La neutralità fiscale nel finanziamento delle società. Il caso spagnolo.
1. Il principio di neutralità
La globalizzazione ha richiesto agli operatori economici, sia pubblici sia privati, una revisione delle proprie strategie e dei propri comportamenti. Ha osservato Vallejo Chamorro-Gutierrez Lousa [2] che “nel settore pubblico, i pubblici poteri hanno dovuto riformulare tanto le finalità politiche da perseguire, quanto gli strumenti da utilizzare per conseguirle. In questo modo, sono state abbandonate le posizioni interventiste che giustificavano il ricorso da parte dello Stato a tutti gli strumenti di politica monetaria e fiscale a sua disposizione per intervenire sul funzionamento del mercato; il principio di redistribuzione e intervento dei pubblici poteri si è imposto come conseguenza della maggiore autonomia del funzionamento dell’economia. I pubblici poteri hanno dovuto, pertanto, accettare l’idea che la loro azione si deve orientare alla realizzazione di un’economia efficiente, e in vista di questo obiettivo, deve porre in essere politiche neutrali”. Neutralità significa assenza di interferenze del sistema fiscale nell’adozione delle decisioni degli operatori economici, relativamente, ad esempio, all’allocazione dei propri risparmi o alla scelta delle forme di previdenza privata.
E in questi ultimi anni la neutralità si sta affermando come vero e proprio principio in campo tributario: si tratta del principio di neutralità fiscale. Esso trae origine dalla teoria della “neutralità distributiva” formulata da J. Stuart Mill, secondo la quale l’imposizione non deve alterare la situazione economico-finanziaria relativa dei contribuenti, il che concretamente significa, come ha osservato Neumark, che le imposte non devono provocare distorsioni della concorrenza, essendo il principio di neutralità un istituto “essenzialmente trascendente rispetto all’ordine economico”. Secondo Neumark, la neutralità va correttamente interpretata come una tendenza della politica fiscale a non influenzare i meccanismi concorrenziali nel mercato, in una situazione di concorrenza quasi perfetta, che si verifica soltanto nell’ipotesi di un ordinamento che assuma le libertà economiche come valori meritevoli di protezione giuridica [3].
In questo senso, il principio di neutralità riveste un’importanza particolare nei settori dell’ordinamento in cui la libertà dell’agire economico è un valore fondamentale, che verrebbe ostacolato dall’applicazione di determinate forme di imposizione, soprattutto per quanto attiene alle scelte relative alla localizzazione degli investimenti [4]. Il principio di neutralità è particolarmente rilevante ai fini del diritto comunitario, che è un ordinamento fondato sulla tutela delle quattro libertà economiche fondamentali – la libera circolazione dei lavoratori (sancita dall’art. 39 del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea – Trattato CE – nella numerazione successiva al Trattato di Amsterdam), il diritto di stabilimento (art. 48), la libera circolazione dei servizi (art. 49)e la libera circolazione dei capitali (art. 56) [5].
2. La neutralità nel diritto comunitario
La neutralità, tuttavia, non è propriamente un principio del diritto comunitario. E’ piuttosto un criterio generale che svolge un a funzione interpretativa, e viene in rilievo solo rispetto ad alcuni settori della normativa comunitaria, principalmente due . In primo luogo, con riferimento alle operazioni di ristrutturazione, il preambolo alla Direttiva 90/434/1990 [6] afferma che “le fusioni, le scissioni, i conferimenti d’attivo e gli scambi d’azioni che interessano società di Stati membri diversi possono essere necessari per porre in essere nella Comunità condizioni analoghe a quelle di un mercato interno e per garantire in tal modo l’instaurazione ed il buon funzionamento del mercato comune; che tali operazioni non devono essere ostacolate da restrizioni, svantaggi e distorsioni particolari derivanti dalle disposizioni fiscali degli Stati membri ”. E’ questa neutralità che ispira il regime del cosiddetto riporto dell’imposizione, che la Direttiva 90/434/CE pone quale principio fondamentale nella regolamentazione delle ristrutturazioni di società [7].
Tale Direttiva istituisce per le operazioni di ristrutturazione d’impresa un regime fiscale opzionale vantaggioso per il contribuente, detto regime del riporto, in base al quale vanno esenti da imposta le plusvalenze (intese come differenza tra il valore reale degli elementi conferiti ed il loro valore fiscale) generate in conseguenza del trasferimento di beni e diritti nell’ambito di tali operazioni di ristrutturazione, considerandosi quindi gli elementi conferiti al loro valore di mercato. G li elementi patrimoniali trasferiti conservano tuttavia il valore loro attribuito nella società conferente, in modo che la tassazione delle plusvalenze è differita al momento in cui esse siano effettivamente realizzate con la successiva alienazione dei beni [8]. La Direttiva stabilisce un regola di continuità nei valori, imponendo la continuità ne i criteri di determinazione dei profitti e consentendo agli Stati membri la facoltà di concedere alla società beneficiaria dell’operazione l’assunzione delle perdite della società conferente. Sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 25 novembre 2009 è stata pubblicata la Direttiva 2009/133/CE del Consiglio del 19 ottobre 2009 [9], che introduce una riforma del regime fiscale di fusioni e scissioni , affermando nel secondo considerando, sempre sulla stessa linea, che “ le fusioni, le scissioni, le scissioni parziali, i conferimenti d’attivo e gli scambi d’azioni che interessano società di Stati membri diversi possono essere necessari per porre in essere nella Comunità condizioni analoghe a quelle di un mercato interno e per garantire in tal modo il buon funzionamento di tale mercato interno. Tali operazioni non dovrebbero essere ostacolate da restrizioni, svantaggi e distorsioni derivanti, in particolare, dalle disposizioni fiscali degli Stati membri. È opportuno quindi prevedere per queste operazioni regole fiscali neutre nei riguardi della concorrenza, per consentire alle imprese di adeguarsi alle esigenze del mercato interno, di migliorare la loro produttività e di rafforzare la loro posizione competitiva sul piano internazionale”.
Scopo della Direttiva non è altro che quello di invocare la neutralità per giustificare una misura come il differimento dell’imposizione delle plusvalenze realizzate nell’ambito di un’operazione di ristrutturazione. In altre parole, per giustificare un vantaggio fiscale finalizzato a creare all’interno dell’Unione Europea condizioni economiche e concorrenziali uguali a quelle di un mercato interno. Si tratta di consentire alle imprese di adattarsi alle esigenze del mercato interno, di aumentare la propria produttività e rafforzare la propria posizione competitiva sul piano internazionale. A tal fine, è necessario agevolare l’adeguamento degli operatori economici ad un contesto di concorrenza internazionale, rendendosi indispensabile garantire la neutralità dei sistemi fiscali in relazione alle operazioni di adeguamento delle strutture economiche a tale contesto, ed evitare così una penalizzazione di queste operazioni. La neutralità postula che l’imposizione non costituisca un impedimento nell’adozione di decisioni relative alla ristrutturazione o alla riorganizzazione d’impresa [10]. Ma è evidente così che la neutralità, differendone la tassazione, finisce anche per essere un incentivo ed uno stimolo alla realizzazione di tali operazioni di ristrutturazione.
Un altro settore in cui la neutralità gioca indubbiamente un ruolo importante è quello della definizione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA). Il modello IVA differisce da quello delle imposte indirette cosiddette “a cascata”, in quanto l’operatore economico viene completamente liberato dal carico impositivo sostenuto attraverso il meccanismo di detrazione dell’IVA pagata a monte. La neutralità del carico impositivo, realizzata per mezzo del la detrazione dell’imposta assolta da coloro che effettuano operazioni non esenti , è dunque una caratteristica immanente al sistema IVA [11].
Come affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Ghent Coal Terminal [12], il sistema comune dell’IVA ”garantisce la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA”.
Nell’ambito dell’Unione Europea, oltre al dato normativo, è soprattutto la Corte di Giustizia ad aver molto insistito su questo aspetto centrale del diritto a detrazione nel sistema comune dell’IVA. Nel caso Schul [13], ha affermato che “uno degli elementi fondamentali del sistema dell’IVA consiste in ciò: che l’IVA è dovuta solo previa detrazione dell’ammontare dell’ imposta che ha gravato direttamente sul costo dei vari elementi costitutivi del prezzo”, mentre nelle cause Jeunehomme, Oro e Genius Holding [14] ha ribadito che “uno degli elementi fondamentali del sistema dell’ IVA consiste nel fatto che in ciascun rapporto l’ IVA può essere riscossa solo previa detrazione dell’importo dell’ IVA che ha colpito direttamente il costo delle varie voci costitutive de l prezzo dei beni e dei servizi ”.
3. Neutralità e libertà di stabilimento nell’Unione Europea
Le prerogative della neutralità sono rafforzate dall’interazione con il principio di libertà di stabilimento, dotato - quest’ultimo - di efficacia diretta negli Stati membri secondo quanto affermato nel la giurisprudenza della Corte di Giustizia [15]. L’articolo 43 par. 2 [16] del TCE definisce il contenuto di tale diritto come la facoltà di accedere all’esercizio delle attività non subordinate, come la costituzione e la gestione di imprese e società. Per la Corte di Giustizia (si veda, tra le tante, la sentenza Avoir fiscal [17]), tale libertà ha ad oggetto la partecipazione stabile e continuativa nella vita economica di uno Stato diverso da quello di origine, in modo tale da ricomprendere in tale libertà l’esercizio effettivo di un’attività per mezzo di una stabile organizzazione stabilita in un altro Stato membro con una durata indeterminata, in assenza di una limitazione temporale predefinita. In concreto, la libertà di stabilimento include il diritto di stabilire all’estero la sede centrale dell’attività o di stabilire filiali, succursali e stabili organizzazioni.
In particolare, come afferma la Corte nel caso Centros [18], la libertà di stabilimento comprende il diritto di costituire e gestire imprese alle stesse condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. Inoltre, nel caso Daily Mail [19], la Corte ha riconosciuto che l ’istituzione di una filiale rientra nel diritto di stabilimento di cui a gli articoli da 43 a 48 TCE. Come ha precisato la sentenza Cadbury Schweppes [20], tale libertà comprende non soltanto il diritto di stabilirsi in un altro paese dell’Unione Europea e di costituirvi filiali, ma anche il diritto di essere trattato alle stesse condizioni, anche fiscali, previste dalla normativa dello Stato in cui detta filiale è situata.
Se è vero che i l diritto comunitario non copre l’utilizzo abusivo delle libertà comunitarie, non è possibile tuttavia presumere l’abuso della libertà di stabilimento dal mero fatto che la maggior parte – o la totalità – dell’attività economica di una società sia svolta dalla filiale e non dalla società madre.Quanto allo sfruttamento dei vantaggi comparativi di imposizione, nella sentenza X e Y [21] la Corte ha affermato che esiste “un autentico diritto del contribuente di pianificare operazioni fiscali che tengano in considerazione le differenze normative esistenti tra i regimi fiscali degli Stati membri e sfruttino le opportunità offerte dalla rete delle convenzioni contro la doppia imposizione sottoscritte tra tali Stati”. Ma elusione ed evasione fiscale non sono giustificate dalla Corte di Giustizia, che ritiene ammissibili le clausole anti-abuso previste nelle normative nazionali (ad esempio, per le controlled foreign companies) purché siano giustificate da motivi imperativi di interesse generale e si tratti di misure non discriminatorie , rispettose del principio di proporzionalità, nel senso che non si applichino alle situazioni non abusive.
4. Neutralità e libera circolazione dei capitali. La formula import-export. Neutralità fiscale interna ed esterna.
Nel diritto comunitario, pertanto, la neutralità si configura , in primo luogo, come corollario del primato delle libertà economiche. Secondariamente, si presenta come una regola applicabile ad un ventaglio variegato di situazioni, tra cui le operazioni di ristrutturazione d’impresa e l’IVA.
La neutralità fiscale ha inoltre un risvolto importante sul piano internazionale. Essa entra in gioco nei rapporti tra diversi ordinamenti tributari nazionali al momento delle scelte di localizzazione degli investimenti e dei servizi in un contesto di libertà economica. Questa neutralità opera sulle manifestazioni di ricchezza che prendono come riferimento l’importazione o l’esportazione di beni con valore economico.
Fondamentalmente, il modello import-export inquadra le relazioni economiche tra Stati come importazioni ed esportazioni di beni e servizi [22]. Dal punto di vista fiscale, questo modello presenta implicazioni diverse a seconda che si consideri l ’imposizione diretta o quella indiretta. In questo lavoro, si concentrerà l’attenzione sull’imposizione diretta, e, in particolare, sulla tassazione del reddito d’impresa.
A questo proposito, è opportuno ricordare che a livello internazionale vige il principio della tassazione delle società nel loro Stato di residenza, e che la residenza delle società è vincolata alla loro costituzione secondo la disciplina dello Stato di incorporazione. Così, si applicherà il principio di tassazione su base mondiale o su base territoriale a seconda delle previsioni della normativa nazionale in questione. Il criterio più diffuso è senza dubbio quello della tassazione del reddito mondiale, il quale conduce a due conclusioni: sotto un primo aspetto, nello Stato di costituzione della società (ossia lo Stato di residenza della società contribuente) viene assoggettato ad imposizione l’intero reddito realizzato dalla società, a prescindere dalla sua fonte. Sotto un secondo aspetto, il reddito mondiale viene determinato in base al principio di indipendenza, che è elemento essenziale nella c.d. regola di separazione delle imprese, secondo cui una filiale costituita in un altro Paese è considerata come un soggetto indipendente sottoposto ad imposizione nel proprio Stato di costituzione. In buona sostanza, è assoggettato ad imposizione nello Stato di costituzione della società tutto e soltanto il reddito mondiale direttamente riferibile alla società in questione. Tuttavia, il principio del reddito mondiale non viene portato alle sue estreme conseguenze, fino a comportare cioè una tassazione consolidata a livello mondiale. Ciò significa che le perdite generate da una filiale non incidono sulla determinazione della base imponibile della società madre a meno che non vengano considerate come perdita fiscalmente deducibile legata alla svalutazione della partecipazione detenuta in tale filiale, generata a sua volta dalle menzionate perdite.
Come osserva Delgado Pacheco, la maggior parte degli Stati di solito accetta che le entità del gruppo non residenti svolgano attività e realizzino redditi che vengono tassati nello Stato di residenza solo quando sono percepiti in forma di corrispettivi per servizi prestati in tale Stato o di dividendi distribuiti da tali entità non residenti [23].
Inoltre, tassare le filiali nello Stato in cui sono costituite (secondo il principio di indipendenza) significa anche accettare la possibilità che vengano utilizzate le c.d. base companies, ossia società localizzate in territori a fiscalità privilegiata che operano come centri di imputazione di un reddito che sarebbe altrimenti riconducibile a beneficiari ultimi residenti in una diversa giurisdizione fiscale. D’altro canto, viene espressamente disciplinata la figura delle controlled foreign companies. Si tratta di normative antielusive applicabili alle fattispecie in cui viene realizzato un reddito ”passivo” (cioè derivante esclusivamente dall’investimento di capitale) con una base company situata in un territorio a fiscalità privilegiata. Più che al perseguimento di una finalità antielusiva, queste norme servono in realtà a tutelare il principio di neutralità all’esportazione dei capitali [24]. Solo alcune voci in dottrina, tra quelle che difendono il modello di tassazione home State, riconoscono un simile consolidamento fiscale, disattendendo il principio di indipendenza e separazione dell’impresa per considerare come soggetto contribuente il gruppo multinazionale. Quest’ultimo comprende anche le stabili organizzazioni delle società del gruppo, e viene sottoposto nel suo complesso al regime di imposizione previsto nello Stato di residenza della società madre. In questo caso, scomparirebbero le singole società individualmente considerate, che confluirebbero nel gruppo, unico soggetto passivo d’imposta. A livello europeo, a l descritto modello di tassazione home State è preferito i l modello della Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB), che presuppone una base imponibile armonizzata, determinata secondo norme comuni adottate in sede comunitaria [25].
In base a tali norme comuni, sono tassati nello Stato di residenza della società i redditi derivanti dalle operazioni di esportazione e perciò è irrilevante ai fini della determinazione dell’imposta da pagare il fatto che le vendite siano perfezionate all’interno o fuori da tale giurisdizione .
Nondimeno, l’articolazione della formula import-export riveste una particolare rilevanza quando oggetto delle operazioni di importazione ed esportazione sono i capitali.
La neutralità all’importazione e all’esportazione dei capitali presenta numerosi risvolti che influenzano in modo decisivo l’imposizione diretta sulle società e le macro-categorie proprie de l sistema fiscale internazionale delle società, tra cui, in particolare, i metodi di eliminazione della doppia imposizione giuridica ed economica.
L’idea di base è che il regime fiscale non può ostacolare la libertà degli investitori al momento di scegliere i l luogo i n cui effettuare l’investimento. In altri termini, il livello di pressione fiscale non deve essere influenzare la decisione di investire nel proprio Stato di residenza o all’estero. In realtà, per realizza r e un sistema perfettamente neutrale non sono sufficienti gli strumenti di politica legislativa dei singoli Stati. Stabilire condizioni di favore per l a neutralità all’importazione e all’esportazione dei capitali è più facile con gli strumenti del diritto sovranazionale che con quelli a disposizione della legislazione domestica.
In questo modo, occorre distinguere, da un lato, la neutralità all’esportazione dei capitali (capital export neutrality), detta anche principio di neutralità interna, secondo cui i soggetti che producono reddito anche o soltanto all’estero devono ricevere lo stesso trattamento fiscale, né più né meno favorevole, riservato ai soggetti che producono reddito soltanto all’interno dello Stato di residenza.
Questa esigenza di parità di trattamento pone grossi problemi alla legislazione domestica. Due soggetti residenti devono essere assunti come termini di paragone per valutare l’esistenza di tale neutralità. Lo Stato di residenza dovrebbe garantire un trattamento simile al residente che produce reddito solo all’interno dello Stato e a quello che invece produce reddito totalmente o parzialmente all’estero. Però, perché questa azione legislativa unilaterale possa assicurare la neutralità all’esportazione dei capitali, è necessario predisporre un modello internazionale di imposizione su i redditi basato sul principio di residenza, in base al quale il reddito, indipendentemente dal luogo di effettuazione dell’investimento, sia tassato esclusivamente nello Stato di residenza.
Tuttavia, l’applicazione del principio di residenza come unico criterio guida della tassazione internazionale (come proposto nel Rapporto Neumark) non è ad oggi praticabile, in quanto gli Stati in cui gli investimenti vengono effettuati non sono disposti a rinunciare all’imposizione dei redditi prodotti sul proprio territorio. La maggioranza degli Stati, inoltre, applica contemporaneamente il principio di residenza ed quello della fonte.
Questo emerge con tanta più evidenza in riferimento alla tassazione internazionale dei gruppi di società, dove, come si è detto, il principio di tassazione del reddito mondiale è condizionato dalla regola dell’indipendenza e dell a separazione delle imprese. Detto principio agevola infatti la neutralità nell’esportazione dei capitali, stabilendo la tassazione del reddito a prescindere dalla localizzazione della sua fonte. Ciò nonostante, tale neutralità viene meno nella misura in cui non si procede al consolidamento su scala globale della base imponibile.
Lo Stato di residenza, infatti, non può eliminare il carico fiscale, maggiore o minore, imposto dallo Stato della fonte, essendo estraneo all’esercizio della sovranità di quest’ultimo. Si comprende perciò come la più grande minaccia alla neutralità all’esportazione dei capitali sia la doppia imposizione giuridica internazionale.
Alla luce di quanto si è detto, un’effettiva neutralità all’esportazione potrà essere raggiunta solo eliminando le differenze, ossia uguagliando l’aliquota effettivamente applicata in tutti i Paesi, cosa che, evidentemente, si può realizzare solo con iniziative che superano i limiti delle singole legislazioni nazionali.Ciò richiederebbe che tutti gli Stati fossero integrati in un contesto normativo armonizzato, il che ad oggi è improponibile sia nel campo dell’imposizione diretta sia, più in generale, all’interno dell’Unione Europea. Al di fuori dell’ordinamento sovranazionale, un’armonizzazione delle aliquote è compito tanto più arduo ove si consideri che la potestà impositiva inerisce strettamente all’esercizio della sovranità degli Stati e che lo scenario economico della globalizzazione ha stimolato la concorrenza fiscale internazionale. Per eliminare o almeno mitigare tale concorrenza fiscale, che – come afferma l’OCSE – è un fenomeno indesiderabile, si rende indispensabile un’azione condivisa sul piano internazionale. Ed un sistema basato sul principio di neutralità all’esportazione si pone come obiettivo, in ultima istanza, l’eliminazione della concorrenza fiscale.
Pertanto, l’imposizione nello Stato di residenza coesiste con quella nello Stato della fonte, dando origine a situazioni di doppia imposizione giuridica internazionale che ostacolano la realizzazione della neutralità all’esportazione. In conseguenza di ciò, lo Stato di residenza dovrà adottare meccanismi intesi a mitigare questa doppia imposizione. A tal fine, il metodo dell’esenzione sembra quello più indicato, poiché il metodo alternativo della deduzione dell’imposta realmente assolta (attraverso il meccanismo del credito d’imposta) costituisce un correttivo parziale e insoddisfacente, presupponendo che nello Stato della residenza venga sopportata la differenza tra il carico impositivo assolto alla fonte e il carico eventualmente più elevato da sostenere ai sensi della legislazione interna, ma impedendo che i redditi prodotti sullo stesso territorio scontino un grado di imposizione diversa a seconda che il contribuente sia o no residente.
Inoltre, l’adozione del criterio della residenza legittima l’esistenza di trattamenti differenziati tra soggetti residenti e non residenti, con il limite del divieto di discriminazioni posto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Sulla scorta di tale filone giurisprudenziale, inaugurato con la sentenza Commissione c. Francia (meglio nota come Avoir fiscal) [26], si ammette generalmente la possibilità di una disparità di trattamento tra residenti e non residenti, a meno che tale disparità non nasconda una discriminazione sulla base della nazionalità , il che significa porre un divieto di distorsioni di natura fiscale che alterino la concorrenza nel mercato.
Un discorso diverso bisogna fare rispetto alla neutralità all’importazione (import neutrality) o neutralità esterna (foreign neutrality). Se la neutralità all’esportazione era un principio applicato prevalentemente dagli Stati di residenza maggiormente propensi ad esportare capitali, all’opposto la neutralità all’importazione, o neutralità esterna, è privilegiata dai Paesi che si pongono nell’ottica di Stati della fonte. Questa forma di neutralità, infatti, esige l’applicazione dello stesso regime fiscale a coloro che producono reddito esclusivamente in quello Stato e a coloro che, essendo residenti all’estero, producono parte dei propri redditi anche in altri Paesi. Il che equivale a dire che lo Stato della fonte deve articolare il proprio sistema in modo tale da imporre lo stesso carico fiscale a tutti gli investitori che operano nella sua giurisdizione, indipendentemente dal loro Stato di residenza. E’ chiaro peraltro che questo obiettivo non può essere raggiunto con i soli mezzi predisposti unilateralmente dalla Stato della fonte.
Come è stato precedentemente illustrato, la neutralità all’esportazione può realizzarsi pienamente solo attraverso una (impraticabile) armonizzazione degli effettivi carichi fiscali. La neutralità all’importazione dei capitali, invece, parte dal presupposto molto più realistico che esista una concorrenza internazionale sul piano fiscale. Essa perciò riconosce la libertà dello Stato della fonte di prelevare ritenute nonché il suo diritto a tassare i redditi prodotti nel territorio, garantendo tuttavia una neutralità fiscale a coloro che investono i propri capitali in una certa giurisdizione.
Per quanto riguarda la tassazione dei gruppi di società, la neutralità all’importazione dei capitali si configura come l’indispensabile complemento della neutralità all’importazione. D a un lato, cioè, la neutralità all’esportazione non può essere pienamente raggiunta a causa del temperamento al principio di tassazione del reddito mondiale nello Stato di residenza apportato dal principio di indipendenza, che, imponendo la tassazione delle filiali nel rispettivo Stato di costituzione, esclude il consolidato su base mondiale; dall’altro lato la neutralità all’importazione incide direttamente sulla tassazione dei redditi nello Stato della fonte (cioè dei redditi delle singole filiali secondo l’imposta sulle società applicabile nello Stato della fonte) garantendo la neutralità all’interno di tale Stato. Il reddito della filiale sarà tassato nello Stato della fonte come reddito d’impresa . Nella prospettiva della società madre situata nello Stato di residenza, questo metodo impone una tassazione di redditi in detto Stato solo in caso di “rimpatrio” dei dividendi versati dalla filiale alla società madre, momento in cui si verificherà una doppia imposizione economica internazionale che sarà compito dello stesso Stato di residenza rimuovere. L’unica eccezione è data dall’eventuale presenza nell’ordinamento dello Stato di residenza di una normativa sulle controlled foreign companies, che consentirà di qualificare la filiale come una base company. In ogni caso, la normativa CFC non sarebbe nemmeno necessaria qualora i dividendi distribuiti dalla base company fossero esenti nello Stato di residenza della società madre, qualora cioè il metodo dell’esenzione venisse generalmente adottato come strumento di correzione della doppia imposizione internazionale dei dividendi.
5. Le diverse sfumature presenti nell’ambito comunitario
Come si è detto in precedenza, nell’area del diritto comunitario non è possibile immaginare una neutralità all’esportazione dei capitali “chimicamente pura” in assenza di armonizzazione delle aliquote e della base imponibile, perlomeno fino alla comunicazione della Commissione del 23 ottobre 2001 “Verso un mercato interno senza ostacoli fiscali. Strategia per una base imponibile consolidata comune dell’imposta sulle società per le attività svolte nel contesto europeo”, i cui contenuti sono stati ribaditi in una successiva comunicazione del novembre 2003 [27].
L’operatività congiunta de l principi o di tassazione del reddito mondiale nello Stato di residenza e del principio di separazione delle imprese è rafforzata dal fatto che l’istituzione di filiali in un diverso Stato membro integra il contenuto della libertà di stabilimento di cui agli art. 43 e 48 TCE, come ha affermato la Corte di Giustizia nella sentenza Daily Mail [28]. E per la sentenza Centros [29] tale libertà comprende anche il diritto di costituire e gestire società alle stesse condizioni previste dalla legislazione dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini. Tuttavia, se è vero che il diritto comunitario non copre le situazioni abusive ed elusive, non si può desumere un abuso della libertà di stabilimento per il solo fatto che la maggior parte o la totalità dell’attività economica di un’impresa sia svolta dalla filiale e non dalla società madre. Quanto allo sfruttamento dei vantaggi derivanti dalla coesistenza di diversi ordinamenti, la sentenza X e Y [30] ha riconosciuto l’esistenza di “un autentico diritto del contribuente alla pianificazione fiscale che tenga conto delle differenze normative (e di carico impositivo effettivo) tra le legislazioni degli Stati membri e sfrutti le opportunità offerte dalla rete di convenzioni contro la doppia imposizione”.
Parallelamente al processo di armonizzazione sollecitato dalla Commissione, la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è interrogata sui profili della tassazione delle società nella dimensione comunitaria. Nel caso Marks & Spencer [31] si discuteva della compatibilità con la libertà di stabilimento del regime inglese di tassazione dei gruppi nella parte in cui escludeva la compensazione delle sole perdite riportate dalle controllate non residenti. Avendo ben presenti le forti ripercussioni di un’eventuale pronuncia di incompatibilità, la sentenza ritenne che la restrizione della libertà di stabilimento causata dal regime inglese dei gruppi fosse giustificata da “ragioni imperative di interesse generale”, quali il rispetto del riparto di potestà impositiva tra Stati membri e il rischio di evasione fiscale nonché di doppia utilizzazione delle perdite. Ciò nondimeno, la misura nazionale oggetto della causa fu considerata sproporzionata e, pertanto, contraria al diritto comunitario nel caso in cui le perdite non fossero deducibili in nessuno dei due Stati, fosse per la scadenza dei termini per la compensazione senza che si fosse realizzato un reddito positivo nello Stato di residenza della filiale, per lo scioglimento di tale società, o per qualsiasi altra ragione. Tale sentenza peraltro ha sollevato numerosi dubbi applicativi, ad esempio in tema di prova dell’esaurimento delle possibilità di compensazione, di individuazione del la normativa applicabile per il calcolo della base negativa, o di sfasamento temporale tra la realizzazione della perdita e la constatazione dell’impossibilità di compensazione nello Stato di residenza della filiale.
Con sfumature differenti, la stessa linea giurisprudenziale è stata ribadita nel caso Lidl Belgium GmBH & Co. KG [32] relativo alla possibilità di compensazione nello Stato di residenza delle perdite non più di controllate estere, quanto di stabili organizzazioni. Questa sentenza ha dichiarato compatibile con la libertà di stabilimento di cui all’art. 43 TCE la normativa tedesca che , nel quadro della convenzione contro la doppia imposizione stipulata tra Germania e Lussemburgo, impediva la deduzione in Germania delle perdite prodotte da una stabile organizzazione situata in Lussemburgo. Pur trattandosi di una misura restrittiva della libertà di stabilimento, essa è stata ritenuta compatibile con il diritto comunitario per due ragioni: l’equilibrio della ripartizione del potere impositivo tra Stati membri - se uno Stato non preleva imposte sul reddito non vi è motivo per cui debba ammettere le perdite in deduzione – e la necessità di evitare una duplice utilizzazione delle perdite, sia nello Stato della residenza sia nello Stato della fonte. La misura restrittiva è stata poi considerata proporzionata all’obiettivo perseguito, in quanto, nel caso concreto, non impediva in via definitiva la deduzione delle perdite.
In entrambe le decisioni citate, comunque, la Corte di Giustizia riconosce implicitamente l’insufficienza di una soluzione giurisprudenziale a tali questioni di imposizione societaria, rimandando più o meno espressamente all’adozione di misure positive di armonizzazione in materia di compensazione transfrontaliera di basi negative e perdite, che superino i limiti dell’approccio casistico della giurisprudenza.
6. L’assenza di neutralità nelle forme di finanziamento dell’impresa
Poiché non esiste una forma di consolidamento su base mondiale e, per effetto del principio di indipendenza, si riconosce una soggettività passiva non al gruppo ma alle singole società che lo compongono, le operazioni infragruppo - e, tra esse, quelle di finanziamento - sono fiscalmente rilevanti (il che giustifica l’applicazione del principio dell’ arm’s length) .
Nei gruppi internazionali in cui la società madre e le controllate risiedono in Stati diversi, può sorgere una situazione di indebitamento della madre verso una controllata e viceversa. Nell’ipotesi in cui sia la controllata a finanziare la società madre non residente, con grande probabilità tale controllata sarà una base company situata in un Paese a fiscalità privilegiata , se non addirittura in un paradiso fiscale. L’abbattimento della base imponibile attraverso l’indebitamento nei confronti delle filiali è una strategia di c.d. stepping stone , rispetto a cui gli ordinamenti approntano le citate normative CFC.
Nel diverso caso in cui sia la filiale ad essere finanziata dalla società madre, quest’ultima investirà capitali in forma di prestito parallelamente ai capitali già investiti nella filiale sotto forma di capitale di rischio. La società madre, che detiene partecipazioni nella controllata in qualità di azionista, assume anche il ruolo di finanziatore. In altri termini, si prospettano per la filiale due modalità alternative di finanziamento: da un lato, l’ aumento di capitale che accresca la partecipazione della società madre, dall’altro lato, la concessione da parte della stessa società madre di un finanziamento. Nel primo caso, la filiale corrisponderà dividendi, nel secondo interessi.
Ancora, nel primo caso, il reddito prodotto dalla filiale è tassato nello Stato di residenza della società madre solo sotto forma dei dividendi effettivamente distribuiti dalla filiale, il che comporta un’attenuazione del principio di tassazione del reddito mondiale. Soltanto quella parte del reddito della filiale che viene distribuita in forma di dividendo viene tassata nello Stato di residenza della società madre. La distribuzione di dividendi è allora semplicemente un’assegnazione di reddito imponibile che fa eccezione rispetto alla regola di tassazione del reddito mondiale applicata in assenza di un consolidamento fiscale su scala mondiale: la porzione di reddito della filiale che non viene distribuita come dividendo alla società madre non sarà soggetta ad imposizione nello Stato di residenza della società madre, nonostante tale Stato adotti il principio di tassazione del reddito mondiale.
Nel secondo caso, invece, il pagamento degli interessi presuppone il calcolo di un carico finanziario deducibile nella determinazione del reddito netto: la generalità degli ordinamenti, ed anche quello spagnolo, qualificano come fiscalmente deducibili i costi finanziari, tra cui gli interessi maturati su i finanziamenti ottenuti da una società per lo sviluppo della propria attività. Persino la Corte di Giustizia ha ammesso la possibilità per lo Stato della fonte di introdurre limitazioni alla deducibilità degli interessi richiedendo che i costi siano direttamente connessi alle attività che hanno generato il reddito tassabile [33]. Si tratta di un costo sostenuto dalla filiale e di un corrispondente reddito della società madre, cioè di componenti del reddito fiscale sia nello Stato della filiale sia in quello della società madre , nel primo caso una componente negativa, nel secondo caso positiva. Il reddito d’impresa, al netto dei costi fiscali, sarà tassato nello Stato in cui viene effettivamente svolta l’attività economica , quindi nello Stato della filiale . Dall’altro lato, il reddito derivante dal credito per il finanziamento dell’attività viene tassato nello Stato di residenza del soggetto finanziatore.
Questo scenario è completato dal riparto di potestà impositiva sui redditi costituiti da dividendi e interessi , come convenuto all’interno delle convenzioni contro la doppia imposizione ispirate al modello OCSE. Più che in ragioni di giustizia fiscale, la giustificazione del riparto di imposizione va rintracciata in una concessione alla sovranità fiscale dello Stato della fonte finalizzata a consentirgli di tassare, seppur limitatamente , il reddito prodotto da investitori residenti in Stati economicamente sviluppati. E’ vero tuttavia che l’imposizione effettuata dallo Stato della fonte sui pagamenti di interessi consente allo Stato di residenza della società che paga detti interessi di recuperare parte dell’imposta che astrattamente ha perduto ammettendo la deducibilità degli interessi stessi.
Ciò nondimeno, tale riparto di imposizione si vede attenuato dalla tassazione limitata di interessi e dividendi alla fonte, nonché dall’effettiva eliminazione dell’imposizione alla fonte per effetto del diritto comunitario. Infatti, nell’ambito della Comunità, l’art. 5.1 della Direttiva 90/435/CEE come modificato dalla Direttiva 2003/123/CE [34] dispone che “ gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre sono esenti dalla ritenuta alla fonte”. Diversamente, nel caso di imprese associate residenti in Stati membri diversi, la Direttiva 2003/49/CE sul regime fiscale di interessi e royalties [35] sopprime ogni forma di tassazione (in genere, ritenute alla fonte) sui pagamenti di interessi e royalties, disponendo che essi saranno esenti da imposte nello Stato di origine, sempre che il beneficiario effettivo sia una società di uno Stato membro situata in un altro Stato membro o una stabile organizzazione situata in uno Stato membro diverso da quello della società da cui dipende.
L a scelta tra aumento di capitale e ricorso all’indebitamento ha implicazioni economiche di grande rilievo, in quanto la filiale deve decidere se aumentare le risorse proprie o quelle “esterne”, in assenza di previsioni normative, commerciali o fiscali che indichino la proporzione da rispettare tra capitale di rischio e capitale di debito nel finanziamento all’impresa. Per questo, il fattore fiscale è estremamente rilevante, almeno quanto l’esistenza di una neutralità fiscale.
Dalla prospettiva della società madre, la scelta è tra finanziare la propria filiale con un prestito o farlo con un aumento di capitale. In entrambi i casi, il reddito derivante dall’investimento sarà assoggettato a tassazione da parte dello Stato di residenza; la doppia imposizione giuridica causata dal prelievo di un’imposta nello Stato della fonte verrà attenuata o mitigata attraverso le limitazioni a tale tassazione previste dalle convenzioni internazionali o, nei rapporti intracomunitari, dall’eliminazione stessa della tassazione alla fonte. L’ulteriore aggravio derivante dalla doppia imposizione economica dei dividendi sarà a sua volta attenuato dall’adozione del metodo dell’esenzione nel Paese di residenza della società madre .
Tutti questi fattori rafforzano la tendenza a localizzare la tassazione del reddito d’impresa nello Stato di residenza della filiale. Il carico fiscale alla fonte, poi, si limita o si elimina grazie all’operare congiunto delle convenzioni contro la doppia imposizione, delle direttive comunitarie e dell’estensione del sistema dell’esenzione come metodo di eliminazione della doppia imposizione. In pratica, il carico fiscale gravante sul reddito d’impresa viene limitato a quello applicato dallo Stato di residenza della filiale successivamente alla deduzione dei costi fiscali.
Come osserva Delgado Pacheco, in questa maniera “il sistema è neutrale rispetto alla decisione di distribuire o meno i dividendi, ma non lo è rispetto alla decisione relativa alla forma di finanziamento all’impresa, in quanto la localizzazione del reddito tassabile dipenderà dai costi fiscali che si possono detrarre o dedurre dal reddito generato dall’attività” [36].
Quando un finanziamento venga concesso dalla società controllante, il pagamento degli interessi su tale finanziamento può essere visto come un’occulta distribuzione di utili. Qualora i costi finanziari sia no sempre deducibili, ad un gruppo multinazionale che pianifichi a livello internazionale il proprio carico fiscale globale tenendo presente il principio di indipendenza e quello di separazione delle imprese converrà articolare un sistema di finanziamenti infragruppo concessi da società madri situate in Paesi a fiscalità privilegiata a filiali situate in Paesi con livelli alti di imposizione. Ne consegue che i costi finanziari andranno ad abbattere la base imponibile nelle giurisdizioni in cui il reddito d’impresa è soggetto ad imposizione elevata. Allo stesso tempo, il corrispondente reddito finanziario verrà tassato in giurisdizioni fiscali più favorevoli sotto il profilo di una minore tassazione del reddito d’impresa o di un trattamento più favorevole degli interessi. In questa ultima ipotesi, è possibile che si tratti di un vero e proprio regime preferenziale in cui la società finanziatrice agisce come una base company, costituita come centro finanziario allo scopo di concedere finanziamenti alle varie filiali situate all’interno di giurisdizioni in cui il reddito d’impresa subisce una tassazione elevata.
Più precisamente, l’esistenza di tali aspettative di pianificazione fiscale esclude la possibilità di parlare di neutralità delle forme di finanziamento a favore di società localizzate in Paesi a media o alta tassazione del reddito d’impresa. Il fattore fiscale disincentiva dunque il ricorso a risorse proprie da parte delle società localizzate in giurisdizioni con un alto livello di imposizione per il reddito d’impresa, favorendo invece il ricorso all’indebitamento e l’incremento di risorse provenienti dall’estero.
In questo modo, tutte le conquiste raggiunte in tema di neutralità nel corso della storia recente dell’imposizione internazionale (si pensi, ad esempio, alla tassazione del reddito mondiale nello Stato di residenza della società madre, o alla politica di distribuzione o accantonamento degli utili), vanno perdute al momento di scegliere la forma di finanziamento di una società da parte della sua controllante. Soprattutto perché la decisione di accrescere il livello di indebitamento può essere indotta dalla volontà di abbattere l’imponibile nello Stato di residenza delle filiale, a favore dello Stato di residenza del centro finanziario, provocando un’autentica fiscal degradation.
Alla luce di quanto precede, si possono trarre alcune conclusioni.
La tassazione delle società nel loro Stato di residenza in applicazione del principio di tassazione del reddito mondiale richiede un contesto economico neutrale, il quale viene rafforzato per effetto delle libertà economiche alla base del diritto comunitario.
Nel caso di gruppi multinazionali, in assenza di un consolidamento fiscale a livello mondiale, appare chiaro che ogni società pagherà le imposte al proprio Stato di residenza, ivi compresa la società madre (che sia centro di coordinamento, holding o centro finanziario). Dal momento che lo Stato di residenza della filiale si configura come Stato della fonte rispetto a i flussi di redditi dalla filiale alla società madre, l’imposizione alla fonte sui pagamenti di dividendi e interessi viene eliminata, riducendosi così il prelievo fiscale sul reddito d’impresa a quello applicato dallo Stato di residenza della filiale, per quanto con la deduzione dei costi fiscali. La neutralità opera rispetto alla decisione relativa alla politica di distribuzione di dividendi. Tuttavia, al momento della scelta tra ricorso al finanziamento con risorse proprie o esterne, tale neutralità è influenzata dalla possibilità di dedurre i costi finanziari. In altre parole, la scelta della forma di finanziamento è un’importante occasione di pianificazione fiscale per i gruppi multinazionali.
Per evitare tali situazioni, gli Stati di residenza delle filiali dipendenti da un centro finanziario o società madre finanziatrice di solito salvaguardano l’integrità della base imponibile di loro pertinenza introducendo la normativa antielusiva della thin capitalisation.
7. La thin capitalisation come meccanismo di contrasto al ricorso abusivo a forme di finanziamento con capitale di debito
L’idea stessa di thin capitalisation rim anda ad una situazione in cui la misura del capitale è inferiore a quella del debito, in cui – cioè – la filiale non viene finanziata dalla propria società madre con capitale di rischio ma con capitale di debito, in modo tale che le somme finanziate si pongono al di fuori del patrimonio aggredibile dai creditori sociali [37].
In linea teorica, il presupposto di fatto della thin capitalisation non dovrebbe suscitare particolari problemi dal punto di vista fiscale, in quanto il sistema tributario dovrebbe porsi come neutrale e non interferire con la scelta della forma dei finanziamenti infragruppo. Tale atteggiamento neutrale presenta però due eccezioni.
La prima è un corollario del principio di separazione delle imprese , per cui le operazioni effettuate tra società di uno stesso gruppo sono fiscalmente rilevanti e devono essere valutate secondo il principio dell’arm’s length. Si tratta di operazioni tra soggetti non indipendenti, alle quali bisogna però applicare lo stesso metro di valutazione utilizzato per le operazioni concluse tra soggetti indipendenti a condizioni di mercato.
Quanto alla seconda eccezione, la relazione di dipendenza della filiale dalla società finanziatrice sarà rilevante nella misura in cui l’operazione di finanziamento nasconda in realtà un apporto di capitale di rischio e il pagamento degli interessi sia una distribuzione occulta di dividendi [38], denotando così profili di abusività.
Se il pagamento degli interessi si inquadra all’interno di una condotta abusiva, sarà contrastato con l’applicazione della normativa antielusiva e, in ultima istanza, del principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
La verifica dei profili di abusività della condotta del contribuente richiederà l’analisi dell’indebitamento che giustifica il pagamento di interessi. Sarà necessario altresì determinare nel caso concreto se l’attività ha una valida giustificazione economica. Così in Spagna, il Tribunale Economico Amministrativo Centrale, in una sua decisione dell’8 ottobre 2009, ha affermato che, se è legittimo per una società contrarre un debito in vista dell’acquisto di un bene, non è legittimo che si inverta il rapporto di causa ed effetto. Nella normalità dei casi, infatti, una società si indebita per acquisire un bene. E’ inammissibile però che l’indebitamento sia attuato solo per generare il pagamento di interessi ad un soggetto appartenente allo stesso gruppo, in modo che il solo scopo sotteso all’acquisto di un bene sia proprio giustificare l’indebitamento. L’artificiosità dell’indebitamento è un fenomeno che presenta molte manifestazioni concrete.
Da un secondo punto di vista, si consideri che la thin capitalisation viene in rilievo nel momento in cui la concessione del finanziamento, normalmente dalla società madre alla filiale, avviene a condizioni diverse da quelle di mercato, o comunque a quelle che sarebbero praticate in una situazione di indipendenza. Proprio questa lesione al principio di indipendenza rende necessario valutare le situazioni di sottocapitalizzazione alla luce del parametro dell’arm’s length, in quanto principio che presiede non solo alla tassazione internazionale del reddito delle imprese associate ma anche al problema della sottocapitalizzazione. Di fatto, le operazioni tra socio e società sono frequentemente trattate come una distribuzione occulta di dividendi.
La disciplina della thin capitalisation nell’ordinamento spagnolo è contenuta nel vigente art. 20 del testo consolidato della Legge dell’Imposta sulle Società (in seguito ”LIS”), che, in sintesi, impedisce la deduzione come costi degli interessi dovuti in conseguenza di un indebitamento reputato dal legislatore eccessivo e suscettibile pertanto di ricevere lo stesso trattamento riservato alle risorse proprie, la cui remunerazione - in forma di dividendi - non è deducibile. In questo modo, l’art. 20 comma 1 LIS dispone che qualora l’ indebitamento netto, diretto o indiretto, produttivo di interessi , di una società (esclusi i centri finanziari) nei confronti di una società collegata non residente, ecceda il rapporto di 3:1 rispetto al capitale, gli interessi maturati sul debito eccedente tale rapporto saranno riqualificati come dividendi.
Trattandosi della norma principale presente nell’ordinamento spagnolo con riferimento al tema della sottocapitalizzazione, essa solleva una serie di importanti questioni che saranno qui di seguito approfondite: il problema del rapporto fisso di indebitamento, la c.d. qualificazione asimmetrica, e, in ultima istanza, le limitazioni derivanti dalle convenzioni contro la doppia imposizione e dal diritto comunitario.
7 .1. Il sistema del rapporto fisso di indebitamento
Presupposto per l’applicazione della disciplina spagnola della thin capitalisation non è tanto l’accertamento di un conferimento simulato di capitale , di una distribuzione occulta di dividendi o di un’operazione di finanziamento a condizioni non di mercato, quanto il verificarsi di una sproporzione dell’indebitamento netto rispetto ad un rapporto fisso. L’assunzione di un parametro fisso per individuare una situazione di sottocapitalizzazione, se da un lato fornisce un criterio sicuro, dall’altro lato, tuttavia, solleva alcuni problemi. Ad esempio, non si riescono ad impedire meccanismi elusivi all’interno di gruppi di società , in cui si dia vita a catene di indebitamento, dove il citato rapporto 3:1 è formalmente rispettato ad ogni singolo passaggio, ma largamente superato a livello complessivo. O, più semplicemente, una società finanziatrice non residente potrebbe anticipare alla società residente i fondi che saranno distribuiti da quest’ultima alle altre società del gruppo residenti.
Una soluzione a questi problemi è data dal fatto che tale rapporto fisso tiene conto dell’indebitamento sia diretto sia indiretto. Resta comunque il dubbio se debbano ricomprendersi nel concetto di indebitamento indiretto anche i cosiddetti prestiti back-to-back, operazioni ai limiti della simulazione negoziale, in cui un’entità indipendente (normalmente un istituto di credito), riceve dalla società mutuante del gruppo dei fondi con l’incarico di erogarli alle società del gruppo destinatarie finali del finanziamento. Si dubita altresì che possa parlarsi di indebitamento in diretto a proposito di finanziamenti semplicemente garantiti dal gruppo o di linee di credito in favore congiuntamente di più società del gruppo [39]. L’applicazione a tale fattispecie risulta difficile, poiché l’ente che eroga il finanziamento e riceve gli interessi sarà un soggetto terzo indipendente, magari residente nel lo stesso Paese della società finanziata .
Inoltre, per quanto si ammetta l’applicabilità di una clausola in materia di thin capitalisation basata su un rapporto fisso di indebitamento ai casi in cui una società residente viene finanziata dalla sua controllante non residente e a sua volta finanzia le altre società residenti nel suo stesso Paese, non è chiaro in questo caso come si calcoli l’indebitamento ai fini della determinazione del rapporto. In Spagna, tale calcolo prende in considerazione l’indebitamento complessivo di tutte le società destinatarie finali dei finanziamenti e non soltanto della prima società spagnola finanziata dalla non residente. Nonostante la Direzione Generale delle Imposte ritenga che la norma sulla thin capitalisation si applichi alla relazione di finanziamento tra la società mutuante non residente e la prima società spagnola della catena di finanziamenti tenuta a pagare gli interessi riqualificabili come dividendi, tuttavia i requisiti richiesti dalla norma devono sussistere nella società destinataria finale del finanziamento.
In ogni caso, il problema senza dubbio più grande legato alla previsione di un rapporto fisso di indebitamento è la sua compatibilità con il citato principio di indipendenza. E ciò perché subordinare l’operatività di una norma sulla sottocapitalizzazione all’applicazione automatica di un coefficiente di indebitamento esclude la possibilità di provare che i finanziamento sia no stati erogati a normali condizioni di mercato. Pertanto, tale metodo risulta incoerente con una concezione della thin capitalisation come norma basata sul principio dell’arm’s length.
7.2. La qualificazione asimmetrica
In un sistema basato su un rapporto fisso di indebitamento, la norma sulla thin capitalisation opera quando tale livello di indebitamento viene superato nei confronti di una società collegata non residente. Una volta superata la soglia prevista, il pagamento di interessi viene qualificato come distribuzione di dividendi in virtù di una finzione giuridica. La conseguenza più importante, anche se non l’unica, di questa qualificazione ex lege è che tale interesse diviene un costo non deducibile per la società che lo eroga.
Così, la qualificazione del reddito come dividendo dispiega un effetto pieno in tutte le direzioni, purché, ovviamente, tra la società finanziatrice e la società finanziata esista un rapporto madre-figlia, vale a dire la società che percepisce gli interessi ”eccessivi” sia la controllante della società che li paga.
In questo caso, la riqualificazione degli interessi come dividendi dipenderà soltanto dalla disponibilità dello Stato di residenza della società madre percettricead operare tale riqualificazione. Ove ciò non accadesse, si verifich erebbe un’asimmetria di qualificazione: lo stesso reddito sarebbe classificato come dividendo nello Stato della società erogante e come interesse nello Stato della società percipiente.
Una tale asimmetria può frustrare lo scopo delle norme sulla thin capitalisation. In questo modo, infatti, se lo Stato della società finanziatrice non procede ad una riqualificazione simmetrica degli interessi percepiti dal soggetto proprio residente, avrà luogo una doppia imposizione, poiché lo Stato di residenza sarà obbligato ad eliminare le forme di doppia imposizione giuridica ma non economica, che non si produce mai rispetto ad un reddito classificato come “interessi” [40].
Tuttavia, la finzione per cui gli interessi pagati in eccesso vengono riqualificati come dividendi ha una portata limitata perché mancano gli strumenti giuridici per obbligare lo Stato di residenza della società madre a trattare come dividendi i redditi in questione. Un obbligo del genere può configurarsi nella sola ipotesi in cui esista , tra il Paese della società che paga gli interessi e quello della società che li percepisce, una convenzione contro la doppia imposizione ispirata al modello OCSE. Questo, infatti, stabilisce all’art. 11.6 una regola per cui “quando, in ragione dello speciale rapporto tra il debitore ed il beneficiario effettivo o tra questi e soggetti terzi, l’ammontare degli interessi - avuto conto del credito a cui si riferiscono – ecceda l’importo che sarebbe stato pattuito tra debitore e beneficiario effettivo in assenza di tale relazione, le previsioni contenute nel presente articolo si applicheranno soltanto all’ultimo importo menzionato”. Pertanto, per l’aspetto che qui interessa, ”i pagamenti in eccesso saranno tassati secondo la legislazione di ogni Stato contraente, fatta salva l’applicazione delle restanti previsioni della Convenzione”.
Pertanto, il modello OCSE consente allo Stato di residenza della società finanziatrice di prevedere la qualificazione normativa di tali redditi come dividendi e non come interessi, introducendo una finzione giuridica che dovrà essere portata fino alle sue estreme conseguenze.
Però, per rendere possibile l’applicazione di un simile precetto contenuto in una convenzione contro la doppia imposizione, bisognerebbe riconoscere la derivazione della disciplina in materia di thin capitalisation dal principio dell’ arm’s length e accertare l’astratta compatibilità della normativa domestica sulla sottocapitalizzazione con le previsioni della stessa convenzione basata sul modello OCSE. Su questo punto di concentrerà l’analisi che segue.
7.3. Contrasto tra la normativa in tema di thin capitalisation e il Modello OCSE di convenzione contro la doppia imposizione
Il primo problema che si incontra in tale analisi è molto evidente: nel modello OCSE non si rinviene alcun riferimento espresso alla thin capitalisation. Occorre quindi domandarsi se, nel silenzio del modello, il perseguimento di un obiettivo antielusivo consenta di procedere ad una qualificazione degli interessi come dividendi nel quadro di una convenzione ispirata a tale modello. Un primo ostacolo è quello posto dal paragrafo 25 del Commentario all’art. 10 del Modello,ove si afferma che un pagamento di interessi può essere qualificato come distribuzione di dividendi nel solo caso in cui il soggetto finanziatore “effettivamente operi una ripartizione dei rischi della società”, presupposto che non necessariamente ricorre in tutte le ipotesi di sottocapitalizzazione.
Pertanto, in mancanza di un richiamo alla thin capitalisation nel Modello, l’applicazione di tale disciplina deve fare riferimento alla legislazione domestica degli Stati firmatari della convenzione. Proprio da ciò trae origine il dibattito sulla compatibilità delle clausole antiabuso nazionali rispetto alle convenzioni contro la doppia imposizione.
Curiosamente, l’OCSE ha dichiarato tale compatibilità: lo ha fatto nel commento all’art. 24 del Modello, affermando che, a prescindere dalla formulazione del paragrafo 5 dell’art. 24, una norma come quella sulla thin capitalisation non lede il principio di non discriminazione. In conformità a questo principio, una società residente in uno Stato, controllata da una società residente in un altro Stato, non può ricevere un trattamento fiscale più gravoso rispetto a tutte le altre società residenti nello stesso Stato . Si può capire come la norma sulla sottocapitalizzazione contrasti con tale principio, applicandosi soltanto alle società residenti controllate da non residenti.
Tuttavia, il paragrafo 58 del Commentario allo stesso art. 24 indica che questa norma deve essere coordinata con il precedente paragrafo 4 nonché con gli articoli 9.1 e 11.6 del Modello OCSE. La disciplina sulla thin capitalisation andrebbe letta nell’ambito delle norme relative alle operazioni infragruppo. In questo contesto, il paragrafo 3 del Commentario all’art. 9 dichiara la compatibilità tra una convenzione contro la doppia imposizione e la normativa sulla thin capitalisation a condizione che sia rispettato il principio dell’ arm’s length. In altri termini, la disciplina sulla thin capitalisation è compatibile con il Modello OCSE se viene intesa come una manifestazione del principio dell’ arm’s length.
Pertanto, l’adeguamento della disciplina della thin capitalisation alle convenzioni internazionali esige l’inquadramento del fenomeno della sottocapitalizzazione tra le regole sul transfer pricing. E’ necessario prendere come riferimento l’art. 9 del Modello OCSE e dimostrare che l’eccessivo indebitamento è frutto di un’operazione che non sarebbe stata conclusa tra imprese indipendenti, così da giustificare il rifiuto da parte dell’amministrazione finanziaria della deducibilità dei costi connessi all’indebitamento in eccesso per contrarietà al principio dell’ arm’s length [41]. Tuttavia, nella misura in cui l’amministrazione assume una violazione del principio di libera concorrenza, alla società finanziata a cui si intende negare la deducibilità degli interessi pagati dovrà essere riconosciuta la facoltà di dimostrare la conformità al principio dell’arm’s length del suo livello di indebitamento. La normativa attualmente vigente in Spagna (art. 20 comma 3 LIS) consente alla società debitrice di fare istanza all’amministrazione per l’applicazione di un rapporto di indebitamento diverso da quello previsto dalla legge; non consente però alla società debitrice di giustificare il rapporto da essa applicato in base alle normali condizioni di mercato [42].
Il Modello OCSE non condanna espressamente la previsione di un rapporto fisso di indebitamento , ma lo fa implicitamente nella misura in cui tale metodo non garantisce il rispetto del principio di indipendenza, che si oppone all’applicazione di un rapporto “legale”[43]. Il rapporto OCSE sulla thin capitalisation del 26 novembre 1986, integrato nel Commentario, ha stabilito che gli Stati possono subordinare la deducibilità degli interessi al rispetto di un rapporto fisso di indebitamento senza violare l’art. 9 del Modello, purché sia ammessa la prova di un rapporto differente, in applicazione del principio dell’ arm’s length [44].
Insomma, per essere compatibile con il Modello OCSE una disciplina sulla sottocapitalizzazione deve essere flessibile, e non invece fondarsi su rapporti o coefficienti predeterminati. Non sarà contraria alle convenzioni contro la doppia imposizione una normativa che consenta alle imprese interessate di dimostrare che avrebbero potuto ottenere il finanziamento da un soggetto indipendente alle stesse condizioni di libera concorrenza.
7.4. Contrasto tra la normativa in tema di thin capitalisation e il diritto comunitario. Il ruolo della libertà di stabilimento e il caso Lankhorst.
In realtà la questione più importante che si è dovuta affrontare negli ultimi tempi è quella della possibile incompatibilità della normativa sulla thin capitalisation con il diritto comunitario.
Per il diritto comunitario, gli Stati membri hanno la facoltà di adottare norme interne di contrasto all’elusione, purché esse non impediscano l’esercizio delle libertà fondamentali dell’ordinamento comunitario. Si pensi al caso Centros [45], in cui la Corte di Giustizia ha ricordato che le misure antielusive previste dal diritto nazionale devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale ed essere adeguate all’obiettivo perseguito, senza andare al di là di quanto necessario per realizzare tale obiettivo. La proporzionalità, in modo particolare, è stata la pietra angolare per la valutazione di ammissibilità operata dalla giurisprudenza che si è occupata di misure nazionali di contrasto all’elusione fiscale (sentenze Vestergaard [46] e Baxter [47]). Negli ultimi tempi (si veda la sentenza Verkooijen [48]) è stata esclusa la causa di giustificazione della coerenza interna del sistema, in virtù della quale la limitazione dei vantaggi fiscali nei confronti dei non residenti si giustifica va in un’ottica di coerenza del sistema tributario in cui il vantaggio si collocava.
La Corte si è pronunciata espressamente sulla thin capitalisation nel caso Lankhorst-Hohorst [49], che aveva ad oggetto la disciplina tedesca in cui si prevedeva un rapporto fisso di indebitamento pari a 3:1 [50]. In particolare, tale disciplina (§ 8a KStG) prevedeva una riqualificazione come dividendi degli interessi derivanti da finanziamenti concessi da un soggetto “vincolato” non residente nello stesso Paese del destinatario del finanziamento, nel caso in cui venisse superata la proporzione di 3:1 rispetto al capitale proprio (dunque, applicando lo stesso coefficiente previsto in Spagna). In caso di superamento del rapporto, i pagamenti in eccesso venivano considerati come distribuzione occulta di utili, senza la possibilità di dimostrare che le stesse condizioni di finanziamento sarebbero state applicate da un terzo finanziatore indipendente [51].
Per la Corte, il rischio di elusione fiscale non può legittimare una finzione giuridica come quella di cui era causa, che si applicava soltanto in presenza di un soggetto finanziatore non residente. Una simile disciplina non poteva essere giustificata nemmeno invocando la coerenza del sistema fiscale, tale coerenza dovendo riferirsi allo stesso soggetto passivo e non a due soggetti distinti per quanto vincolati.
La Corte ha concluso dunque che la disciplina tedesca sulla thin capitalisation non perseguiva un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato né si giustificava con ragioni imperative di interesse generale. E’ ormai comunemente risaputo che tra queste ragioni imperative non rientra la riduzione del gettito [52]. I giudici di Lussemburgo hanno quindi ricordato che le clausole antielusive devono consentire un esame caso per caso, e pertanto non sarebbe conforme al principio di proporzionalità una clausola automaticamente applicabile a tutte le situazioni potenzialmente elusive. Ne consegue che sono ammissibili solo clausole antielusive la cui applicazione sia subordinata ad un’analisi, caso per caso, della singola fattispecie, e non invece fondate su presunzioni juris et de jure. Per la sua struttura, la disciplina tedesca non si applica solo ai contribuenti che realizzano costruzioni puramente artificiali allo scopo di eludere il tributo, ma “ad ogni situazione in cui la società madre, per qualsiasi motivo, risieda al di fuori della Repubblica Federale Tedesca”. Nel caso di specie, non si può nemmeno invocare la coerenza dei sistemi tributari come consacrata nel trattato tra Germania e Regno Unito, né soste nere che la disciplina tedesca sia conforme al principio dell’ arm’s length.
In definitiva, la thin capitalisation non è di per sé contraria alle libertà comunitarie, e, particolarmente, al diritto di stabilimento, nella misura in cui non realizza effetti discriminatori. Dopo questa decisione della Corte, molti Stati membri hanno modificato la loro normativa in materia di thin capitalisation per correggere eventuali profili discriminatori. Lo sottolinea anche il Rapporto della Commissione Europea “Structures of the Taxation Systems in the European Union: 1995/2004″ (Doc. TAXUD E4/2006/DOC 3201), in cui si fornisce un quadro della thin capitalisation in Europa. Il Rapporto evidenzia come, ad esempio, la Francia abbia introdotto nuove norme limitative della sottocapitalizzazione nel 1997, seguita da altri Paesi come la Polonia e il Portogallo. E descrive come molti Paesi, tra cui la Germania, l’Olanda, l’Italia e il Regno Unito, abbiano modificato la loro normativa interna in materia di thin capitalisationestendendola alle operazioni tra filiali e società madri residenti con l’obiettivo di evitare effetti discriminatori.
Da questa tendenza, tuttavia, si è discostata la Spagna che, con la Legge relativa a Misure Amministrative e Ordine Sociale n. 62/2003 del 30 dicembre 2003, in vigore dal 1° gennaio 2004, ha sancito l’inapplicabilità della normativa sulla sottocapitalizzazione nei casi in cui il soggetto finanziatore risieda in un altro Stato membro dell’Unione Europea, con la sola eccezione degli Stati qualificati per regolamento come paradisi fiscali (così stabilisce il nuovo paragrafo quarto all’art. 20 LIS, introdotto dalla Legge n. 6 2/2003) [53].
La Spagna dovrà affrontare in futuro molti problemi in ordine all’applicazione di una simile clausola.
Innanzitutto, si può ipotizzare l’erosione della base imponibile spagnola quando il differente livello di imposizione sul reddito d’impresa favorisca la localizzazione in altri Stati membri (come l’Irlanda) dei centri finanziari che erogheranno fondi a società spagnole sotto forma di finanziamenti. O semplicemente in caso di prestiti back to back concesso da una società residente in un altro Stato membro ma con risorse ricevute da una società del gruppo residente al di fuori dell’Unione Europea. In quest’ultimo caso, ci si può domandare se sia applicabile la disciplina della thin capitalisation facendo riferimento al concetto di indebitamento indiretto, che giocherebbe il ruolo della clausola antiabuso o regola di trasparenza c.d. look through, in quanto il soggetto finanziatore residente all’interno dell’Unione non sarebbe altro che un “finanziatore formale”, interposto tra la società mutuataria residente in Spagna e la vera società finanziatrice, residente fuori dall’ambito comunitario.
In secondo luogo, la deroga all’applicazione della disciplina sulla thin capitalisation non opera quando il soggetto non residente è localizzato in uno Stato qualificato come paradiso fiscale. Il che presupporrebbe la possibile esistenza di paradisi fiscali all’interno dell’Unione Europea. Ciò non sembra possibile in applicazione della definizione di “paradiso fiscale” come una giurisdizione non cooperante ai sensi della dottrina OCSE, tanto da escludere a priori la sussistenza di tale condizione per i Paesi che abbiano sottoscritto accordi per lo scambio di informazioni.
In un primo momento l’OCSE aveva indicato una lista di trentacinque territori classificati come non “cooperativi”, tra cui Andorra, Liechtenstein, Liberia, il Principato di Monaco e le Isole Marshall. Il concetto sostanziale di paradiso fiscale applicabile in Spagna, pertanto, fa riferimento a quei Paesi che non hanno stipulato con la Spagna una convenzione contro la doppia imposizione contenente una clausola sullo scambio di informazioni (come quella dell’art. 26 del Modello OCSE), o comunque un accordo di scambio di informazioni in materia tributaria. In proposito, conviene ricordare che tutti gli Stati membri, per il solo fatto di appartenere all’Unione Europea, sono vincolati dalla normativa comunitaria, che include la Direttiva sullo scambio di informazioni.
Tuttavia, da un punto di vista formale, vengono considerati paradisi fiscali gli Stati che figurano nella lista nera (black list) stabilita con Real Decreto n. 1080/1991, a cui si applica automaticamente la disciplina antielusiva, secondo un meccanismo che non è stato accettato dalla Corte di Giustizia (si veda, per esempio, la sentenza Leur Bloem [54]). Questo pericolo è stato in certa misura scongiurato con la riforma del Real Decreto citato attuata con Real Decreto n. 116/2003, che per la prima volta afferma con chiarezza che il criterio determinante perché uno Stato sia considerato un paradiso fiscale è il grado di collaborazione amministrativa che esso è disposto a prestare, e la sottoscrizione di un accordo di scambio di informazioni è di per sé sufficiente ad escludere tale Stato dalla lista dei paradisi fiscali.
Nell’elenco dei paradisi fiscali stilato in Spagna, figuravano tradizionalmente
due Stati che sono entrati nell’Unione Europea il 1° maggio 2004: Malta e Cipro. Quest’ultimo, in particolare, applicava condizioni decisamente favorevoli mantenendo un’aliquota molto bassa per il reddito d’impresa (10%, rispetto al 35% previsto a Malta) e un regime fiscale preferenziale con aliquota al 4,25% per le c.d. International Business Companies (IBC) in seguito all’approvazione dell’Ordinanza sulle IBC nel 1994.
Perché venga meno la qualifica di paradiso fiscale, è necessario che uno Stato adotti standard minimi di trasparenza e scambio di informazioni, senza che la previsione di un basso livello di imposizione comporti di per sé la classificazione come paradiso. In questo senso, si ricordi che Malta ha cessato di essere paradiso fiscale nel momento in cui ha sottoscritto con la Spagna, l’8 novembre 2005, una convenzione contro la doppia imposizione con una clausola sullo scambio di inform azioni. Cipro, invece, figura an cora nella black list spagnola, anche se è diventato membro dell’Unione Europea. Pertanto, se una società cipriota concede un finanziamento ad un’impresa associata residente in Spagna e questa raggiunge un livello di indebitamento superiore al rapporto fissato dalla legislazione spagnola, si applicherà in Spagna la disciplina della thin capitalisation nonostante la società finanziatrice sia residente all’interno dell’Unione.
Tuttavia, se Cipro è membro a pieno diritto dell’Unione, ad esso sono applicabili tutte le norme del diritto comunitario, ivi comprese le Direttive, come precisa l’Atto di Adesione al suo articolo 53. In concreto, dunque, si applica anche a Cipro la Direttiva 77/799/CE [55] relativa alla mutua assistenza tra autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette e di quelle sui premi assicurativi. E’ questa la normativa comunitaria di riferimento per la materia, applicandosi allo scambio di qualsiasi informazione necessaria per la corretta determinazione delle imposte sul reddito e sul patrimonio nonché sui premi assicurativi. Essa è stata interpretata estensivamente dalla sentenza Halliburton Service [56], che ha precisato che il suo ambito oggettivo è simile a quello dell’art. 26 del Modello OCSE. Si tratta di una norma pienamente applicabile a Cipro nei suoi rapporti di scambio di informazioni con gli altri Paesi dell’Unione. Per quanto l’ applicabilità della Direttiva menzionata nei rapporti tra Spagna e Cipro non equivalga alla sottoscrizione di una convenzione internazionale, tuttavia la classificazione di Cipro come paradiso fiscale ai sensi della normativa spagnola, disapplicando la Direttiva, si connota per un profilo discriminatorio nei confronti delle società residenti a Cipro, in contrasto con la libertà di stabilimento [57].
Mantenere Cipro nella black list dei paradisi fiscali porta ad un’applicazione discriminatoria della disciplina nazionale in materia di thin capitalisation in relazione ai rapporti tra società spagnole e loro associate cipriote. La discriminazione verso le società residenti a Cipro sta nel fatto che la Spagna non prevede lo stesso regime per le operazioni meramente interne [58]. Inoltre, applicare la black list disconoscendo l’esistenza della Direttiva costituisce un’aperta violazione del primato del diritto comunitario, affermato dalle sentenze Simmenthal [59] e Marleasing [60], dove è sancito il principio di interpretazione conforme del diritto interno al diritto comunitario.
Allo stesso tempo, escludere i paradisi fiscali (ovviamente nell’ipotesi che si tratti di uno Stato membro) dall’ambito di applicazione di certe norme comunitarie significa non applicare nemmeno la Direttiva madre figlia [61] o la Direttiva sul regime fiscale di interessi e royalties [62], in violazione al principio di efficacia del diritto comunitario.
In conclusione, il diritto comunitario contrasta con un’applicazione discriminatoria del la disciplina sulla thin capitalisation nei confronti delle società residenti negli altri Stati membri, compresi quelli che, essendo inseriti nella black list, possono essere classificati come paradisi fiscali.
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- L’autore è professore di Diritto Tributario presso l’Universtià di Santiago de Compostela (Spagna). Traduzione italiana a cura di Cristiana Bottazzi, dottoranda in Diritto Tributario Europeo presso l’Università di Bologna.↵
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- Direttiva 90/434/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alles cissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati Membri diversi.↵
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- In questo senso si sono pronunciate numerose sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee , come la sentenza del 14 febbraio 1985, As. 268/83, Rompelman; 21 settembre 1988 , As. 50/87, Commissione/Repubblica Francese; 6 luglio 1995, As. C-62/93, BP Soupergaz; 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e altri; 15 gennaio 1998 , As. C-37/95 , Ghent Coal Terminal; 21 marzo 2000 , cause riunite C-110/98 e C-147/98, Gabalfrisa e altri ; 8giugno 2000, As. C-98/98, Midland Bank plc ; 8 giugno 2000 , As. C-396/98, Grundstückgemeinschaft Schloßstraße GbR ; 8giugno 2000 , C-400/98, Brigitte Breitsohl ; 19 settembre 2000, cause riunite C-177/99 e C-181/99, Ampafrance SA ; 19settembre 2000 , As. C-454/98, Schmeink & Cofreth AG & Co. K e Manfred Strobel ; 22 febbraio 2001 , A s. C-408/98, Abbey National plc ; 27 settembre 2001 , As. C-16/00, Cibo Participations SA; 8 gennaio 2002 , As. C-409/99, Metropol Treuhand Wirtschaftstreuhandgmb e Michael Stadler; 3 marzo 2005, As. C-32/03, I/S Fini H e Skatteministeriet ; 26 aprile 2005 , As. C-376/02, Stichting «Goed Wonen» ; 26 maggio 2005 , As. C-465/03, Kretztechnik AG ; 26 maggio 2005 , A s. C-536/03, António Jorge Lda. ; 15 dicembre 2005 , As. C -63/04, Centralan Property Ltd., e 21 febbraio 2006, As. C-255/02, Halifax plc, Leeds Permanent Development Services Ltd., County Wide Property Investments Ltd.↵
- Corte di Giustizia del 15 gennaio 1998, C-37/95, Ghent Coal Terminal, par. 15 .↵
- Corte di Giustizia del 5 maggio 1982, C-15/81, Schul.↵
- Giustizia del 1 4 luglio 1988, C-123 e 330/87, Jeunehomme, par. 13 , nonché del 5 dicembre 1989, C-165/88, Oro, e del 13 dicembre 1989, C-342/87, Genius Holding.↵
- Corte di Giustizia del 12 luglio 1984, C-107/83, Klopp.↵
- Attuale art. 49 par. 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dal Trattato di Lisbona.↵
- Corte di Giustizia del 28 gennaio 1986, C-270/83, Avoir Fiscal.↵
- Corte di Giustizia del 9 marzo 1999, C-212/97, Centros.↵
- Corte di Giustizia del 27 settembre 1988, C-81/87, Daily Mail.↵
- Corte di Giustizia del 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes. In questa sentenza, la Corte ha affermato che la normativa CFC costituisce una restrizione ingiustificata della libertà di stabilimento qualora venga applicata ad attività economiche effettive. Una simile normativa è accettabile solo nel caso in cui sia finalizzata a prevenire le costruzioni di “puro artificio”. Il contribuente ha ora la possibilità di fornire la prova oggettiva dell’effettività del proprio stabilimento nello Stato membro e la sua intenzione di stabilire una filiale in un paese a fiscalità privilegiata non inficerà di per sé la validità del suo stabilimento.↵
- Corte di Giustizia del 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y.↵
- J.M., VALLEJO CHAMORRO-M., GUTIERREZ LOUSA., Los Convenios para evitar la doble imposición: análisis d e sus ventajas e inconveniente, op. cit., p. 16.↵
- A., DELGADO PACHECO, Las medidas antileusión en la fiscalidad internacional, Nuevas tendencias en Economía y Fiscalidad Internacional, ICE, septiembre-octubre 2005, n. 825, pp. 105 e 106.↵
- E., SANZ GADEA, El régimen especial de transparencia fiscal internacional, Working Papers, IEE, Banco Pastor-Fundación Barrié, A Coruña, 2000, p. 47.↵
- L’introduzione del sistema di tassazione home State sarebbe opzionale sia per gli Stati membri sia per le società e prevederebbe un periodo di prova di cinque anni. Il rapporto fiscale prodotto dalla Commissione nel 2004 (si veda IP/04/1091 e lo European Tax Survey/Taxation Paper n. 3) ha dimostrato che le società che svolgono attività transfrontaliere sono gravate da un’imposizione più elevata e da maggiori costi di conformità al regime IVA e che tali costi sono proporzionalmente più elevati per le PMI che per le imprese di grandi dimensioni.↵
- Corte di Giustizia del 28 gennaio 1986, C-270/83, Commissione c. Francia.↵
- Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo del 24/11/2003, COM (2003)726: “Un mercato interno senza ostacoli inerenti alla tassazione delle società – risultati, iniziative in corso e problemi ancora da risolvere”.↵
- Corte di Giustizia del 27 settembre 1988, C-81/87, Daily Mail.↵
- Giustizia del 9 marzo 1999 , C-212/97, Centros.↵
- Corte di Giustizia del 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y.↵
- Corte di Giustizia del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer.↵
- Corte di Giustizia del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium GmBH & Co. KG.↵
- Giustizia del 3 ottobre 2006, C-290/04, Scorpio.↵
- Direttiva 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, che modifica la direttiva 90/435/CEE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi.↵
- Direttiva 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi.↵
- A. DELGADO PACHECO, Las medidas antileusión en la fiscalidad internacional, op. cit., pp. 105 e 106.↵
- C., PALAO TABOADA, Límites a la aplicación de la norma española contra la subcapitalización: estado de la cuestión , IEE de Galicia, Paper Works, Banco Pastor, Fundación Barrié de la Maza, A Coruña, 2000, p. 63; F.J., MAGRANERMORENO, La coordinación del Impuesto sobre Sociedades en la Unión Europea , Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 2009, p. 118.↵
- F.J., MAGRANER MORENO, La coordinación del Impuesto sobre Sociedades en la Unión Europea, Instituto de Estudios Fiscales, Madrid, 2009, p. 119.↵
- Con riferimento ai finanziamenti garantiti da una società del gruppo non residente, la Direzione Generale delle Imposte (risoluzione 1210-01 del 20/06/2001) ha affermato che essi rientrano nel concetto di indebitamento indiretto. Tuttavia, l’Amministrazione spagnola ha accettato che l’applicazione del limite posto dalla norma sulla sottocapitalizzazione richieda la prova che, nella fattispecie concreta, la società garante non residente sia effettivamente responsabile del finanziamento.↵
- J.M., CALDERON CARRERO, Estudios de la normativa española sobre subcapitalización de sociedades a la luz del principio de no discriminación: análisis de su compatibilidad con los convenios de doble imposición y con el ordenamiento comunitario, in “Crónica Tributaria”, n. 76, 1995, pp. 13 e 18.↵
- A., DELGADO PACHECO, Las medidas antileusión en la fiscalidad internacional, op.cit., p. 107.↵
- FALCON Y TELLA, R., Transparencia fiscal internacional, subcapitalización y convenios de doble imposición, op. cit., pag. 6.↵
- C. PALAO TABOADA, Límites a la aplicación de la norma española contra la subcapitalización: estado de la cuestión, op. cit., pp. 70 e 71.↵
- J.M., CALDERON CARRERO., Estudio de la normativa española sobre supcapitalización de sociedades a la luz del principio de no discriminación: análisis de su compatibilidad con los convenios de doble imposición y con el ordenamiento comunitario, in “Crónica Tributaria”, n. 76, 1995, pp. 34 e 35; C., PALAO TABOADA, Límites a la aplicación de la norma española contra la subcapitalización: Estado de la cuestión, in “Revista de Técnica Tributaria”, n. 46, 1999, p. 54; C., GARCIA HERRERA, Precios de transferencia y otras operaciones vinculadas en el Impuesto sobre Sociedades, Madrid, IEF, 1991, pp. 238 y 239.↵
- Corte di Giustizia del 9 marzo 1999, C-212/97, Centros.↵
- Corte di Giustizia del 28 ottobre 1999, C-55/98, Vestergaard.↵
- Corte di Giustizia dell’8 luglio 1999, C-254/97, Baxter.↵
- Corte di Giustizia del 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijen.↵
- Corte di Giustizia del 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst.↵
- Nel caso presentato alla Corte, la società tedesca Lankhorst-Hohorst GmbH aveva ricevuto un finanziamento a condizioni particolarmente favorevoli dalla società olandese socio unico di altra società olandese, la quale a sua volta controllava interamente la società tedesca. Il giudice tributario di Münsteradito sollevò una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia chiedendo se la normativa tedesca doveva considerarsi discriminatoria nei confronti delle filiali di società non residenti rispetto alle filiali di società residenti e quindi in violazione della libertà di stabilimento.↵
- PALAO TABOADA, C., Noemas antie-elusión en el Derecho interno español y en el Derecho Comunitario, Asociación Argentina de Estudios Fiscales, 2002, pag. 8.↵
- Tra le tante, si veda Corte di Giustizia del l’8 marzo 2001, C-397/98, Metallgesellschaft.↵
- MAGRANER MORENO, F.J., La coordinación del Impuesto sobre Sociedades en la Unión Europea, op. cit., pag. 125.↵
- Corte di Giustizia del 17 luglio 1997, C-28/95, Leur Bloem.↵
- Direttiva 77/799/CEE come modificata dalla Direttiva 2004/106/CE.↵
- Corte di Giustizia del 12 aprile 1994, C-1/93, Halliburton Services.↵
- Si veda MARTIN JIMENEZ, A.-CALDERON CARRERO, J.M., Las normas antiparaíso fiscal españolas y su compatibilidad con el derecho comunitario: el caso específico de Malta y Chipre tras la adhesión a la Unión Europea. Instituto de Estudios Fiscales, documento n. 11, 2004, pag. 14.↵
- GARCÍA-OLÍAS JIMÉNEZ, C., Situación actual de la fiscalidad en el pago de dividendos, intereses y cánones tras la adhesión de los nuevos Estados miembros a la Unión Europea. Especial referencia a los casos de Malta y Chipre, in Actualidad Jurídica Uría y Menéndez, n. 10, 2005, pag g . 29 -31.↵
- Corte di Giustizia del 9 marzo 1978, C- 106/77, Simmenthal.↵
- Corte di Giustizia del 13 novembre 1990, C-106/89, Marleasing.↵
- Direttiva 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, che modifica la direttiva 90/435/CEE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi.↵
- Direttiva 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi.↵