La disciplina delle cd. "società controllate e collegate estere" nell’ordinamento italiano

Giuliano Tabet, Marco Greggi [1]

1. Le "CFC Rules" nell’evoluzione del Testo unico 917/86 come strumento di contrasto al "Profit shifting": la ratio della disciplina

Fin dalla sua prima attuazione nell’ordinamento tributario italiano, con l’art. 127 bis del Testo unico delle imposte sui redditi n. 917/86, prima della rinumerazione ad opera del D. lgs. 344/03, la disciplina delle società cd. "controllate estere" si è sempre caratterizzata per una specifica finalità anti-abuso: è stata cioè concepita per contrastare quello che oggi potrebbe essere definito un fenomeno di erosione dell’imponibile domestico [2].

La fattispecie elusiva che diveniva il bersaglio della disciplina cd. "CFC" era quella che consisteva, con un ragionevole margine di approssimazione, in una delocalizzazione abusiva degli investimenti e dei capitali presso giurisdizioni tributarie più favorevoli rispetto a quella italiana (vale a dire caratterizzate da un prelievo tributario sensibilmente più basso rispetto a quello italiano, se non addirittura del tutto figurativo) o comunque caratterizzate da un livello inappagante di collaborazione orientata alla repressione dell’evasione fiscale [3]. La delocalizzazione più seguita consisteva (e consiste tuttora) nella costituzione, nel territorio di insediamento, di una società controllata; in questo caso, ai sensi del Codice civile italiano (art. 2359 Cod. civ.) può trattarsi di controllo di diritto o di fatto a seconda che, rispettivamente in assemblea si abbia la maggioranza dei voti, quindi quando si ha il 51% dei titoli aventi diritto al voto, ovvero quando si sia in condizione di poter esercitare in assemblea un controllo dominante [4]: condizione questa che può essere soddisfatta anche con una percentuale più bassa, quando però si sia socio di riferimento oppure quando esistano rapporti economici tali per cui il soggetto controllato dipenda economicamente dal "controllante", perché è l’unico fornitore o è l’unico acquirente o è un co-licenziatario di brevetti, e così via [5].

La costituzione di una società di cui si ha il controllo in un Paese di bassa fiscalità comporta allora che gli utili che sono stati prodotti nel territorio di insediamento beneficino di una tassazione inferiore, o comunque determinino una redditività che non viene manifestata nel Paese della società controllante (vale a dire quello in cui questa risiede): le conseguenze allora sono facilmente intuibili.

Tutto questo determina sicuramente un primo risultato positivo: avendo la società controllante la maggioranza dei voti in assemblea può stabilire se e quando si debba deliberare la distribuzione degli utili realizzati dalla controllata: di fatto la società controllata è nelle mani della società "madre" la quale, modulando la sua politica riguardante l’an e il quantum di distribuzione dei profitti realizzati dalla controllata può sicuramente realizzare un primo vantaggio che è quello del cd. "tax deferral": di poter cioè differire indefinitamente il prelievo sui quei profitti in capo alla società madre (residente in Italia, nel nostro caso) [6].

Pur essendo la società controllata autonoma, da un punto di vista giuridico, essa in realtà diventa uno strumento nelle mani della controllante [7], e questo è storicamente il motivo per il quale si è pensato di adottare una disciplina di contrasto volta appunto ad impedire la pianificazione fiscale: un particolare tipo di pianificazione a livello internazionale che si basa su gruppi di società [8] con un rapporto di controllo. Questa disciplina è stata introdotta per la prima volta negli Stati Uniti, dove i gruppi multinazionali costituiscono una parte importante dell’economia del Paese [9].

Con il passare del tempo, tuttavia, è emersa la consapevolezza anche di un altro fenomeno. Ci si è resi conto del fatto che questo fenomeno consistente nella costituzione in territori privilegiati di società controllate non avveniva solo o principalmente per attuare una politica di pianificazione fiscale, ma anche per determinare ulteriore vantaggio, sempre in una prospettiva puramente fiscale: quello di delocalizzare all’estero non attività produttive di reddito, ma fonti di reddito che non necessariamente hanno un collegamento con il territorio dove vengono posizionati, come partecipazioni, diritti su beni immateriali, brevetti, diritti d’autore e così via [10].

Se la società controllante si spoglia di un brevetto, per esempio conferendolo a una società estera controllata, la fonte di reddito costituita dal brevetto si sposta dall’Italia e viene posizionata nel Paese a bassa fiscalità [11]: in questo caso la società controllante rivestiva il ruolo di semplice contenitore in quanto non aveva altra funzione se non quella, appunto, di possedere la fonte di reddito che per questo viene portata all’estero al fine di spezzare il nesso di imputazione con il reddito globale della controllante.

Il vantaggio non è solo di realizzare un tax deferral, ma anche di svuotare la società controllante di redditi che sarebbero altrimenti tassati in Italia.

Ma la delocalizzazione all’estero può anche riguardare asset o spese diverse rispetto a quelle afferenti la proprietà intellettuale: si pensi ad esempio a tutti i servizi resi infragruppo in un gruppo di società internazionale, come le spese di pubblicità, di regia e così via: tutti i servizi infragruppo possono essere delocalizzati all’estero, e poi fatturati ai singoli appartenenti al gruppo creando reddito nel Paese a bassa fiscalità [12]. Si pensi ancora, a titolo d’esempio, ad un gruppo che ha nelle Isole del Canale oppure alle Bahamas la sua centrale finanziaria (quindi la società che effettua prestiti ad interessi all’interno del gruppo): i redditi che derivano da questi prestiti cioè gli interessi attivi vengono localizzati nei Paesi a fiscalità privilegiata, mentre la società che risiede nel Paese a fiscalità ordinaria registra solamente dei costi.

Ecco che allora lo strumento della controllata estera si presta, in un certo senso, ad una serie di operazioni che sono piuttosto ampie e tutte pregiudizievoli dell’interesse erariale. Per tutti questi motivi il legislatore ha pensato di contrastare questa deriva attraverso un principio invero già noto all’ordinamento tributario domestico: quello di trasparenza [13].

Secondo il principio di trasparenza, caratteristico della tassazione ai fini delle imposte dirette delle società di persone,  la società non è soggetto passivo e al socio viene imputato per trasparenza il reddito prodotto da quest’ultima, indipendentemente dalla sua distribuzione.

Lo stesso principio è stato introdotto per le società controllate estere: il reddito prodotto dalla società estera nel Paese d’insediamento viene imputato per trasparenza ai soci residenti in Italia in ragione della loro quota di partecipazione agli utili indipendentemente dalla effettiva distribuzione: con un ragionevole margine di approssimazione, è come se si applicasse la regola delle società di persone.

Questo meccanismo serve per rendere inutile, secondo il disegno del legislatore, la delocalizzazione di una parte delle fonti del reddito all’estero, perché quel reddito viene tassato comunque in Italia indipendentemente dall’effettiva percezione, quando si chiude l’esercizio della società controllata estera.

Questa norma è contenuta nell’articolo 167 e 167 bis del TUIR 917/86 secondo il quale "… se un soggetto residente in Italia detiene, direttamente o indirettamente [14] anche tramite società fiduciarie o per interposta persona il controllo di una impresa [15], di una società o di altro ente, residente o localizzato in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 168-bis [16], i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati, a decorrere dalla chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi detenute".

Va evidenziato da subito in questo contesto, il richiamo che il legislatore opera al concetto di redditi "conseguiti", e questo perché, come si vedrà, i proventi che concorrono alla base imponibile italiana secondo l’applicazione di questo principio di trasparenza  sui generis sono quelli esteri che vanno quantificati non secondo le norme dello Stato di insediamento del soggetto non residente, bensì secondo quelle del reddito d’impresa italiano. Ne deriva che il punto di partenza non è, a titolo d’esempio, il bilancio (e l’utile emergente dal bilancio) della società residente nelle Bahamas (tanto per richiamare l’esempio precedente), sul quale non è possibile fare completo affidamento, ma il reddito quale viene determinato secondo le regole del diritto italiano, il che comporta delle operazioni tutt’altro che tecnicamente semplici perché, si possono registrare sfasamenti temporali, criteri di determinazione del reddito contrastanti l’uno dall’altro e così via [17].

Tuttavia, prima di addentrarsi ulteriormente nella disamina delle specificità del regime delle cd. "CFC", pare opportuno verificare il meccanismo di tassazione di questi redditi secondo trasparenza. In questo contesto  emerge forse quella che è la prima singolarità di questa disciplina: essi non si sommano infatti ai redditi di fonte italiana della società controllante, ma vengono tassati separatamente [18].

Questa scelta deriva dal timore del legislatore che se si fosse consentita la compensazione tra redditi di fonte estera, imputati per trasparenza, e redditi italiani, le eventuali perdite straniere avrebbero concorso a diminuire i redditi tassabili di fonte domestica: quindi una tassazione unitaria avrebbe potuto essere anche controproducente, perché avrebbe aperto la strada alla compensabilità di perdite estere con profitti italiani, con un conseguente abbattimento dell’imponibile domestico: ecco allora il motivo per il quale si è realizzata la tassazione separata, secondo la quale i redditi di fonte estera sono soggetti ad una tassazione che non si cumula con la tassazione dei redditi italiani.

Questa tassazione separata applica, se si tratta di soggetto IRES, l’aliquota media dell’ultimo biennio; quindi sempre costantemente il 27%; se si tratta di persone fisiche, si applicano invece le regole della tassazione separata per queste ultime, e cioè la soggezione ad aliquote diverse a seconda di quella che è stata l’aliquota media dell’ultimo biennio: in ogni caso mai inferiore al 27%.

Si è quindi voluto in realtà livellare l’incidenza fiscale in capo alla società e alle persone fisiche.

Le eventuali perdite del reddito di fonte estera seguiranno la regola del riporto in avanti anche alla luce dei limiti dell’art. 84 TUIR così cosi recentemente riformulato dal D.l. 98/11.

                                                                                                                                                                     2. I rimedi alla doppia imposizione internazionale derivante dall’applicazione dell’art. 167: il ricorso al credito d’imposta

Oltre a questo, il legislatore ha previsto una disciplina specifica anche per le imposte che la società controllata estera ha pagato nel territorio di insediamento. Com’è noto, una delle conseguenze più ricorrenti nell’ambito della tassazione internazionale è la cd. "doppia imposizione internazionale" [19]. Il fatto che in Italia si applichi la disciplina delle cd. "CFC" non turba lo Stato estero, il quale tasserà la società controllata come un ente che ha prodotto reddito nel proprio territorio.

Le imposte che la società controllata (estera) ha pagato nello Stato di insediamento vengono ammesse in detrazione dall’imposta italiana applicata secondo la regola della tassazione separata: quindi dall’imposta italiana calcolata secondo la regola della tassazione separata e con un’aliquota del 27% si detrae il tributo pagato all’estero nei limiti dell’art. 165 TUIR.

Se poi la società controllata (estera) delibera in anni successivi di distribuire dividendi alla società madre trova applicazione la regola generale: poiché in questo caso i dividendi già hanno scontato l’imposta sotto forma di imputazione del reddito per trasparenza, non si potranno tassare una seconda volta, perché altrimenti l’Italia li assoggetterebbe ad imposta prima per imputazione e poi per distribuzione [20]. Ne deriva che i dividendi che sono stati distribuiti dal soggetto estero controllato "… non concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all’ammontare del reddito assoggettato a tassazione, ai sensi del medesimo comma 1, anche negli esercizi precedenti …".

È chiaro che, per fare un esempio, se sono stati imputati per trasparenza nel 2000 redditi di fonte estera, e poi questi stessi redditi vengono distribuiti sotto forma di dividendi nel 2005, quei dividendi hanno già scontato l’imposizione per trasparenza e quindi non entreranno a far parte della tassazione italiana del soggetto controllante, perché questa volta il dividendo sarebbe reddito del soggetto controllante e non andrebbe più assoggettato a tassazione a separata.

Un problema diverso è quello riguarda le imposte che sono state pagate sui dividendi in uscita a titolo di ritenuta alla fonte nel Paese estero.

Anche qui il dividendo, nel momento in cui viene deliberato e distribuito dal soggetto estero, può scontare una ritenuta in uscita nel Paese di insediamento, riproponendo così il problema di una doppia imposizione. L’Italia, dal canto suo, riconosce il credito d’imposta secondo l’articolo 165 TUIR fino a concorrenza delle imposte che sono state applicate in Italia su quel dividendo e diminuito di quanto era stato già ammesso in detrazione per le imposte che avevano gravato sul soggetto non residente che ha distribuito, e ciò allora allo scopo di mitigare o rimuovere del tutto la doppia imposizione.

                                                                                                                                                                  3. Il regime CFC alla prova del Diritto eurounitario (e in particolare la compatibilità con il principio di libertà di stabilimento)

L’Europa vede con favore una disciplina armonizzata delle società controllate estere, ma pone dei limiti, essenzialmente finalizzati alla salvaguardia della libertà di stabilimento.

La libertà di stabilimento è una delle quattro libertà fondamentali, che va salvaguardata anche nel caso in cui una società (ad esempio, italiana) decida di andare ad investire in un Paese estero (appartenente all’Unione), allo scopo di produrre ivi reddito, in quanto in quel Paese si registra una tassazione più bassa [21].

La concorrenza fiscale tra gli ordinamenti nazionali non è vietata dal Trattato di Roma [22], seppure con i limiti e le precisazioni che la Corte di giustizia ha avuto modo di formulare nel corso degli anni [23].

Dal canto suo, il legislatore italiano, forse allo scopo di attenuare già all’origine i profili di maggior attrito della disciplina domestica delle cd. "CFC", ha ammesso da parte del contribuente una prova contraria. Viene infatti riconosciuta la possibilità di ottenere la disapplicazione della disciplina CFC quando ricorre almeno una fra due esimenti.

La prima esimente è quella per la quale si può dimostrare, tramite un interpello preventivo all’Amministrazione finanziaria, che la società non residente svolge "… nel mercato dello Stato o nel territorio d’insediamento …", un’attività industriale o commerciale come attività principale.

All’impresa che invoca la disapplicazione della normativa di contrasto viene richiesto di fornire la dimostrazione che la scelta di operare nel territorio estero deriva dal fatto che lì si svolge effettivamente un’attività industriale o commerciale: che nel paese di insediamento sia stata costituita dunque una struttura operativa, non solo un box office, ma un complesso aziendale che abbia una relazione concreta proprio su quel territorio mediante una struttura operativa [24].

Inoltre, quest’attività deve essere svolta nel mercato dello Stato d’insediamento. Si tratta di un termine, quello di "mercato", usato qui in un modo un pò ambiguo, perché non basta che ci sia una struttura operativa in quel territorio, ma deve sussistere una relazione di causa – effetto tra quello che svolge quella struttura e il mercato esistente in quel territorio.

Tutto questo può significa re due cose: (1) che la struttura societaria costituita deve avere clienti, quindi uno sbocco della sua produzione, su quel territorio e non in altri, e allora non basta dimostrare che, a titolo d’esempio, si abbia nelle Isole del Canale uno stabilimento, ma che le vendite di quello stabilimento sono rivolte a clienti ivi esistenti; oppure (2) che in quel territorio sono localizzati i fornitori, quindi che la materia prima che viene utilizzata dallo stabilimento ivi costituito proviene da quel territorio.

Si tratta di  limitazioni molto stringenti che poi l’Amministrazione ha dovuto di fatto attenuare, perché altrimenti la prova diventava di fatto diabolica, e ben difficilmente compatibile con il diritto eurountario nei casi nei quali la disciplina CFC risulti applicabile anche all’interno del territorio dell’Unione [25] alla luce dei principi di proporzionalità e ragionevolezza [26].

L’altra esimente prevista dal legislatore è quella secondo la quale "… dalle partecipazioni non consegua l’effetto di localizzare redditi in Stati o territori di bassa fiscalità…".

Si tratta di un riferimento non particolarmente chiaro, ma che spesso ha luogo nel campo delle imposte sul reddito: bisogna dimostrare che l’effective tax rate che si è pagata nell’intero gruppo, limitatamente ai redditi provenienti dal territorio a fiscalità privilegiata, non ha comportato una tassazione più bassa di quella che sarebbe stata applicata se il gruppo avesse avuto sede solo nel territorio italiano: anche questa è una prova molto difficile, perché richiede la dimostrazione che non ci sia stato un vantaggio fiscale considerevole [27].

                                                                                                                                                               4. Dal requisito del controllo a quello del collegamento: le frontiere mobili della CFC legislation

La situazione descritta era quella esistente fino al 2009: poi il legislatore italiano ha modificato la disciplina, intendendo perseguire non soltanto gli insediamenti che sono posizionati in Stati black-list, quanto piuttosto verificare quali fonti reddituali che sono state trasferite in Paesi terzi, anche non black-list.

È stato così che si è introdotto anche all’interno del nostro ordinamento il concetto di passive income [28] per designare una fonte di reddito che non abbia alcun collegamento necessario con il territorio d’insediamento, ma sia ivi introdotta al solo scopo di escludere la tassazione domestica su quella componente reddituale.

Se si posiziona un brevetto nelle Antille, o si localizzano delle partecipazioni o altre attività finanziarie in qualche altro Stato caraibico, queste fonti di reddito non hanno alcun collegamento con il territorio di insediamento, e la ragione della loro localizzazione presso quella giurisdizione fiscale sta solo nel fatto che le si voglia sottrarre alla tassazione in Italia, anche nell’ipotesi in cui la tassazione in quel territorio non sia sensibilmente inferiore alla tassazione nel nostro Paese.

Si è così passati da una misura di contrasto che guardava solo al criterio della tassazione nel Paese della controllata, jurisdiction approach, alla cosiddetto transaction approach o shopping approach: non è più monitorata l’aliquota di tassazione, ma il tipo di fonte di reddito che è stato trasferito nel Paese d’insediamento della controllata [29].

Questa architettura elusiva si utilizza principalmente in caso di investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie che sono quelle caratterizzate da un tasso di mobilità maggiore rispetto a tutte le altre attività e che più facilmente si possono posizionare nel Paese che garantisce maggiori vantaggi fiscali.

È abbastanza scontato che architetture di questo tipo non servano a produrre reddito nel Paese di insediamento, ma sono utilizzate soltanto per eludere la tassazione domestica. Infatti le partecipazioni nel Paese terzo il più delle volte riguardano società operative fiscalmente residenti altrove.

Ancora, la cessione e le concessioni in uso di diritti immateriali relativi a proprietà industriale, letteraria o artistica, presentano lo stesso profilo di rischio per l’interesse erariale. Si pensi a titolo d’esempio ai brevetti e marchi come quelli Gucci, Saint Laurent, Dior e così via. Questi possono essere conferiti in qualunque società localizzata in ogni parte del mondo dove la tassazione è più mite, con l’effetto di far affluire a quella società le royalties di tutte le società del mondo che utilizzino il marchio o il brevetto in questione [30].

È evidente che potrebbe essere assente (e spesso di fatto non c’è) alcuna ragione produttiva per cui il brevetto dovesse essere proprio posizionato in quel Paese. Lo stesso può dirsi per i diritti d’autore o i diritti di proprietà artistica e musicale, che sono appunto fonti di reddito passive.

Un altro emendamento molto interessante è quello apportato dal legislatore quando impone l’applicazione del regime CFC anche ai proventi derivanti "… dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari …".

La scelta si giustifica per il fatto che i servizi infragruppo sono quelli che oggi si prestano ad essere maggiormente delocalizzati, si pensi ad esempio ai servizi di regia, quelli di pubblicità, i prestiti finanziari, i servizi di assistenza tecnica, i servizi assicurativi, i servizi di tesoreria accentrata, e così via.

Il gruppo multinazionale può posizionare la società che presta questi servizi infragruppo nel luogo più distante geograficamente, ma più conveniente fiscalmente rispetto alle società che si avvalgono di questi servizi, per esempio i call center possono essere posizionati nella Guyana o nelle Filippine. Poi però la società che presta questi servizi fattura a caro prezzo alle società del gruppo sue clienti.

È quindi chiaro a tutti che la delocalizzazione diventa il modo più efficace per effettuare una pianificazione fiscale a livello multinazionale.

Al ricorrere di queste situazioni, l’attenzione del legislatore e del fisco si rivolge non più al sistema di tassazione del luogo dove è insediata la società controllata, ma a che cosa ci sia all’interno del patrimonio della società controllata, quindi al passive income, o meglio a tutti i possibili cespiti che sono fonte di passive income: servizi e capitali [31].

In questi casi anche se la società controllata non è posizionata in un Paese black-list ma viene costituita in un Paese a fiscalità non privilegiata, si applica ugualmente la disciplina delle CFC ma in forma inversa, cioè non in modo automatico, ma solo se e nella misura in cui si superino certi limiti [32].

Quelli attualmente previsti fanno riferimento ai proventi della società non residente, che devono provenire per più del 50% da gestione di partecipazioni, oppure da servizi resi infragruppo, da diritti di brevetto, royalties e quant’altro.

Se più del 50% dei proventi della società controllata provengono da queste fonti di reddito ad elevata mobilità, allora si applica la disciplina delle black-list.

Si tratta di un rinvio alla disciplina sin qui illustrata che non avviene in un modo pedissequo.

In ragione della specificità della fattispecie considerata, e della natura dei redditi attratti al regime di "trasparenza", il legislatore ha innanzitutto limitato l’applicazione delle esimenti sopra richiamate.

In altri termini, se si supera il limite del 50% e se ci si posiziona in un Paese anche non black-list, la disciplina trova applicazione in ogni caso, salvo che non si dimostri il verificarsi di entrambe le esimenti prima richiamate.

Si deve cioè dare anche dimostrazione che l’effective tax rate che il gruppo ha pagato non è inferiore a quella che avrebbe pagato se non avesse fatto uso di quella struttura: è un modo un po’ involuto per dire che il fatto di avere una controllata estera il cui 50% dei proventi derivino da quelle tre fonti passive è sospetto.

Questa diffidenza si radica nella presunzione che nel Paese di insediamento sia condotta un’attività con finalità elusive, senza la quale non sarebbe giustificata la localizzazione nel Paese estero.

In conclusione, per contrastare la disciplina CFC non basta dare la dimostrazione del primo esimente, ma occorre anche dimostrare che tutta la struttura societaria realizzata non è comunque essenzialmente finalizzata alla realizzazione di un risparmio d’imposta.

                                                                                                                                                                          5. Considerazioni conclusive: l’art. 167 del Testo unico dopo il precedente "Cadbury Schweppes"

C’è poi un ulteriore profilo degno di nota: anche se si ha posizionato la controllata in un Paese considerato virtuoso dalla Stato italiano, che assicura lo scambio d’informazioni, che non ha una tassazione sensibilmente inferiore a quella italiana, quindi in un Paese, come dire insospettabile, anche in questo caso astrattamente può trovare applicazione la disciplina delle CFC, sempre se i passive income che derivano da quel Paese superano del 50% i proventi generali comunque ottenuti. Anche in questo caso si può invocare l’esimente (e quindi la disapplicazione del regime CFC) ma dando la dimostrazione, questa volta ancora più rigorosa, che quella costituita non è stata una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale.

Si tratta quindi di una prova ancora più specifica e puntuale: non solo non basta sostenere e dimostrare che si abbia un’attività effettiva, non basta dire che la società in quel Paese è soggetta ad un tax rate equivalente a quella italiana, ma si deve dimostrare che non si è in presenza di una costruzione puramente artificiosa.

Questo termine, quello della "costruzione artificiosa", viene direttamente dalla sentenza della Corte di Giustizia C-196/04 Cadbury Schweppes, del 2006 [33].

Nella sentenza Cadbury in sostanza si chiedeva alla Corte di accertare se la disciplina CFC (nel caso specifico era oggetto di scrutinio da parte dei giudici del Lussemburgo quella inglese), "… nello stabilire e finanziare società in un altro Stato membro al solo scopo di beneficiare di un sistema tributario più favorevole di quello in vigore nel Regno Unito, la [società] CS abbia abusato delle libertà fondamentali istituite dal Trattato CE" [34].

Nel caso in questione una società inglese aveva costituito una propria controllata in Irlanda, dove si registrava una tassazione più bassa rispetto a quella della Madre patria: a questa società (o meglio, in base alla partecipazione in questa società) l’Amministrazione finanziaria inglese aveva applicato il regime CFC.

A seguito di questa presa di posizione, contrastata in sede giurisdizionale da parte del contribuente, il giudice inglese si rivolgeva alla Corte di Giustizia con il primo quesito sopra riportato: il fatto che una società abbia scelto di posizionare una sua controllata in Irlanda, che si caratterizza per una tassazione inferiore a quella anglosassone, poteva essere considerato un abuso di una libertà fondamentale del Trattato, cioè della libertà di stazionamento?

La Corte, come è noto, ha risposto in senso negativo: non si tratta di un abuso, perché non c’è nessuna norma del Trattato che vieti a un operatore economico europeo di andare a stabilire una sua controllata (se non addirittura di trasferire la propria sede) nel Paese più conveniente: non c’è cioè nessuna norma del Trattato che ponga dei limiti intrinseci alla libertà di stazionamento per il solo fatto che la si utilizzi per andare a cercare una tassazione meno onerosa.

Allora, continua il secondo quesito, se un operatore ha esercitato una libertà che deriva dal Trattato, la normativa antiabuso, come quella CFC, che pone invece queste limitazioni in Inghilterra è una illegittima restrizione ad una libertà garantita dal Trattato?

Qui la risposta è stata più articolata: per la Corte è stato necessario verificare quali restrizioni siano poste e soprattutto se sia data la possibilità di dare una prova contraria; cioè se lo Stato della controllante dia la possibilità di dimostrare che l’imprenditore sia andato nel territorio estero per altri motivi oppure no.

La conclusione è stata nel senso che se la restrizione trova fondamento sulla costituzione, nel caso di specie, di una struttura artificiosa, puramente artificiosa, allora la disciplina CFC è in regola con le norme del Trattato; se invece pone delle restrizioni automatiche o comunque fondate su criteri diversi, sarà il giudice nazionale case by case a dover verificare se sia stata violata una libertà che derivava dal Trattato.

Si tratta di un insegnamento ancora di estrema attualità per tutte le discipline CFC che, come quella italiana, se da un alto si caratterizzano per un automatismo applicativo sicuramente più attenuato rispetto a quella inglese del tempo, dall’altro lato pero intrinsecamente manifestano tratti di vulnerabilità sotto il profilo comunitario [35].

Spetterà dunque all’Amministrazione finanziaria, e soprattutto alla giurisprudenza di legittimità e di merito fornire una interpretazione degli articoli 167 e seguenti che sia comunitariamente orientata, e come tale idonea a garantire e salvaguardare un ragionevole bilanciamento fra l’interesse erariale da un alto e la piena attuazione delle libertà europee dall’altro [36].

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Footnotes    (↵ returns to text)
  1. Giuliano Tabet è Professore di Diritto Tributario presso l’Università "La Sapienza" di Roma. Marco Greggi è Professore di Diritto Tributario presso l’Università di Ferrara. L’articolo costituisce l’adattamento in sintesi della lezione tenuta dal Prof. Giuliano Tabet nell’ambito del seminario "Società controllate estere (cd. "CFC Rules)" tenuto presso l’Università degli Studi di Ferrara, dipartimento di Giurisprudenza, il 30 maggio 2013.
  2. Si veda in questo senso l’ancor recente Report dell’OECD, Addressing Base Erosion and Profit Shifting, Paris, 2013, p. 85 e ss.; nonché il successivo Action Plan, ivi, 2013, p. 37.
  3. Sacchetto C., Lo scambio di informazioni in materia fiscale. Collegamenti con il procedimento penale. L’approccio italiano, in Riv. dir. trib. int., 2009. P. 89 e ss.
  4. Marino G., La relazione di controllo nel diritto tributario, Padova, 2008, p. 144.
  5. Nella prospettiva del diritto industriale si veda Vanzetti A. – Di Cataldo  V., Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, pp. 615 e ss.
  6. Gaffuri A. M., La residenza fiscale nel diritto comunitario, in Giur. it., 2009, pp. 2579 e ss.
  7. Fantozzi A., Diritto tributario, Torino, 2012, p. 436; Dami F., I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 011, passim.
  8. Lang J., La tassazione delle imprese nella competizione internazionale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2012, I, p. 237.
  9. Avi – Yonah R-, International Tax as International law, Cambridge, 2007, p. 25, in particolare, per la ricostruzione del primo regime CFC attuato negli Usa dall’amministrazione Kennedy nel 1961 e poi scelto anche da altri Stati (con le variazioni del caso).
  10. De Broe L., International tax planning and prevention of abuse, Amsterdam, 2007, p. 630.
  11. De Broe L., op. cit., pp. 125, 606 e ss.
  12. Realizzando così proprio uno di quei fenomeni di "Profit shifting" recentemente messi all’indice dall’OECD nel Report, Addressing Base erosion and Profit Shifting, cit. Si veda in dottrina Schön W. e Konrad K. A., Fundamentals of international transfer pricing in law and economics, Munich, 2012, pp. 95 e ss.
  13. Ingrao G., La riforma dell’IRES e la legislazione sulle Controlled foreign companies, in (a cura di Beghin M.) Saggi sulla riforma dell’IRES dalla Relazione Biasco alla Finanziaria 2008, Milano, 2008, p. 265.
  14. Com’è noto, il controllo indiretto è quello che si sostanzia non attraverso vincolo diretto ma attraverso una società relais, che può essere anche una società fiduciaria. In merito si veda recentemente Marino G., op. cit., p. 37.
  15. Il richiamo al concetto di impresa qui permette di far riferimento anche ad una impresa individuale, andando a comprendere così sia una persona fisica, che una giuridica, che una società di persone, o di capitali, o ancora un ente non commerciale.
  16. Localizzato in un Paese a bassa fiscalità, e quindi iscritto nella "lista nera" dei Paesi a fiscalità privilegiata che non consentono lo scambio d’informazioni con l’Italia in base a trattati internazionali.
  17. Si tratta di questioni ben note anche nella prassi amministrativa, e ad esempio richiamate in Circ. min. 51/E del 6 ottobre 2010, in particolare a p. 6.
  18. Cfr. Art. 167, co. 6 TUIR 917/86.
  19. Baggio R., Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, p. 69; Adonnino P., voce Doppia imposizione internazionale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, XII, pp. 1 e ss.
  20. Fedele A., La direttiva "madre – figlia" e la disciplina attuativa come complesso normativo unitario e sistematico: criteri interpretativi, in Rass. trib., 2001, p. 1256.
  21. De Pietro C., Exit tax e libertà di stabilimento. Profili nazionali, europei e internazionali, Ferrara, 2013, pp. 5 e ss.
  22. Boria P., Diritto tributario europeo, Milano, 2010, p. 243.
  23. Basilavecchia M., L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. Dir. trib., 2009, I, pp. 362 e ss. Una ricostruzione dei filoni giurisprudenziali attenti al tema della concorrenza fiscale unitamente a quello degli aiuti di stato è reperibile in Amatucci F., Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 1999, p. 65.
  24. Paganuzzi M., La CFC legislation, in (a cura di C. Sacchetto) Principi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2011, p. 354.
  25. Nei rarissimi casi in cui questo era possibile, fino alla novella del 2009.
  26. Mondini A., Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’IVA europea, Pisa, 2012, p. 65.
  27. Sulla prova contraria e sulla necessaria attivazione della procedura di interpello si veda in giurisprudenza la sentenze della Comm. trib. reg. Lazio del 9 settembre 2008, n. 333.
  28. Hufbauer G. C. e Assa A., US Taxation of foreign income, Washington, 2007, p. 58 e in particolare nota 10.
  29. In generale si veda Lang M., CFC legislation, Tax Treaties and EC law, The Hague, 2004, p. 81.
  30. Harris P. e Oliver D., International Commercial Tax, Cambridge, 2010, p. 205.
  31. Ingrao G., D.l. anticrisi e "stretta" sulla normativa CFC: contrasto agli abusi fiscali o miopia del legislatore, in Rass. trib., 2010. pp. 87 e ss.
  32. Cfr. art. 167, co. 8 bis TUIR 917/86.
  33. Falsitta G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto "abuso del diritto", in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 349; Beghin M., La sentenza Cadbury Schweppes e il "malleabile" principio della libertà di stabilimento, in Rass. trib., 2007, p. 983; Cipollina S., CFC legislation e abuso della libertà di stabilimento: il caso Cadbury Schweppes, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2007, II, p. 13.
  34. Cfr. Punto 23 della sentenza.
  35. Bagarotto E. M., La compatibilità con l’ordinamento comunitario della disciplina in materia di controlled foreign companies alla luce delle modifiche apportate dal "decreto anti-crisi", in Giust. trib., 2010, p. 10.
  36. Di Pietro A., Per una costituzione fiscale europea, Padova, 2008, p. 450.