presenta due interessanti obiter dicta in merito alla proporzionalità di tale disposizione[7]. In primo luogo, la Corte ha statuito che nei casi suddetti una pressione fiscale complessiva del 52% circa era da considerarsi eccessiva, sebbene la stessa abbia poi contemporaneamente affermato, in via precauzionale, che “in several European countries – such as Sweden, Belgium, the Netherlands, Portugal and Italy – personal income tax rates reached about 75% in the past – although those rates were usually applicable only to the highest income brackets, related to revenues clearly exceeding the amount that is contemplated in the context of the present case.”. Secondariamente, nella parte motiva della sentenza la Corte ha attribuito rilevanza ad alcune pronunce delle corti nazionali degli Stati Contraenti, in particolar modo a quelle di alcune Corti costituzionali, le quali hanno dichiarato l’incostituzionalità di quelle aliquote superiori al 50%.

Orbene, per ciò che riguarda l’Italia è necessario un chiarimento. La Corte pare non conoscere esattamente quale sia la situazione generale del Paese, poiché non solo le fasce di reddito più elevate vengono assoggettate alle aliquote maggiori. Infatti, recenti studi statistici[8] hanno confermato come l’Italia presenti una delle pressioni fiscali più elevate per ciò che riguarda il settore delle piccole e medie imprese (PMI). A tal proposito si sottolinea come nel 2011 il Paese occupasse, addirittura, il primo posto fra le nazioni europee con una pressione fiscale complessiva sulle PMI pari al 68,6%[9], percentuale che è attualmente scesa al 65,8% (con una pressione fiscale generale pari al 43,8% del PIL nel 2013). Tale dato era, ed è tuttora, considerato confiscatorio da una parte della dottrina[10], sebbene la Corte Costituzionale abbia sempre rifiutato una simile definizione, non avendo mai individuato una soglia d’imposizione massima, che il legislatore sarebbe tenuto a rispettare, e soprattutto non avendo mai dichiarato l’incostituzionalità di una specifica aliquota, a differenza invece della Corte Costituzionale tedesca, la quale ha sviluppato un interessante criterio di riferimento, ovvero la cd. regola del 50%[11].

Tuttavia, il summenzionato orientamento non pare osservare né i principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo né il dettato dell’art. 42 della Costituzione italiana[12], ove il diritto alla proprietà è espressamente previsto e deve essere garantito a tutti. Sul punto è interessante notare come sia differente l’approccio tenuto dalla Corte Costituzionale italiana in campo fiscale rispetto al settore dell’espropriazione per pubblica utilità. Infatti in quest’ultimo, la Corte ha stabilito che la legittima espropriazione di un immobile, autorizzata dalla legge a tutela di un pubblico interesse, non possa in ogni caso trasformarsi in una completa eliminazione del diritto di proprietà, tanto che la disposizione normativa disciplinante un indennizzo, il cui valore oscilli tra il 60% e il 76% del valore di mercato del bene, non potrà superare il vaglio di costituzionalità[13].

Entrambe le discipline, ossia l’imposizione tributaria, da un lato, e l’espropriazione per pubblica utilità, dall’altro, colpiscono il diritto di proprietà e pertanto adottare una soluzione similare, che garantisca un giusto equilibrio tra la tutela dell’interesse pubblico e quella dei diritti fondamentali del contribuente, garantirebbe il rispetto del principio di uguaglianza.

Non a caso era già stata proposta una simile soluzione[14], la quale però non ha, purtroppo, incontrato il favore né del legislatore né della Corte Costituzionale italiana. Tuttavia si osserva come nelle pronunce N.K.M, Gáll e R.Sz. la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia compiuto un netto passo in avanti, infatti la stessa ha dato rilevanza, da un lato, alla pressione fiscale complessiva e dall’altro, a una specifica giurisprudenza costituzionale delle corti nazionali, aprendo così a possibili evoluzioni nel prossimo futuro, nella speranza che tale progresso contribuisca ad un ripensamento del suesposto orientamento della Corte Costituzionale italiana.

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Footnotes    (↵ returns to text)
  1. Come citare questo articolo: S. Martinengo, Brevi riflessioni sul rapporto tra il diritto alla proprietà e i sistemi fiscali confiscatori, in Studi Tributari Europei, n. 2/2014 (www.seast.it/rivista), pagg.62-66.
  2. Stefania Martinengo è dottoranda di ricerca in Diritto Tributario Europeo alla Scuola Europea di Alti Studi Tributari dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e funzionario legale – tributario presso l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Treviso. Le opinioni espresse in questo articolo sono strettamente personali e non sono riferibili all’ente di appartenenza.
  3. Art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
  4. Numerosa è la giurisprudenza avente ad oggetto l’art. 1 del Protocollo nr. 1 della CEDU come per es. CEDU, Buffalo s.r.l. in liquidazione vs. Italy, sentenza del 3 luglio 2003, ove la Corte ha stabilito che il diniego di rimborso di un’imposta indebitamente versata integra una violazione del pacifico godimento dei beni e CEDU, Dangeville vs. France, sentenza del 16 aprile 2002, nella quale la Corte ha dichiarato che la pronuncia del Supremo Tribunale Amministrativo francese, che non condannava l’Amministrazione finanziaria a rimborsare l’Iva riscossa in contrasto con la Direttiva europea, violava il diritto di proprietà così come previsto dalla CEDU. In modo similare si esprimono CEDU, Eko-Elda Avee vs. Greece, sentenza del 9 Marzo 2006 e CEDU, Intersplav vs. Ukraine, sentenza del 9 gennaio 2007, ove la legislazione fiscale aggravava illegittimamente la situazione fiscale dei contribuenti.
  5. Il termine confiscatorio è apparso in campo fiscale con la sentenza del 23 febbraio 1995 Gasus Dosier- und Fördsrtechnik Gmbh vs. The Netherlands, ma è poi praticamente scomparso nelle pronunce successive come in CEDU, Orion-Breclav, S.R.O. v. The Czech Republic, sentenza del 13 gennaio 2004 e in CEDU, Imbert de Tremiolles v. France, sentenza 4 gennaio 2008, ove la questione sulla natura confiscatoria di alcune imposte è stata risolta dichiarando inammissibili i ricorsi presentati.
  6. CEDU, N.K.M. vs. Hungary, sentenza del 14 maggio 2013; CEDU, Gáll vs. Hungary, sentenza del 25 giugno 2013 e CEDU, R.Sz. vs. Hungary, sentenza del 2 luglio 2013.
  7. In realtà un’aliquota del 98% non può di per se stessa essere considerata l’unico motivo per determinare la non proporzionalità di un’imposta come si può evincere da R.Sz. vs. Hungary, § 56, ove la Corte ha stabilito che “given the margin of appreciation granted to States in matters of taxation, the applicable tax rate cannot be decisive in itself”.
  8. Rapporto della Banca Mondiale “Paying Taxes 2014”.
  9. Rapporto della Banca Mondiale “Paying Taxes 2011”.
  10. G. Falsitta, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, in Riv. dir. Trib., 2010, 2, p. 139 and ff.
  11. Si veda ad es. Corte Cost., n. 111/1997, ove, al tempo, la sommatoria dell’imposta comunale sugli immobili e dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche si traduceva in una pressione fiscale complessiva pari al 107% del reddito.
  12. Art. 42 Costituzione italiana; il testo della norma costituzionale prevede che “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”.
  13. Si veda Corte Cost. no. 348/2007.
  14. G. Falsitta, I divergenti orientamenti giurisprudenziali in Italia e in Germania sulle imposte dirette che espropriano l’intero reddito del contribuente, loc. cit., op. cit.