Raccolta di capitale di rischio e di capitale di debito: la disciplina italiana

Fabio Marchetti, Federico Rasi [1]

1. Considerazioni introduttive.

Il problema della neutralità fiscale tra le forme di finanziamento dell’impresa (ovverosia fra il ricorso a capitale di rischio piuttosto che a quello di debito) è noto al legislatore italiano che, come si vedrà nei successivi paragrafi, più volte è intervenuto in materia, senza tuttavia mai trovare soluzioni pienamente soddisfacenti.

Secondo la dottrina economica [2], un sistema neutrale, equo ed efficiente è quello che considera gli interessi passivi (ovverosia il costo del debito) deducibili in capo alla società e tassati in capo al percettore con l’imposta personale e gli utili (ovverosia il costo del capitale di rischio) tassati in capo alla società, ma di fatto solo come una sorta di anticipo dell’imposta personale del socio dovuta sui dividendi (la cui distribuzione è indeducibile per la società). Un simile modello consente un trattamento fiscale complessivo su interessi e dividendi uniforme, limitando le possibili distorsioni nelle scelte finanziarie delle imprese solo al diverso trattamento degli utili trattenuti, tassati con la sola imposta societaria, fino al momento della loro realizzazione da parte del socio.

L’Italia [3] si discosta da questo benchmark [4].

Gli interessi, deducibili in capo alla società, sono tassati con aliquote cedolari del 20% [5]; gli utili , indeducibili in capo alla società, sono parzialmente tassati in capo al percettore o soggetti a regimi di tassazione sostituiva in modo da determinare un prelievo ”aggregato” (tassazione in capo alla società e tassazione in capo al socio) ora fra il 35,8% ed il 43%. Ciò rende il ricorso al capitale di debito preferibile per gli investitori così da aver costretto il legislatore italiano a prevedere strumenti di volta in volta differenti per contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese.

Si può sin d’ora rilevare che la leva maggiormente utilizzata dal legislatore per combattere tale fenomeno è stata quella di limitare e condizionare la deducibilità degli interessi passivi in capo alle imprese; pressoché nulli sono stati gli interventi in capo ai percettori. Per i percettori (specialmente se persone fisiche), la tassazione sia dei dividendi sia degli interessi segue di norma regole proprie che, in maniera alquanto indiretta, cercano di perseguire il fine della neutralità tra le fonti di finanziamento dell’impresa.

Nella presente trattazione, saranno oggetto di analisi prima le disposizioni con le quali il legislatore italiano ha cercato di contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese e successivamente le regole di tassazione di dividendi ed interessi in capo ai percettori. Si anticipa sin d’ora che la loro analisi restituisce l’impressione che quello italiano è un sistema non neutrale in cui residuano ampi spazi ai contribuenti per arbitraggi tra il ricorso al capitale di debito piuttosto che a quello di rischio. Come si vedrà, risulta più conveniente per gli imprenditori ricorrere all’indebitamento piuttosto che al conferimento di denaro.

2. La deducibilità degli interessi passivi nel reddito di impresa.

Come accennato, la direttrice di fondo su cui si è mosso il legislatore italiano nel cercare un equilibrio fra il trattamento del capitale di rischio ed il trattamento del capitale di debito è stata quella di limitare, in assoluto o in presenza di determinate condizioni, la deduzione degli interessi passivi. Trattasi di un intervento (o meglio, di diversi interventi tempo per tempo adottati) sul quantum delle deduzione, piuttosto che sull’an.

Sotto tale secondo profilo, invero, il problema teorico che si è posto (ed è stato positivamente risolto) è se la deducibilità degli interessi passivi nel reddito di impresa risponda ai principi generali che governano tale categoria reddituale. Anche per questo componente, dovrebbero, infatti, valere i criteri contenuti nell’art. 109 t.u.i.r., ovverosia il criterio di attribuzione temporale all’esercizio di competenza, la necessità della previa imputazione a conto economico e quello dell’inerenza allo svolgimento dell’attività di impresa [6].

Mentre l’applicazione dei primi due principi (competenza e previa imputazione) risulta pressoché pacifica, non altrettanto può dirsi per l’applicazione del principio di inerenza [7]. La Corte di Cassazione, chiamata in varie occasione ad occuparsi della questione [8], è giunta a conclusioni non univoche. Sostenuta in talune sentenze la non applicabilità di tale principio [9], in altre [10]ed in modo prevalente, ha invece ritenuto che l’art. 109 t.u.i.r. escluda gli interessi passivi solo dalla verifica di una loro specifica correlazione rispetto ai ricavi, ma non anche rispetto all’attività [11]. Sarebbe questa una scelta legislativa diretta a prevenire controversie circa la destinazione del capitale da cui derivano gli interessi passivi, ma che non si spinge a predeterminazioni del requisito dell’inerenza che resta da analizzare caso per caso.

Una volta risolto il problema dell’an della deducibilità degli interessi passivi nel reddito di impresa, come detto, il legislatore ha rivolto l’attenzione al problema del quantum, prevalentemente però nell’ottica di contenere l’indebitamento delle imprese e non anche di favorire la raccolta di capitale proprio (di rischio). Ciò lo ha portato ad intervenire sulle norme generali di deducibilità, talvolta e solo in alcuni momenti storici, accompagnandole con disposizioni volte a contrastare politiche di sotto-capitalizzazione (thin capitalization rule) ed a favorire, ma solo indirettamente, la raccolta di capitale proprio (dual income tax).

Prima di procedere alla analisi di tali interventi, si può osservare sin d’ora la loro parzialità. Pur essendo tra loro fortemente differenti, ciò che accomuna quelli di un tipo e quelli dell’altro è la circostanza di non avere quale obiettivo la neutralità del sistema. Una prima critica che si può muovere al legislatore italiano è quella di aver attuato nel corso degli anni una politica concentrata ad ovviare a problemi contingenti, senza offrire soluzioni di sistema al problema che qui ci occupa.

2.1. Il previgente art. 63 t.u.i.r..

L’originaria formulazione dell’art. 63 t.u.i.r. stabiliva che ”gli interessi passivi sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi[12].Esso aveva una duplice funzione: escludere gli interessi passivi tanto dall’applicazione del criterio di integrale deducibilità dei componenti riferibili ad attività da cui derivano ricavi o altri proventi imponibili, quanto dall’applicazione del criterio di integrale indeducibilità per il caso in cui essi fossero afferenti a cespiti esenti.

Ciò comportava che sia nell’ipotesi in cui dette spese fossero riferibili a proventi tassati (o esclusi), sia nell’ipotesi in cui fossero riferibili a proventi esenti, ugualmente la loro deducibilità doveva essere proporzionalmente determinata. Come chiarito anche dall’Amministrazione Finanziaria [13], questa scelta si giustificava per la naturale impossibilità di riferire gli interessi passivi ad un componente specifico atteso che il denaro (preso a mutuo) è un bene fungibile.

Il legislatore, in un’ottica di semplificazione, aveva quindi preferito ricorrere ad un criterio onnicomprensivo, ora favorevole alla Amministrazione Finanziaria, ora favorevole al contribuente, peraltro ampiamente collaudato: l’art. 23, legge 5 gennaio 1956, n. 1, già prevedeva, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile cat. B [14], che gli interessi passivi fossero deducibili per la parte corrispondente al rapporto fra l’ammontare dei ricavi lordi che entravano a comporre il reddito di ricchezza mobile e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi lordi del contribuente. Questa norma era stata poi trasposta nell’art. 110, testo unico delle leggi sulle imposte dirette 29 gennaio 1958, n. 645 [15].

Tale disposizione era criticabile in quanto non era neutra nei confronti delle decisioni finanziarie e di investimento delle imprese [16]: essa (unitamente alle regole di tassazione sui redditi di capitale, sulle quali ci si soffermerà oltre, che prevedevano un trattamento diverso dei redditi da capitale a seconda che la scelta di finanziamento avvenisse con debito o con capitale proprio) favoriva l’indebitamento delle imprese. Infatti, alla deducibilità degli interessi passivi (ovverosia alla deducibilità del costo del debito) dal reddito imponibile delle imprese, non corrispondeva una analoga deducibilità del costo del finanziamento con capitale proprio.

2.2. Il vigente regime di indeducibilità degli interessi passivi.

2.2.1. Descrizione della normativa.

Un simile approccio, limitare l’ammontare deducibile degli interessi passivi a prescindere dal perseguimento di fini ulteriori, è stato perseguito dal legislatore con la Legge Finanziaria per il 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244), a cui si deve la disciplina attualmente vigente [17].

Questa legge ha modificato l’art. 96 (già art. 63) t.u.i.r. accordando ai soggetti IRES, in ogni periodo d’imposta, l’integrale deducibilità degli interessi passivi e degli oneri assimilati fino a concorrenza dell’importo degli interessi attivi e dei proventi assimilati [18]. Gli interessi passivi che eventualmente eccedono quelli attivi possono essere dedotti nel limite del 30% del Risultato Operativo Lordo della gestione caratteristica (c.d. R.O.L.), determinato per differenza tra il valore ed i costi della produzione, con esclusione degli ammortamenti delle immobilizzazioni immateriali e materiali e dei canoni di locazione finanziaria dei beni strumentali [19].

Gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati che non possono essere dedotti nel periodo d’imposta, perché eccedono i suddetti plafond, possono essere riportati a nuovo, senza limiti temporali [20], e dedotti nei periodi di imposta successivi fino a concorrenza del ROL che in essi si renderà disponibile; cioè del ROL che eventualmente eccede[21] quello già assorbito per dedurre gli interessi passivi eccedenti quelli attivi di periodo.

2.2.2.  Il campo di applicazione soggettivo.

Questa disciplina si applica ai soli soggetti IRES, pur se con l’esclusione di alcune categorie di imprese. Fin dalla sua formulazione originaria, la norma ha, infatti, escluso dal regime di limitata deducibilità degli interessi passivi le banche e gli altri soggetti finanziari indicati nell’art. 1, d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 87 (SGR, SIM intermediari finanziari, SICAV, etc.), le imprese di assicurazione, nonché le società capogruppo di gruppi bancari e assicurativi in quanto società con caratteristiche ontologicamente diverse [22]. Tale esclusione nasce dal carattere di centralità che l’indebitamento assume per questi soggetti, per i quali l’attività di raccolta di fondi implica, quale onere ordinario, la corresponsione di interessi passivi e oneri assimilati. Di conseguenza essi erano stati inizialmente ammessi a dedurre gli interessi passivi senza alcuna limitazione; successivamente è stato introdotto uno specifico regime di limitazione diverso e autonomo. Il comma 5-bis dell’art. 96 t.u.i.r. stabilisce ora che gli interessi passivi si deducono dalla base imponibile dell’IRES di tali soggetti nei limiti del 96%. Si è venuto così a delineare, per le imprese bancarie, assicurative e finanziarie, un regime fiscale di deducibilità degli interessi passivi parallelo rispetto a quello previsto dall’art. 96, co. 1, t.u.i.r. [23].

Il sistema vigente risulta quindi doppio: da un lato sono previste regole specifiche, in buona sostanza, valide per le società operative, dall’altro sono introdotte regole specifiche per le società finanziarie.

2.2.3. Il regime di indeducibilità degli interessi passivi per i soggetti IRPEF.

Anche per i soggetti IRPEF (imprenditori individuali e società di persone) sono stati abrogati i previgenti regimi ed è stato previsto, attraverso la riformulazione dell’art. 61 t.u.i.r., un regime unitario di limitata deducibilità degli interessi passivi, basato sul rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa, o che non vi concorrono in quanto esclusi, e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Esso riprende parzialmente l’analoga disposizione contenuta nell’art. 109, co. 5, t.u.i.r., trascurando, però, di introdurre una disposizione similare a quella contenuta nell’ultimo periodo, secondo la quale”le plusvalenze di cui all’art. 87 non rilevano ai fini dell’applicazione del periodo precedente“. Ne consegue che per i soggetti IRPEF, nel rapporto in esame rilevano anche le plusvalenze munite dei requisiti di participation exemption e tassabili per il 49,72% del loro ammontare.

La scelta di differenziare il regime di deducibilità degli interessi passivi in relazione alla natura del soggetto passivo d’imposta nasce, come si legge nella relazione illustrativa al disegno di Legge Finanziaria per il 2008, dall’opportunità di accordare un regime di maggior favore ai soggetti IRPEF, i quali non hanno beneficiato della riduzione di aliquota disposta dalla Legge Finanziaria per il 2008 [24].

2.2.4. Le norme specifiche per i gruppi di imprese.

Il vigente art. 96 t.u.i.r. non va esente da critiche. Nella determinazione del risultato operativo lordo non vengono rilevati né i dividendi, né le plusvalenze su partecipazioni societarie. Ciò penalizza le holding industriali che esercitano, in via esclusiva o prevalente, l’attività di assunzione di partecipazioni in società esercenti attività diversa da quella creditizia o finanziaria e che, pertanto, hanno generalmente solo proventi finanziari [25]. Per tali società, le attuali modalità di determinazione del risultato operativo lordo non appaiono in linea con il dichiarato obiettivo dell’art. 96 t.u.i.r., di individuare un equo rapporto tra gli oneri di indebitamento e l’ammontare dei proventi derivanti dalle attività caratteristiche dell’impresa. Unica attenuazione a tale regime deriva dall’art. 96, co. 7, t.u.i.r., dove si prevede che, nel caso di partecipazione al consolidato nazionale, ”l’eventuale eccedenza di interessi passivi ed oneri assimilati indeducibili generatasi in capo a un soggetto può essere portata in abbattimento del reddito complessivo di gruppo se e nei limiti in cui altri soggetti partecipanti al consolidato presentino, per lo stesso periodo d’imposta, un risultato operativo lordo capiente non integralmente sfruttato per la deduzione“.

Questa norma è completata con il comma 8 del medesimo art. 96 t.u.i.r. , che prevede che ”ai soli fini dell’applicazione del comma 7tra i soggetti virtualmente partecipanti al consolidato nazionale possono essere incluse anche le società estere per le quali ricorrerebbero i requisiti e le condizioni ” per l’inclusione nel consolidato. La ratio della disciplina, che consente l’inclusione virtuale delle società estere, e della conseguente possibilità di utilizzare il ROL capiente di tali società ai fini della deducibilità degli interessi passivi, è quella di non discriminare le holding industriali in possesso di partecipazioni di controllo in società estere rispetto a quelle che controllano società italiane. Nel consolidato virtuale, il legislatore accetta, dunque, il principio che gli interessi passivi prodotti in Italia possano essere assorbiti e dedotti sulla base di un ROL estero. Il ROL delle società controllate estere va assunto, conformemente alle regole previste per i soggetti residenti, al netto degli interessi passivi e degli oneri assimilati della società che lo presenta.

2.3. Le politiche di contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese adottate dal legislatore italiano.

L’attuale regime di deducibilità degli interessi passivi persegue, in via del tutto indiretta, una politica di contrasto alla sotto-capitalizzazione; nel passato, invece, come accennato, tale finalità è stata oggetto di specifici interventi da parte del legislatore.

Ci si riferisce alla thin capitalization rule ed alla dual income tax con le quali si è cercato di perseguire una più matura politica fiscale: la prima, in ottica pressoché esclusivamente punitiva, contrastando il ricorso al capitale di debito; la seconda, in ottica premiale, con l’intento anche di favorire il ricorso al capitale di rischio.

2.3.1. La Thin capitalization rule.

Le disposizioni analizzate, il previgente art. 63 t.u.i.r. e l’attuale art. 96 t.u.i.r. rappresentano i meccanismi più blandi con i quali il legislatore ha cercato di orientare le scelte imprenditoriali in tema di sottocapitalizzazione. Tale problema viene affrontato solo indirettamente ed in maniera non puntuale; le norme esaminate, infatti, non distinguono in alcun modo le diverse tipologie di comportamenti che i contribuenti adottano, non cercano di orientare le scelte degli imprenditori. Esse funzionano in maniera generalizzata colpendo indistintamente forme di indebitamento fisiologico ed indebitamento patologico.

Con la thin capitalization rule il legislatore tra il 2004 ed il 2008 aveva cercato, invece, di intervenire in modo più puntuale.

L’occasione di tale intervento è stata la c.d. Riforma IRES con la quale è stato ancora una volta modificato l’approccio al regime di tassazione degli interessi: (abrogata la DIT di cui si dirà oltre) sono stati introdotti gli artt. 96, 97 e 98 t.u.i.r.. Tali articoli, applicabili in ordine inverso alla loro numerazione (e quindi partendo dall’art. 98 t.u.i.r. per giungere all’art. 96 t.u.i.r.) hanno ratio profondamente differenti: in particolare, mentre la thin capitalization rule (art. 98 t.u.i.r.) era norma che perseguiva la finalità del contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese, le discipline di cui agli artt. 96 e 97 t.u.i.r. recavano disposizioni di coordinamento con altre novità della riforma IRES.

L’art. 97 t.u.i.r. in tema di pro rata patrimoniale aveva l’obiettivo di impedire la deducibilità di quella parte di interessi passivi che costituivano la remunerazione dei finanziamenti ottenuti allo scopo di finanziare l’acquisizione di quelle partecipazioni che, in caso di cessione, godono del regime dell’esenzione (c.d. participation exemption) di cui all’art. 87 t.u.i.r.. Questa norma superava quanto osservato in precedenza circa l’inapplicabilità agli interessi passivi della regola generale di cui all’art. 109, comma 5, t.u.i.r.. Si trattava di un meccanismo tecnico finalizzato a determinare forfetariamente la quota indeducibile degli interessi passivi di un’impresa astrattamente riferibili alle plusvalenze esenti.

Il pro rata generale di cui all’art. 96 t.u.i.r. formalmente, invece, sostituiva il previgente art. 63 t.u.i.r., facendone però sostanzialmente salva la logica ed adeguandolo al regime di esenzione dal concorso alla formazione del reddito nella misura del 95% dei dividendi.

Questi interventi erano quindi di mera ”manutenzione” del sistema previgente e di suo aggiornamento al mutato contesto normativo in cui il legislatore aveva introdotto nuove ipotesi di esenzione e esclusione di taluni componenti positivi.

Del tutto innovativa era invece la disposizione di cui all’art. 98 t.u.i.r. [26]. Operativamente esso prevedeva l’indeducibilità degli interessi passivi collegati a finanziamenti erogati e/o garantiti dal socio qualificato [27]e/o da sue parti correlate [28], a prescindere dalla residenza di questi soggetti [29], allorquando il totale dei finanziamenti erogati e/o garantiti [30] dai soci qualificati e/o dalle loro parti correlate eccedesse di almeno 4 volte la quota complessiva di patrimonio netto di pertinenza dei soci stessi o delle relative parti correlate.

Era prevista la disapplicazione di tale disciplina a condizione che il contribuente debitore fornisse la dimostrazione che l’ammontare dei finanziamenti era giustificato dalla propria esclusiva capacità di credito e che conseguentemente gli stessi sarebbero stati erogati anche da terzi indipendenti con la sola garanzia del patrimonio sociale.

La thin capitalization rule si segnalava, rispetto ai precedenti interventi, per aver meglio individuato i comportamenti da considerare patologici: i finanziamenti erogati e/o garantiti dai soci qualificati in presenza di determinati requisiti, soggettivi e oggettivi, e riqualificando in capo al socio percettore le medesime somme quali utili.

Ciò comportava che, malgrado quanto affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, secondo cui ”la thin capitalization ha l’obiettivo di contrastare l’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione … nonché quello di favorire la capitalizzazione delle stesse, a vantaggio della competitività dell’intero sistema[31], tale istituto aveva essenzialmente finalità anti-elusive [32].

Essa, infatti, non si configura va come norma volta a riequilibrare il costo del debito con quello del capitale proprio, la cui forbice si era, peraltro, allargata con l’abolizione della DIT. Come norma di riequilibrio, infatti, era troppo limitata, perché non riguardava l’indebitamento generale (incluso quello verso terzi). Opera va inoltre con discontinuità, e solo sopra una soglia particolarmente elevata, anche nei confronti internazionali, del rapporto debito/patrimonio netto.  L’assimilazione degli interessi ai dividendi, che prevedeva, poteva poi produrre fenomeni di doppia imposizione economica, nei rapporti internazionali, e discriminazioni dei soci di minoranza, non finanziatori.

È stata proprio la costruzione della thin capitalization rule come norma anti-elusiva, piuttosto che come norma di sistema (conseguenza dovuta ad una inadatta scelta del legislatore quanto alle soglie per l’applicazione di tale norma e quanto al debt/equity ratio rilevante) a renderla inadatta a perseguire una politica di neutralità fiscale nelle scelte di finanziamento delle imprese.

Questa, unitamente ad altre critiche [33], ha fatto sì che anche tale approccio non potesse essere considerato definitivo dal legislatore che con l’art. 1, comma 33, lett. l), legge 24 dicembre 2007, n. 244 (c.d. Legge Finanziaria per il 2008), come illustrato in precedenza, ha nuovamente modificato le disposizioni menzionate.

2.3.2. La Dual income tax.

Il più deciso intervento contro il fenomeno della sottocapitalizzazione delle imprese era stato perseguito dal legislatore italiano con il d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, la c.d. ”Dual Income Tax“ (DIT).

Dal punto di vista fiscale, essa poneva sullo stesso piano le varie forme di finanziamento delle imprese in quanto estendeva al finanziamento con capitale proprio i vantaggi concessi al finanziamento con debito, annullando la discriminazione tra il regime del debito e quello del capitale proprio [34].

La DIT si basava sull’assunto di dividere il reddito di impresa in due componenti da assoggettare a diversa imposizione: la prima data dal capitale sottoscritto e tenuto dai soci presso la società; la seconda definita residualmente come differenza fra gli utili di impresa (al netto degli interessi passivi) e la precedente.

Fino all’introduzione della DIT queste componenti erano tassate con la medesima aliquota, la DIT le assoggettava invece ad aliquote differenziate. In estrema sintesi, per effetto della DIT, si prevedeva che il reddito imponibile dovesse essere diviso in due parti: una assoggettabile ad aliquota ridotta del 19%, l’altra ad aliquota ordinaria del 37%, sempreché l’onere tributario complessivo non fosse, nella versione originaria [35], in media, inferiore al 27% [36]. Ai fini dell’applicazione del meccanismo DIT occorreva determinare i seguenti elementi: a) la ”variazione in aumento del capitale investito rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 30 settembre 1996[37]; b) il ”coefficiente di remunerazione ordinaria“ (c.d. CRO) [38].

Mediante tale meccanismo di tassazione il legislatore ha affrontato il tema della neutralità delle forme di finanziamento dell’impresa adottando una logica premiale: i comportamenti ritenuti virtuosi tenuti dai contribuenti (ovverosia il ricorso all’autofinanziamento piuttosto che all’eterofinanziamento) venivano incentivati tramite l’applicazione di un regime di tassazione di favore che si sostanziava in una riduzione dell’aliquota applicabile. Il sistema DIT, quindi, benché collocato al di fuori del t.u.i.r., incideva in maniera diretta sull’ammontare dell’imposta dovuta dai soggetti esercenti attività di impresa; esso mitigava gli effetti dell’allora vigente art. 63 t.u.i.r., tramite la previsione di una più favorevole aliquota di tassazione [39].

2.3.2.1. L’operatività congiunta della DIT e dell’IRAP.

L’operatività della DIT non può essere pienamente apprezzata se non si tiene conto della sua operatività in combinato con l’Imposta regionale sulle Attività Produttive (IRAP) di cui al d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, in quanto obiettivo di tale imposta era proprio quello di favorire la capitalizzazione dell’apparato produttivo nazionale.

Si ricorda che l’IRAP, nei limiti in cui rileva ai fini della presente trattazione, grava sul valore della produzione netta delle imprese, sicché comprende necessariamente nella relativa base imponibile le remunerazioni dei fattori della produzione, ovverosia, oltre ai profitti, alle remunerazioni corrisposte a titolo di salario, anche gli interessi passivi. Tecnicamente tale risultato è raggiunto dall’art. 5, d.lgs. n. 446 del 1997 prevedendo che la base imponibile IRAP delle società commerciali si ottenga partendo dal totale dei componenti positivi generati dall’attività tipica ed ordinaria e sottraendovi i costi della produzione diversi da quelli che remunerano il capitale proprio, di terzi ed il lavoro (quindi interessi passivi e salari) .

Questa modalità di determinazione della base imponibile fa sì che l’IRAP costituisca un disincentivo all’indebitamento e, simmetricamente, un incentivo al maggior ricorso all’autofinanziamento e al capitale di rischio. DIT e IRAP dovevano quindi interagire strettamente fra loro:

- l’IRAP rafforzando gli effetti della DIT sulle scelte finanziarie delle imprese e restringendo ulteriormente il divario nel trattamento fiscale del finanziamento con capitale proprio e con capitale di debito;

- la DIT garantendo riduzioni d’imposta significative a quelle società che avessero riportato i capitali in azienda o avessero proceduto a capitalizzarsi con l’obiettivo di uscire da situazion i di bassa redditività ed elevato indebitamento.

In generale questi due istituti avrebbero dovuto produrre come immediata conseguenza un incentivo a ricorrere all’autofinanziamento, offrendo così un duplice beneficio per il contribuente (rispetto ad un ricorso alternativo al capitale ottenuto a titolo di debito) in termini di maggior reddito disponibile (a parità di imponibile IRAP) [40].

2.4.  Le scelte di fondo operate dal legislatore italiano.

La politica del legislatore italiano in tema di indeducibilità degli interessi passivi e contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese risulta particolarmente ondivaga. Nel corso degli anni sono state adottate politiche differenti.

La DIT, nel suo operare congiunto con l’IRAP, è stata certamente le misura con la quale il legislatore ha cercato più efficacemente di contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese. DIT ed IRAP, fermo il riconoscimento della deducibilità degli interessi passivi quale componente certamente inerente al reddito di impresa, cercavano di orientare le scelte degli imprenditori verso forme fisiologiche di indebitamento.

La thin capitalization rule ha radicalmente rovesciato tale approccio: mentre la DIT riconosceva un incentivo al ricorso al capitale di rischio, collegato al disincentivo al ricorso al capitale di debito realizzato con l’IRAP, la thin capitalization rule operava solo in una direzione. Essa prevedeva un esclusivo disincentivo fiscale al ricorso all’autoindebitamento, oltre a quello prodotto dall’IRAP [41].

Rispetto alla DIT, la thin capitalization rule meglio interveniva su tutti i soggetti coinvolti: la DIT infatti guardava il problema esclusivamente dal lato del soggetto finanziato; la thin capitalization, prevedendo la riqualificazione delle somme pagate in utili, interveniva anche dal lato del finanziatore riducendo anche per questo la convenienza all’uso di questo strumento.

Il sistema attuale si distingue rispetto ai precedenti per aver recato una significativa semplificazione, fondando una nuova valutazione della congruità dell ’ indebitamento e, conseguentemente, la deduzione degli interessi passivi dal reddito d’impresa su un parametro (il risultato operativo lordo della gestione caratteristica) indipendente dai profili dimensionali del soggetto passivo o dal possesso di partecipazioni esenti.

Obiettivo della nuova impostazione è favorire la capitalizzazione delle società, senza colpire in modo irreversibile quelle caratterizzate da una struttura finanziaria sottocapitalizzata e senza penalizzare i possessori di partecipazioni immobilizzate, che accedono al regime di esenzione o in generale i titolari di redditi esenti.

In ottica incentivante, essa poi indirizza le imprese verso una capitalizzazione o una ristrutturazione del debito nella misura in cui concede il riporto sine die degli interessi passivi indeducibili nel singolo periodo, laddove, invece, i previgenti regimi prevedevano un’indeducibilità definitiva, pur se parziale, degli interessi ed oneri finanziari eccedenti i limiti previsti. In sostanza, mentre le norme sulla thin capitalizatione sul pro rata patrimoniale e reddituale imponevano la determinazione di un quantum di interessi passivi definitivamente indeducibile, l’attuale regime prevede un ’ indeducibilità solo temporanea.

Differentemente dal precedente regime, quello nuovo non ha poi un’applicabilità circoscritta ai finanziamenti relativi all’acquisizione di partecipazioni dotate dei requisiti per l’esenzione o ai finanziamenti direttamente o indirettamente provenienti dai soci.

La peculiarità del nuovo regime sta nella circostanza che il termine cui parametrare l’ammontare di interessi passivi indeducibili non è più l’entità del capitale di rischio, ma l’entità dell’utile in grado di sopportare gli oneri del capitale di debito, elemento che nel sistema della thin capitalization aveva rilievo solo in via indiretta nella misura in cui al contribuente era consentito dimostrare una specifica capacità di credito; in questa valutazione i flussi di utili della società avevano un rilievo decisivo.

Esso si distingue dalla DIT in quanto privo di componenti incentivanti. Si distingue poi dalla thin capitalization rule perché questa poneva limiti allo stesso indebitamento; la disciplina attuale pone solo una soglia relativa alla rilevanza fiscale degli oneri di indebitamento, ma non all’indebitamento stesso. Nell’attuale sistema manca, però, una norma che disponga la riqualificazione degli interessi in dividendi e quindi orienti le scelte degli operatori [42].

Il nuovo sistema reca una predeterminazione quantitativa dell’ammontare degli interessi passivi deducibili, lasciando, entro questo spazio, all’operatore la più ampia libertà di scelta. Mentre i precedenti regimi, vuoi in un’ottica premiale, vuoi in un’ottica punitiva, orientavano in maniera diretta le scelte degli operatori; l’attuale sistema non interviene in maniera decisa, invece, né nell’una né nell’altra direzione. In particolare, mentre con la thin capitalization rule le limitazioni alla deducibilità degli interessi colpivano solo quelli derivanti da operazioni con parti correlate, l’attuale sistema non distingue l’origine del finanziamento rischiando di rendere indeducibili anche interessi passivi relativi ad operazioni sorrette da valide ragioni economiche [43].

Non sembra però in grado di efficacemente contrastare gli arbitraggi fiscali posti in essere dai contribuenti in quanto non li identifica. Si tratta di una norma che interviene in maniera troppo generica quasi testimoniando l’esistenza di una dimensione quantitativa del principio di inerenza. Essa sembra fissare una soglia (la misura degli interessi attivi ed il 30% del ROL) fino alla quale gli interessi passivi sono fiscalmente riconosciuti; oltre tale soglia, essi perdono, si pure temporaneamente, rilevanza reddituale. Ciò non succedeva con la DIT e neppure con la thin capitalization rule.

Le disposizioni attuali non rispondono però ad una precisa logica di neutralità in quanto risentono del contesto in cui sono collocate: la riforma che ha condotto ad una riduzione dell’aliquota secondo un disegno molto vicino a quello varato in Germania. Come osservato in dottrina [44], le ristrettezze del bilancio pubblico non consentono una significativa perdita di gettito, il finanziamento di una riduzione di 5,5 punti di aliquota doveva avvenire con ristrutturazioni radicali della base imponibile.

3. La tassazione di dividendi ed interessi in capo al percettore.

Consequenziali alle scelte del legislatore in tema di contrasto agli arbitraggi tra l’investimento in capitale di debito e in capitale di rischio dovrebbero esservi quelle in tema di tassazione dei relativi proventi. Tuttavia, si evidenzia sin d’ora che le modalità di tassazione (credito di imposta, esenzione, ricorso a regimi sostitutivi) prescelte tempo per tempo dal legislatore in relazione a tali proventi (ed in particolare in tema di utili) non risultano direttamente ed immediatamente finalizzate al contrasto dei predetti fenomeni. Tale obiettivo, in particolare nel sistema attuale, può ritenersi eventualmente perseguito non nella fase di tassazione di utili ed interessi, bensì in sede di identificazione di quali strumenti originano utili o interessi.

La scarsa neutralità del sistema italiano può derivare da un’ulteriore circostanza: la cessione di azioni, di obbligazioni e dei titoli a questi similari genera plusvalenze tassabili, ma altresì minusvalenze deducibili quali redditi diversi. Mentre la categoria dei redditi di capitale non può assumere segno negativo in quanto non hanno rilievo le perdite di capitale, la categoria dei redditi diversi può generare appunto minusvalenze con ciò permettendo ai contribuenti taluni arbitraggi fiscali.

3.1. Gli strumenti finanziari nel t.u.i.r.: titoli similari alle azioni, titoli similari alle obbligazioni e titoli atipici.

3.1.1. Questioni classificatorie nel previgente t.u.i.r..

Nel sistema previgente alla riforma IRES, l’art. 41, comma 2, t.u.i.r., prevedeva che ”ai fini delle imposte sui redditi si considerano similari alle azioni i titoli di partecipazione al capitale di enti, diversi dalle società, soggetti allimposta sul reddito delle persone giuridiche; si considerano similari alle obbligazioni: c) i titoli di massa che contengono l’obbligazione incondizionata di pagare alla scadenza una somma non inferiore a quella in essi indicata, con o senza la corresponsione di proventi periodici, e che non attribuiscono ai possessori alcun diritto di partecipazione diretta o indiretta alla gestione dell’impresa emittente o dell’affare in relazione al quale siano stati emessi, né di controllo sulla gestione stessa[45].

Il t.u.i.r. distingueva tra azioni (e quindi titoli che originano dividendi) e obbligazioni (e quindi titoli che originano interessi) sulla base della circostanza che un titolo attribuisse o meno diritti di tipo partecipativo. In caso positivo, detto titolo era riconducibile al novero delle azioni; in caso negativo tale titolo non era solo per questo riconducibile alle categoria delle obbligazioni. Era necessaria la verifica di un’ulteriore requisito, ovverosia il fatto che prevedesse la garanzia del capitale. In sua assenza tali titoli erano ricondotti alla vasta categoria dei titoli atipici.

3.1.2. Questioni classificatorie nel vigente t.u.i.r..

Questo sistema tripartito è stato messo in discussione all’indomani della riforma tributaria prevista dalla legge n. 80 del 2003 per tenere anche conto delle modifiche apportate dalla riforma del diritto societario attuata con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Questa aveva introdotto sostanziali modifiche alle disposizioni del codice civile sul diritto societario così da suggerire al Governo di incaricare un ’apposita Commissione (c.d. Commissione Gallo), di studiare il coordinamento della normativa tributaria con il mutato scenario giuridico affinché i decreti legislativi di attuazione degli artt. 3 e 4 della legge n. 80 del 2003 tenessero conto della riforma del diritto societario appena attuata [46].

Il suggerimento della Commissione Gallo di giungere ad un sistema bipartito organizzato in torno alle nozione di titoli similari alle azioni e titoli similari alle obbligazioni, non è stato accolto ed è stata mantenuta la categoria dei titoli atipici. Sono però state modificate le altre due categorie per tenere conto del rinnovato contesto civilistico di riferimento [47].

Per adeguare il sistema del t.u.i.r. al rinnovato panorama offerto dal diritto commerciale, il legislatore fiscale ha modificato il comma 2 dell ’art. 41 (ora art. 44) t.u.i.r., laddove fornisce le nozioni, rispettivamente, di titoli similari alle azioni e titoli similari alle obbligazioni.

L’art. 44 t.u.i.r., al comma 2, lett. a), considera similari alle azioni i titoli e gli strumenti finanziari la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale sono stati emessi [48].

La categoria dei titoli assimilati alle azioni risulta così costruita in funzione del tipo di remunerazione conseguita e non in funzione del rischio nell’investimento, principio che, al contrario, è utilizzato per descrivere la categoria delle obbligazioni. Ai sensi dell’art. 44, co. 2, lett. c), t.u.i.r., sono, infatti, considerati similari alle obbligazioni ”i titoli di massa che contengono l’obbligazione incondizionata di pagare alla scadenza una somma non inferiore a quella in essi indicata, con o senza la corresponsione di proventi periodici, e che non attribuiscano ai possessori alcun diritto di partecipazione diretta o indiretta alla gestione dell’impresa emittente o dell’affare in relazione al quale siano stati emessi, né di controllo sulla gestione stessa[49].

Il nuovo t.u.i.r. non ricorre quindi ad un criterio univoco per descrivere le due categorie in esame, bensì utilizza contemporaneamente il criterio della remunerazione ed il criterio del rischio tanto da creare, come detto, vuoti o confusioni, ed obbligando l’interprete alla ricerca di linee guida.

Per risolvere tali aporie, si deve tenere anche conto di quanto previsto dall’art. 109, co. 9, lett. b), t.u.i.r., che dispone l’indeducibilità dal reddito d’impresa della società emittente della remunerazione dei titoli e strumenti finanziari, comunque denominati, di cui all’art. 44 t.u.i.r., qualora garantiscano direttamente o indirettamente la partecipazione ai risultati economici della società. Tale norma costituisce la naturale conseguenza della previsione dell’assimilazione ad azioni di quei titoli la cui remunerazione è correlata ai risultati economici dell’impresa. Dal momento che i proventi conseguiti dai titolari di detti strumenti sono equiparati agli utili, tale equiparazione deve, allo stesso modo, valere per la società emittente al fine di negare la deducibilità in capo alla stessa di questi componenti, sicché non sarebbe stato corretto concedere alla società emittente la possibilità di portare in deduzione la relativa remunerazione.

In definitiva, quindi, ogniqualvolta per effetto della disposizione contenuta nell’articolo 109, comma 9, lettera a), t.u.i.r., viene sancita la totale indeducibilità della remunerazione dei titoli o strumenti finanziari, per ragioni di coerenza sistematica, tale remunerazione non può che essere assoggettata al regime fiscale proprio degli utili da partecipazione, sempre che essa sia costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società [50].

È così la lettura congiunta dell’art. 44, co. 2, lett. a) e dell’art. 109, co. 9, lett. b), t.u.i.r., a fornire la chiave per interpretare il nuovo sistema nel quale il principio della remunerazione risulta sovraordinato al principio del rischio e l’eventuale conflitto tra le lettere a) e c) del secondo comma dell’art. 44 t.u.i.r. deve essere risolto in favore della prima.

In definitiva, al fine di poter qualificare secondo la legge tributaria i nuovi strumenti finanziari previsti dalla riforma del diritto societario deve farsi ricorso a tre differenti criteri:

1. la remunerazione e le sue modalità di parametrazione;

2. la previsione dell’obbligo di restituzione integrale del capitale;

3. il riconoscimento di diritti partecipativi.

Tali criteri non operano tuttavia su un livello paritetico: il principio della remunerazione risulta sovraordinato, così da permettere una prima distinzione tra titoli similari alle azioni e non. Questa iniziale bipartizione non è però esaustiva, poiché, all’interno della sfera dei titoli non similari alle azioni, si deve distinguere tra due ulteriori categorie: quella dei titoli atipici e della dei titoli similari alle obbligazioni. È legislativamente individuata solo la seconda; la prima si individua così per sottrazione: si tratta dei titoli che non sono similari alle azioni e non sono similari alle obbligazioni. È una categoria di carattere residuale frutto di non perfetto coordinamento legislativo oggi del tutto priva di utilità, soprattutto alla luce delle modifiche apportate dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, di cui si dirà poco oltre.

Dal punto di vista della società emittente, si applica l’art. 109 t.u.i.r., per l’operatività del quale non rileva la riconduzione o meno di un titolo nella categoria di quelli atipici. Esso ha, infatti, un contenuto più ampio di quello dell’art. 44 richiamato. Mentre quest’ultimo equipara alle azioni gli strumenti finanziari la cui remunerazione è ”totalmente“ costituita dalla partecipazione ai risultati economici dell’impresa, in sede di determinazione del reddito di impresa, l ’ indeducibilità opera non solo per le remunerazioni totalmente parametrate ai risultati economici della società emittente, bensì pro quota, anche per quelle soltanto parzialmente legate all’andamento dell’attività di impresa. Vi è quindi una differenza di regime tra il prenditore per il quale un titolo la cui remunerazione è solo parzialmente legata ai risultati economici della società non è classificabile come azione ai sensi dell’art. 44 t.u.i.r. e per la società emittente per la quale comunque la relativa remunerazione è parzialmente indeducibile.

Si vulnera così la stessa esigenza di simmetria appena affermata e ritenuta, anche dall’Amministrazione Finanziaria, l’unico possibile criterio ordinatore della nuova disciplina, ma si potenzia la funzione antielusiva che le due disposizioni assolvono, essendo preordinate ad evitare che gli strumenti finanziari di natura partecipativa possano prestarsi ad essere utilizzati per rendere deducibili dal reddito d’impresa anche gli utili sotto la veste di oneri di carattere finanziario [51].

3.2.  La tassazione delle azioni e degli strumenti similari alle azioni.

Con la riforma IRES, il legislatore nazionale ha profondamente modificato il sistema di tassazione dei dividendi o utili . Fino al 2003, il legislatore affrontava il problema dell’eliminazione della doppia imposizione economica ricorrendo al meccanismo del credito di imposta. La riforma IRES, sotto questo punto di vista fa registrare un deciso cambiamento: viene disposta l’abolizione di tale sistema e la sua sostituzione con il meccanismo dell’esenzione, salvo affiancare ad esso forme di tassazione sostitutiva [52].

Come noto, l’efficacia dell’esenzione e quella del credito di imposta, ai fini dell’eliminazione della doppia imposizione, si equivalgono; differenti sono però le esigenze di natura più generale alle quali essi rispondono [53]: mentre il credito di imposta esclude la convenienza a produrre reddito all’estero (c.d. Capital Export Neutrality) – obiettivo che in un contesto europeo potrebbe essere ritenuto di ostacolo alla libertà di movimento dei capitali -, l’esenzione, invece, offre uguali condizioni di accesso a tutti i mercati (c.d. Capital Import Neutrality).

La scelta per l’uno o per l’altro sistema deve tenere però conto del contesto europeo. Infatti, la necessità di eliminare discriminazioni nel trattamento dei dividendi in funzione della residenza della società distributrice [54] è stata affermata più volte dalla Corte di Giustizia [55] e dalla Commissione [56]. In particolare, quest’ultima non ha manifestato una preferenza per uno dei due meccanismi, ha sottolineato che gli Stati Membri possano indifferentemente ricorrere ad un modello piuttosto che ad un altro, a condizione però che quello prescelto trovi applicazione indistinta nei confronti tanto dei dividendi di fonte nazionale quanto di quelli di fonte comunitaria.

Per tutti gli Stati europei, compresi l’Italia, la preferenza è andata per il sistema dell’esenzione in quanto, di norma nessuno Stato riconosce ai dividendi di fonte estera un credito per le imposte pagate dalla società distributrice nel proprio Stato di residenza.

L’applicazione dell’esenzione è avvenuta in modo molto articolato in quanto occorre distinguere in base:

- alla veste di chi li percepisce (persona fisica, imprenditore individuale e società di persone, società soggette ad IRES);

- alla tipologia di partecipazioni possedute;

- alla fonte da cui provengono.

A favore dei soggetti IRES viene previsto che gli utili distribuiti da altri soggetti IRES e quindi, fondamentalmente da imprese, concorrano alla formazione del reddito imponibile solo nella misura del 5%, mentre per il restante 95% siano completamente esenti (la quota tassata del 5% è stata individuata in misura forfetaria per quantificare la quota indeducibile dei costi connessi alla produzione dell’utile stesso).

Dette percentuali sono invece alquanto differenti per le persone fisiche esercenti attività di impresa. È previsto che, nei confronti di queste categorie di soggetti, gli utili distribuiti concorrano a formare il reddito per il 49,72% e siano esenti nella misura del 50,28%.

Il criterio della tipologia di partecipazioni possedute ha rilievo per la tassazione degli utili percepiti da persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa. Per questi soggetti il regime di tassazione varia, infatti, a seconda che la partecipazione posseduta si qualifichi quale:

partecipazione sociale qualificata: si intendono per tali le partecipazioni che attribuiscono complessivamente una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria:

ovvero una partecipazione al capitale od al patrimonio:

partecipazione sociale non qualificata: si intendono per tali le partecipazioni pari o inferiori alle predette soglie.

Gli utili percepiti da una persona fisica non esercente attività di impresa titolare di partecipazioni qualificate concorrono a formare il reddito complessivo dello stesso contribuente per il 49,72% (essendo esenti nella misura del 50,28%) del loro ammontare. Gli utili percepiti in relazione a partecipazioni non qualificate detenute fuori dall’esercizio dell’attività di impresa sono soggetti, ai sensi dell’art. 27, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, a partire dal 1° gennaio 2012, ad un’imposta sostitutiva del 20% (in luogo della previgente misura del 12,5%), che, è opportuno precisarlo, viene applicata sul 100% dell’utile (non operano in tale sede le summenzionate percentuali di esenzione) a seguito delle modifiche apportate dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.

L’immediata conseguenza di tale ultimo intervento è un inasprimento della tassazione sulle partecipazioni non qualificate che, considerando congiuntamente quella sulla società e sul socio, si attesta sul 42 ( ottenuta sommando al 27,5% sulla società il 20% sul dividendo distribuito al socio, in luogo della previgente misura del 36,5 % ottenuta sommando al 27,5% la precedente ritenuta del 12,5%), mentre quella sulla partecipazioni qualificate si attesta fra il 35,8% e il 43% (ottenuto sommando al 27,5% sulla società e il 23% o il 43% sul 49,72% del dividendo prelevato in capo al socio).

I predetti regimi (esenzione ed imposizione sostitutiva) trovano applicazione con riferimento a tutti gli utili distribuiti da società residenti e non, purché detti utili non provengano, direttamente o indirettamente, da società residenti in paesi o territori a regime fiscale privilegiato, salva la dimostrazione, in seguito ad esercizio del diritto di interpello, che dalla partecipazione in dette società residenti in Stati a fiscalità privilegiata non derivi anche l’effetto di localizzarvi effettivamente i relativi redditi. Dispone infatti l’art. 47 comma 4 che gli utili”provenienti”[57]da società residenti nei c.d. paradisi fiscali concorrano integralmente alla formazione del reddito imponibile.

Le regole appena illustrate valgono, in buona sostanza e con alcune semplificazioni, anche per la tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni sia da parte di società, sia da parte di persone fisiche, in quanto le plusvalenze sono considerate dal legislatore flussi futuri di utili attualizzati. Per evitare arbitraggi il legislatore ha previsto che le minusvalenze sono rilevanti nella stessa misura in cui sarebbero tassate le corrispondenti plusvalenze [58].

Da tale analisi risulta che il legislatore italiano ha scelto di impostare il problema della tassazione delle società e dei relativi soci nel senso di prevedere un sistema di tassazione ripartita tra i due soggetti coinvolti [59]. Ora, rispetto al passato, l’imposta sulle società è considerata quale un prelievo definitivo direttamente in capo alla società stessa, intesa pienamente come soggetto passivo d’imposta, non solo giuridico ma anche economico, cui si accompagna un ulteriore prelievo, necessariamente definitivo in capo al socio.

A questa impostazione si rifà il modello IRES: diversamente dal modello IRPEG, la società cessa di essere una sorta di ”filtro” per la tassazione dell’azionista. Attesa questa impostazione, il problema che ne deriva è quello di fissare l’aliquota massima del prelievo complessivo in capo al socio ed alla società.

Attualmente tale prelievo si situa fra il 35,8% e il 43% nel caso di partecipazioni qualificate ed al 42% nel caso di partecipazioni non qualificate. Analogamente a quanto avveniva con il credito di imposta, la tassazione complessiva sui redditi societari si situa al livello dell’aliquota marginale massima prevista in sede IRPEF. Se economicamente i due sistemi si equivalgono, giuridicamente sono significativamente diversi (con il sistema del credito di imposta, l’imposta pagata dalla società si qualifica va quale mero acconto dell’imposta dovuta dal socio) e testimoniano un diverso approccio concettuale al problema.

Si deve peraltro aggiungere che per effetto delle modifiche di recente apportate alla misura della ritenuta sui redditi di capitale, a far data dal 1° gennaio 2012, almeno relativamente alle partecipazioni non qualificate, potrà realizzarsi un effetto distorsivo con tutta probabilità costituzionalmente illegittimo: potrà, infatti, accadere che i titolari di partecipazioni non qualificate subiscano un prelievo fiscale più gravoso di quello dei corrispondenti titolari di partecipazioni qualificate con aliquote marginali basse.

3.3.  La tassazione delle obbligazioni, dei titoli atipici e degli strumenti similari alle obbligazioni.

La disciplina della tassazione dei proventi derivanti dal possesso di titoli obbligazionari, titoli similari ed atipici, di fonte interna e di fonte estera [60], consiste di regola nell’applicazione di una ritenuta alla fonte oppure di un’imposta sostitutiva [61] il cui ammontare, a partire dal 1° gennaio 2012, è fissato nella misura del 20% [62] (in luogo della previgente misura del 12,5%) a seguito delle modifiche apportate dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 [63].

L’art. 2, comma 6, del decreto citato prevede che le ritenute, le imposte sostitutive sugli interessi, premi e ogni altro provento di cui all’art. 44 t.u.i.r. e sui redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lettere da c-bis a c-quinquies, t.u.i.r. sono stabilite nella misura del 20%. In altri termini, le ritenute e le imposte sostitutive sui redditi di capitale (interessi e altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti,interessi e altri proventi delle obbligazioni, proventi derivanti dalla gestioni individuali o collettive di portafoglio, ma anche, come detto in precedenza, utili derivanti da partecipazioni non qualificate) e sui redditi diversi di natura finanziaria (plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di titoli, strumenti finanziari, certificati di massa, valute estere, ma anche azioni e quote di partecipazioni non qualificate) avranno un’unica aliquota del 20%, in luogo delle precedenti aliquote del 12,5% e/o del 27%.

Restano esclusi dall’applicazione dell’aliquota del 20% [64] gli interessi, premi e ogni altro provento costituente reddito di capitale, nonché i redditi diversi, relativi a:

Ø obbligazioni e altri titoli del debito pubblico (si tratta dei titoli di Stato ed equiparati, tra i quali, anche quelli emessi da enti territoriali, ed i buoni postali fruttiferi);

Ø obbligazioni emesse da Stati inclusi nella white list di cui all’art. 168-bis t.u.i.r.;

Ø titoli di risparmio per l’economia meridionale;

Ø piani di risparmio a lungo termine appositamente istituiti.

È stata così eliminata la principale fonte di disomogeneità nel trattamento dei titoli in esame che giustificava gli arbitraggi fra capitale di debito e capitale di rischio [65].

La possibilità di ricondurre uno strumento finanziario ora alle azioni, ora alle obbligazioni, infine ai titoli atipici è divenuta del tutto irrilevante in quanto, salva la categoria dei dividendi relativi a partecipazioni qualificate, le remunerazioni di tutti gli altri titoli sono soggette a tassazione nella misura del 20%; non è più necessario individuare tra titoli soggetti al 12,5% (di norma le obbligazioni) e quelli soggetti al 27% (di norma i titoli atipici). Nel previgente sistema ciò poteva consentire rilevanti arbitraggi fiscali.

Il recente intervento legislativo non ha risolto tuttavia la possibilità di arbitraggi tra il ricorso al capitale di rischio ed a quello di debito. È ben vero che il percettore sopporta, ad eccezione che nell’ipotesi in cui sia titolare di partecipazioni qualificate, una tassazione del 20%, ma resta impregiudicata la questione della deducibilità delle somme pagate (utili o interessi) in capo alla società emittente.

Non sono risolti nemmeno quelli che derivano dal realizzo di plusvalenze, rectius minusvalenze. Ci si riferisce a quei comportamenti con i quali si provvede alla cessione del titolo per ottenere minusvalori fiscalmente rilevanti, aggirando il principio per cui non hanno rilievo le perdite di capitale. I medesimi meccanismi di tassazione sostitutiva sono, infatti, applicati alle plusvalenze derivanti dalla cessione dei titoli in esame, ma, in tale ipotesi, assumono rilevanza fiscale anche eventuali minusvalenze realizzate che riducono l’ammontare delle corrispondenti plusvalenze nel medesimo periodo di imposta o nei successivi.

Se la riforma non permette più al contribuente di scegliere quale aliquota applicare, gli consente ancora di superare la regola dell’irrilevanza fiscale delle perdite di capitale conseguendo una minusvalenza deducibile.

4. Considerazioni conclusive in tema di neutralità.

La ricostruzione della normativa qui fornita conferma l’impressione (fin dall’inizio anticipata) di una sostanziale assenza di neutralità da parte del sistema tributario italiano che consente differenti forme di arbitraggi fiscali. L’ Italia risulta essere ben distante da quel modello economico [66] accennato in premessa che vede gli interessi deducibili per la società e tassati in progressiva in capo al socio [67]e gli utili indeducibili per la società e non tassati in capo al socio.

Ma, come è stato chiarito dalla Commissione Biasco [68]“la neutralità non è un obiettivo solo economico, ma anche giuridico. Fa riferimento alla necessità di assicurare l’eguaglianza sostanziale tra contribuenti con capacità contributiva essenzialmente identica. É indubbio che vi sia una violazione di tale principio ogni qual volta imprese con simili caratteristiche e potenzialità contributiva, vengono tassate in modo diverso a seconda delle loro scelte finanziarie“, sicché tale principio deve essere assolutamente perseguito dal legislatore.

Guardando la vicenda dal lato della società, si osserva che l’art. 96 t.u.i.r. nel testo vigente risulta estremamente tranchant. Non è voluto dal legislatore per dare neutralità al sistema in quanto opera a prescindere dal problema degli arbitraggi tra capitale di debito e capitale di rischio. Esso introduce una forfetizzazione dell’ammontare degli interessi passivi deducibili del tutto indipendente dalle strategie operative dell’azienda con l’effetto di limitare la deducibilità dell’indebitamento patologico e dell’indebitamento fisiologico o, rectius, fornendo una non corretta definizione di indebitamento fisiologico. Si osserva come il legislatore, dal lato delle imprese, abbia sino ad ora considerato alternativi tra loro gli strumenti del premio alla capitalizzazione (la dual income tax) e quello del contrasto all’eccesso di indebitamento (la thin capitalization rule).

Non sono però necessariamente incompatibili tra loro. La Commissione Biasco [69] suggeriva sia la reintroduzione della DIT (anche se nella forma di Aiuto alla crescita economia – c.d. ACE), sia il mantenimento di una normativa antielusiva ad hoc per il contrasto alla sottocapitalizzazione delle imprese (inserendo tra le fattispecie per le quali risulta applicabile la norma antielusiva di cui all’art. 37-bisd.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’indebito utilizzo fiscale da parte dei soci qualificati della sottocapitalizzazione della società partecipata nei casi in cui risulti superata una determinata soglia di indebitamento nei confronti dei soci qualificati o loro parti correlate). Questa strada potrebbe essere utilmente perseguita in quanto consentirebbe di raggiungere l’uguaglianza tra i contribuenti con capacità contributive diverse opportunamente distinguendo tra indebitamento fisiologico e patologico.

Guardando la vicenda dal lato del socio, si osserva che il sistema nazionale, nonostante le ultime modifiche, ancora non ostacola efficacemente la propensione a ricorrere al ricorso al capitale di debito: i relativi proventi sono esclusi dal concorso alla formazione del reddito complessivo per essere assoggettati a forme di imposizione sostitutiva particolarmente ridotte (di norma il 20%), mentre quella sul capitale di rischio resta estremamente elevata (compresa tra il 38,5 ed il 43 %) in quanto deriva dall’aggregazione delle imposte dovute dalla società e dal socio.

La recente riforma l’ha ulteriormente elevata e, a livello aggregato, ha soprattutto reso fortemente penalizzante la tassazione sulle partecipazioni sociali non qualificate, ora divenuta superiore a quella sulle partecipazioni qualificate per coloro cui si applicano in sede IRPEF aliquota marginali basse  Ciò pone un problema di legittimità costituzionale del prelievo sostitutivo, in mancanza del riconoscimento a favore di tali contribuenti della possibilità di scegliere (tramite opzione) il regime di tassazione previsto per le partecipazioni qualificate.

L’unificazione delle aliquote al 20% non esclude poi il vantaggio fiscale della deducibilità degli interessi in capo alla società (a fronte dell’indeducibilità degli utili) e lascia impregiudicato il problema della tassazione degli utili da partecipazioni qualificate. Questa modifica, pur certamente rilevante (se non altro per aver, di fatto, polarizzato il sistema tra due estremi: i proventi derivanti da partecipazioni qualificate ed i proventi derivanti da tutti gli altri titoli finanziari), non è comunque ancora sufficiente per restituire neutralità al sistema. Non impedisce, ancora, le operazioni finalizzate alla realizzazione di minusvalenze deducibili: per ovviare all’assenza di rilievo della categoria delle ”perdite di capitale” sarebbe necessario un integrale ripensamento della categoria dei redditi di capitale.

Il legislatore dimostra quindi di non contrastare efficacemente questi fenomeni a differenza della giurisprudenza che a più riprese è intervenuta sul punto. Ci si riferisce a quel fiorente filone giurisprudenziale [70] che ha riconosciuto l’esistenza nell’ordinamento nazionale di un principio generale, preesistente alla emanazione delle singole leggi antielusive e che ha copertura costituzionale, che vieta al contribuente di conseguire indebiti vantaggi dall’utilizzo legittimo di strumenti giuridici i quali non siano fondati su valide ragioni economiche. Esso trova specifica affermazione proprio con riferimento alle operazioni finanziarie tanto che la Cassazione [71] ha affermato che”la cautela che deve guidare l’applicazione del principio, qualunque sia la sua matrice, deve essere massima quando non si tratti di operazioni finanziarie (come avviene nei casi di dividend washing e di dividend stripping)”. Ad una debole reazione del legislatore si oppone una forte reazione della giurisprudenza che sta dimostrando di voler contrastare gli arbitraggi che l’attuale regime consente. Tacendo delle criticità che la giurisprudenza menzionata solleva e che esulano dalla presente trattazione, ai fini che qui interessano, si deve osservare come anche questo approccio è insoddisfacente in quanto non in grado di garantire una reale certezza del diritto.

Sarebbe preferibile un intervento del legislatore: dal momento che la perfetta neutralità del sistema è probabilmente un obiettivo troppo complesso da raggiungere (se non a seguito di un generale ripensamento dell’ordinamento) il legislatore, invece, ben potrebbe estendere quanto già fatto in tema di contrasto al dividend washing con l’introduzione dei commi 3-bis, 3-ter e 3-quater all’art. 109 t.u.i.r. [72]. Si potrebbe, in altri termini, prevedere una norma di portata generale che contrasti gli arbitraggi tra capitale di rischio e capitale di debito e tra redditi di capitale e redditi diversi nell’ottica tracciata dalla Cassazione e quindi consenta ai contribuenti di scegliere tra l’una e l’altra forma di finanziamento delle imprese, l’una e l’altra forma di reddito, purché tale scelta sia sorretta da valide ragioni economiche.

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Footnotes    (↵ returns to text)
  1. Il Prof. Fabio Marchetti è Professore Associato di Diritto Tributario presso l’Università Luiss G. Carli; il Dott. Federico Rasi è Dottore di Ricerca in Diritto Tributario delle Società e collabora con l’Università Luiss G. Carli. I paragrafi 3 e 4 (ed i relativi subparagrafi) sono a cura del Prof. Fabio Marchetti. I paragrafi 1 e 2 (ed i relativi subparagrafi) sono a cura del Dott. Federico Rasi.
  2. S. Giannini, Gli interessi passivi nel quadro della tassazione societaria internazionale, in Dial . trib., 2008, pag. 14.
  3. Brevemente si ricorda, per quanto qui di interesse, che le società e gli enti commerciali residenti sono soggetti ad un’imposta proporzionale del 27,5% sul reddito complessivo ovunque prodotto denominata Imposta sul Reddito delle Società (IRES). Le persone fisiche residenti sono soggette ad un’imposta personale progressiva per scaglioni sul reddito complessivo ovunque prodotto denominata Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF) con aliquote del 23% (fino a 15.000 euro), del 27% (oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro), del 38% (oltre 28.000 euro e fino a 55.000 euro), del 41% (oltre 55.000 euro e fino a 75.000 euro), del 43% (oltre 75.000 euro). Le attività economiche (di impresa e lavoro autonomo) sono inoltre soggette all’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) con un’aliquota base del 3,9% su un imponibile particolarmente ampio (comprensivo delle spese del personale e degli interessi passivi).
  4. S. Giannini, Gli interessi passivi nel quadro della tassazione societaria internazionale , cit., pag. 15.
  5. Tale aliquota risulta a seguito delle modifiche apportate al sistema tributario dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Esso ha sostituito le precedenti aliquote di tassazione dei redditi di capitale e diversi di natura finanziaria del 12,5% e del 27% con un’unica aliquota del 20%. Questa si applica agli interessi, ai premi e a ogni altro provento costituente reddito di capitale, nonché ai redditi diversi, rispettivamente esigibili e realizzati dal 1° gennaio 2012; per i dividendi e proventi a essi assimilati l’aliquota unica si applica a quelli percepiti dal 1° gennaio 2012, a prescindere dalla data di delibera di distribuzione.
  6. L. ROSA., Il principio di inerenza, in Il reddito di impresa, a cura di G. Tabet, Padova, 1997, pag. 138.
  7. Questo, come noto, va inteso nel senso della rilevanza ai fini della determinazione del reddito di impresa dei costi che evidenziano un collegamento tra il loro sostenimento e l ’attività esercitata dall’imprenditore o dalla società. In questo senso anche la giurisprudenza cfr.: Cass., sent. 21 aprile 2008, n. 10257; Cass., sent. 30 luglio 2007, n. 16824; Cass., sent. 13 ottobre 2006, n. 22034; Cass., sent. 13 settembre 2006, n. 19610).
  8. Il dubbio circa la sua applicabilità agli interessi passivi deriva da una differente formulazione letterale fra l’art. 61 t.u.i.r. , relativo al reddito di impresa prodotto dai soggetti passivi IRPEF, e l’art. 109 t.u.i.r. , per le società di capitali cui si applica l’IRES: mentre l’art. 61, infatti, condiziona espressamente la loro deducibilità al test dell’inerenza, invece, l’art. 109 non fa alcun riferimento esplicito a tale requisito.
  9. Cfr. ex multisCass ., sent. 21 novembre 2001, n. 14702, ove ha ritenuto che il diritto alla deducibilità degli interessi passivi dal reddito di impresa debba essere sempre riconosciuto senza tener conto della loro inerenza all’attività di impresa, di modo che l’art. 109, comma 5, t.u.i.r. dovrebbe essere interpretato nel senso di consentire a priori la loro deducibilità sottraendoli a qualunque valutazione circa l’an ed il quantum. In particolare, argomentando a partire dall’art. 61 t.u.i.r., la Cassazione ha affermato che, dal momento che tale norma stabilisce che gli interessi passivi sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo dei ricavi e proventi, ”non pone alcun limite alla deducibilità degli interessi passivi in funzione dell’evento cui gli stessi sono collegati o della natura dell  onere di cui sono accessori, perché il metodo di calcolo ivi indicato prescinde da ogni indagine sul nesso causale rispetto all’attività esercitata dall’impresa che avvince invece i vari componenti negativi del reddito“ (Cass., sent. 4 giugno 2007, n. 12990). In questa prospettiva il diritto alla deducibilità degli interessi passivi sarebbe svincolato da un giudizio di inerenza che, invece, continua ad essere necessario per le spese e per gli altri componenti negativi (tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale); ciò troverebbe fondamento in ”una logica di semplificazione dei meccanismi di accertamento dei redditi imponibili che nello stesso tempo non pregiudica l’interesse del fisco a ricomprendere per quanto possibile tutta la produzione di reddito tassabile“ (Cass., sent. 2 febbraio 2005, n. 2114).
  10. Cass., sent. 29 marzo 2006, n. 7292.
  11. Più specificatamente, detta valutazione deve essere condotta nel senso di verificare l’inerenza non degli interessi passivi in quanto tali, ma del debito da cui originano rispetto all’attività di impresa. Secondo tale giurisprudenza, condivisa anche dalla dottrina (G. Tinelli, Art. 109 (Norme generali sui componenti del reddito di impresa), in Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cura di G. Tinelli, Padova, 2009, pag. 9 9 5 ; R. Lupi, Limiti alla deduzione degli interessi e concetto generale di inerenza, in Corr. trib., 2008, pag. 773), il legislatore del t.u.i.r., fermo l’assoggettamento degli interessi passivi al giudizio di inerenza, li avrebbe quindi esclusi dalla sola soggezione al principio di correlazione con componenti tassati per ragioni di carattere sistematico: per essi avrebbe infatti ritenuto di dover dettare una disciplina assorbente e speciale.
  12. Ai fini dell’applicazione dell’art. 63 t.u.i.r., operativamente si applicava la proporzione A : B = X : 100 nella quale A rappresentava l’ammontare dei ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito imponibile (numeratore), B rappresentava l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi compresi quelli esenti (denominatore), ed X la percentuale degli interessi deducibili. Cfr. L. Del Federico, Interessi passivi, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul reddito delle persone fisiche, diretta da F. TESAURO, II, Torino, 1994, pag. 708.
  13. Ministero delle Finanze – Imposte Dirette, Circolare 2 febbraio 1976 n. 3; Ministero delle Finanze – Imposte Dirette, Circolare 18 febbraio 1986, n. 4.
  14. Si trattava dell’imposta reale che gravava sui redditi delle imprese commerciali.
  15. F. Napolitano, Interessi passivi, in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi ed altri scritti, Roma – Milano, 1990, pag. 350.
  16. F. Gallo, La tassazione dei redditi d’impresa: i difetti e le proposte di modifica, in Rass. trib. , 1997, pag. 121.
  17. Sul tema M. Leo, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2010, pag. 1692.
  18. L’art. 96. co. 1, t.u.i.r. esclude esplicitamente dal proprio ambito oggettivo di applicazione gli interessi passivi e gli oneri assimilati compresi nel costo dei beni e capitalizzati ai sensi dell’art. 110, co. 1, lett. b) , t.u.i.r.. Le regole di deducibilità di cui all’art. 96 t.u.i.r. si applicheranno quindi agli interessi non capitalizzati o non capitalizzabili. Ai sensi dell’art. 96. co. 3, t.u.i.r., assumono rilevanza non solo gli interessi attivi e passivi ma anche gli oneri e proventi assimilati originati da rapporti contrattuali aventi causa finanziaria (mutuo, locazione finanziaria, emissione di obbligazioni e titoli similari, ”notional cash pooling”). Ciò porta ad escludere dal novero degli interessi rilevanti (attivi e passivi) sia gli interessi di mora per ritardato pagamento di debiti pecuniari, sia gli interessi compensativi per ritardato pagamento di imposte, in quanto non riconducibili a volontari atti di finanziamento. Per apposita previsione normativa gli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale non concorrono a determinare la somma degli interessi passivi, mentre concorrono a formare la somma degli attivi quelli derivanti da crediti della stessa natura. È altresì consentito calcolare in aggiunta degli interessi attivi i cc.dd. interessi attivi virtuali calcolati al saggio ufficiale di riferimento aumentato di un punto, ricollegabili al ritardato pagamento di corrispettivi da parte della pubblica amministrazione.
  19. Il R.O.L. è legislativamente definito (art. 96, co. 2, t.u.i.r.) come la differenza tra il valore ed i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’art. 2425, cod. civ., così come risultanti dal conto economico dell’esercizio, con esclusione dei seguenti componenti negativi: 1) gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali ed immateriali, di cui alla lett. B), n. 10), voci a) e b), del conto economico; 2) i canoni di locazione finanziaria di beni strumentali, ricompresi nella lett. B), n. 8), del conto economico. Nella sua determinazione rilevano esclusivamente i valori contabili “come risultanti dal conto economico dell’esercizio”; per i soggetti che redigono il bilancio secondo gli IAS/IFRS, ai fini della determinazione del risultato operativo lordo “si assumono le voci di conto economico corrispondenti”.
  20. L’art. 96, co. 4, t.u.i.r., disciplina il caso nel quale le eccedenze di interessi passivi siano superiori alle disponibilità di R.O.L.(dato dalla somma fra il 30% del R.O.L. di competenza e le eventuali eccedenze di R.O.L. inutilizzate in esercizi precedenti). In questa ipotesi, l’eccedenza di interessi passivi può essere portata in deduzione dal reddito dei successivi esercizi senza limiti temporali, qualora in detti esercizi si manifestino condizioni opposte a quelle che determinarono l’eccedenza di interessi non deducibile. Il recupero è tuttavia possibile alla condizione che, in tali successivi periodi, l’importo degli interessi passivi e degli oneri assimilati di competenza eccedenti gli interessi attivi ed i proventi assimilati sia inferiore al 30% del R.O.L. di competenza.
  21. L’art. 96, co. 1, t.u.i.r. consente di portare ad incremento del 30% del R.O.L. del successivo periodo d’imposta l’eventuale parte (del 30%) del R.O.L. non utilizzato nel periodo di competenza, in quanto superiore all’eccedenza di interessi passivi. L’eccedenza di R.O.L. dovrà essere utilizzata in compensazione alla prima occasione utile, vale a dire nel primo esercizio in cui si manifesterà un’eccedenza degli interessi passivi di periodo su quelli attivi (non assorbita integralmente dal 30% del R.O.L. di competenza).
  22. V. Bassi, Art. 96 (Interessi passivi), in Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cura di G. Tinelli, Padova, 2009, pag. 830.
  23. Anche per il caso in cui queste imprese abbiano optato per il consolidato fiscale nazionale è stato previsto un regime specifico: è riconosciuta l’integrale deducibilità dell’ammontare degli interessi passivi maturati tra i soggetti partecipanti al consolidato fiscale (interessi c.d. infragruppo) fino a concorrenza dell’ammontare degli interessi passivi maturati dai soggetti del consolidato a favore di soggetti terzi ed estranei al perimetro di consolidamento.
  24. Peraltro, la sussistenza di due distinti regimi di deducibilità, uno più restrittivo per i soggetti IRES e uno, più favorevole, per le imprese IRPEF, ha reso necessaria l’introduzione di ulteriori disposizioni volte a prevenire eventuali comportamenti elusivi delle società di capitali tesi a concentrare il sostenimento degli interessi passivi su società di persone partecipate, così da sottrarre tali interessi alla disciplina IRES, e consentirne la deduzione, in capo alle società di capitali socie, sotto forma di perdite attribuite per trasparenza dalle società partecipate. Il comma 6 dell’art. 101 t.u.i.r. stabilisce ora che le perdite attribuite per trasparenza dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice non sono più utilizzabili dai soci società di capitali ed enti commerciali residenti in diminuzione del proprio reddito, bensì solo in abbattimento degli utili attribuiti per trasparenza nei successivi cinque periodi di imposta dalla stessa società che ha generato le perdite. Il vincolo all’utilizzo della perdita equipara sostanzialmente la situazione della società partecipata, in deficit per effetto degli interessi passivi, a quello della presenza di interessi passivi in capo alla partecipante. La stessa regola è stata estesa anche alle società e agli enti commerciali non residenti, senza stabile organizzazione in Italia, che partecipano in società di persone residenti. Quando, invece, siano un imprenditore individuale o una società di persone a partecipare alla società commerciale di persone, ai sensi dell’art. 56, co. 2, t.u.i.r., le perdite della società partecipata restano pienamente compensabili con i redditi dell’imprenditore individuale o della società di persone. In tali casi, non sussiste la necessità di predisporre meccanismi antielusivi, posto che le società di persone e gli imprenditori individuali deducono gli interessi passivi dal reddito d ’ impresa con le medesime regole e, dunque, come precisato nella relazione di accompagnamento, ”in tal caso non si può verificare l’elusione che ha determinato la modifica del citato comma 6 dell’art. 101“.
  25. Sul tema G. Escalar, Gli oneri finanziari soggetti ai nuovi limiti di deducibilità dall’imponibile IRES ed IRAP , in Corr. trib., 2009, pag. 1664.
  26. Sul tema S. La Rosa, La capitalizzazione sottile, in La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete , a cura di F. Paparella, Milano, 2006, pag. 91; L. Del Federico, La thin capitalization, in Imposta sul reddito delle società (IRES), opera diretta da F. TESAURO, Bologna, 2007, pag. 493; M. Beghin, La thin capitalization, in L’I.Re.S. due anni dopo: considerazioni, critiche e proposte – libro bianco , a cura di A.N.T.I. , Associazione nazionale tributaristi italiani, Milano, 2005, pag. 79.
  27. Si intendeva come tale il socio che  direttamente o indirettamente controlla ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. la società debitrice o è in possesso di una partecipazione diretta o indiretta al capitale sociale in misura pari o superiore al 25%.
  28. Erano considerate ”parti correlate al socio qualificato” le società da questo controllate ai sensi dell ’ art. 2359 cod. civ. e, laddove si trattava di socio persona fisica, anche il coniuge ed i parenti entro il terzo grado oltre che gli affini entro il secondo grado.
  29. La normativa italiana in tema di thin capitalization aveva, nel panorama europeo, un campo di applicazione estremamente ampio in quanto, differentemente dalle analoghe discipline previste in altri Paesi dell’Unione Europea, per tenere doverosamente conto di quanto affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, si applicava a prescindere dal luogo di residenza dei soci. Ci si riferisce alla sentenza 12 dicembre 2002, Causa C-324/00Lankhorst-Hohorst GmbHc/Finanzamt Steinfurt ed alla sentenza del 18 settembre 2003, Causa C-168/01Bosal, dalle quali si ricava il principio di diritto per cui condizionare l’applicazione delle norme anti - thin capitalization al fatto che gli interessi dedotti siano tassati nello stesso Stato viola il diritto comunitario. Sul tema A. Comelli , Sul contrasto all’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione  in Dir. prat. trib., 2004, pag. 249; A. Contrino, La normativa fiscale di contrasto della ” thin capitalization”, in Dir. prat. trib., 2005, pag. 1235.
  30. I finanziamenti rilevanti ai fini dell’applicazione della thin capitalization erano ”quelli derivanti da mutui, da depositi di denaro e da ogni altro rapporto di natura finanziaria”. Invece i finanziamenti garantiti erano i finanziamenti assistiti da garanzie reali, personali o di fatto fornite anche con comportamenti o atti giuridici non qualificabili come prestazioni di garanzia ma che, dal punto di vista della sostanza economica, realizzano i medesimi risultati.
  31. Nello stesso senso è intervenuta la coeva riforma del diritto societario attuata con il il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Questa, con l’art. 2467 cod. civ., ha introdotto, per le società a responsabilità limitata, alcune penalizzazioni in tema di finanziamenti dei soci. Il primo comma stabilisce, infatti, che il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e che se il rimborso è avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società deve essere restituito. Con tale disposizione, i finanziamenti dei soci vengono assimilati ai conferimenti di capitale, tanto che l’organo amministrativo che dispone un loro rimborso deve prestare attenzione a non pregiudicare il diritto degli altri creditori a ricevere il rimborso, onde non commettere un illecito. Il secondo comma, inoltre, stabilisce che si considerano, per presunzione assoluta, ai fini dell’applicazione di quanto stabilito nel primo comma, finanziamenti dei soci, quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.
  32. R. Lupi, Prime osservazioni in tema di Thin Capitalization, in Rass. trib., 2003, pag. 1493; D. Stevanato, Indeducibilità degli interessi passivi e ” genuinità  del finanziamento: istanza di disapplicazione preclusa?, in Corr. trib., 2008, pag. 2694.
  33. La norma in esame risultava riferita solo ad un numero limitato di imprese, dal momento che erano state escluse sia tutte quelle soggette agli studi di settore, sia quelle che aderivano al consolidato. Il riferimento alle ”autonome capacità di credito”risultava poi particolarmente difficile da dimostrare. La norma era inoltre asistematica : andava oltre la sua originaria natura, dopo le modifiche indotte dalla sentenza Lankhorst-Hohorst GmbH (C-324/00), che aveva impedito di restringere l’applicazione della norma ai soci finanziatori non residenti.
  34. F. Pistolesi, La ”Dual Income Tax” - Commento al decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 466 , in Dir. prat. trib., 1998. pag. 701.
  35. Il comma 1 dell’art. 1, d.lgs. n. 466 del 1997 fu poi modificato nel senso di prevedere l’applicazione del meccanismo DIT secondo un moltiplicatore dell’aumento di capitale investito. Il risultato era un potenziamento del meccanismo DIT (rinominata Super DIT), volto ad accelerare l’avvicinamento della variazione in aumento del capitale investito al valore del patrimonio netto contabile, che rimaneva il limite massimo di commisurazione dell ’ agevolazione. Tale potenziamento veniva ottenuto disponendo che la variazione in aumento del capitale investito, calcolata nel modo sopra indicato, fosse incrementata del 20% per l’esercizio successivo a quello in corso al 30 settembre 1999, e del 40% per gli esercizi seguenti.
  36. Sui profili tecnici G. Ricotti, Potenzialità effettive della Dit quale strumento di riduzione della pressione tributaria , in Rass. trib., 2000, pag. 487.
  37. Il capitale investito alla chiusura dell’esercizio in corso al 30 settembre 1996 era costituito dal patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, senza tenere conto dell’utile dell’esercizio 1996. La variazione in aumento di tale patrimonio netto veniva misurata come somma algebrica degli incrementi e decrementi di patrimonio netto derivanti da fattori indipendenti dalla volontà dell’impresa.
  38. Il coefficiente di remunerazione ordinaria dell’incremento patrimoniale era determinato ogni anno con decreto del Ministro delle Finanze, di concerto con il Ministro del Tesoro, tenendo conto dei rendimenti finanziari medi dei titoli di Stato, aumentabili fino al 3% a titolo di compensazione del maggior rischio.
  39. Il contrasto al ricorso all’indebitamento delle imprese era poi completato con l’art. 7, d.l. 20 giugno 1996, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1996, n. 425, che prevedeva un prelievo alla fonte nella misura del 20% sui proventi afferenti operazioni triangolari consistenti nel deposito, da parte di un non imprenditore, di denaro, di valori mobiliari e di altri titoli diversi dalle azioni (e da titoli similari) a garanzia di finanziamenti concessi dalla banca alle imprese.
  40. R. Lupi, L’Irap tra giustificazioni costituzionali e problemi applicativi, in Rass. trib., 1997, pag. 1407; M. Iavagnilio, F.Trutalli, Irap e dual income tax. Un approccio indiretto alla thin capitalization. Effetti della riforma fiscale sulle scelte di finanziamento delle imprese multinazionali, in Il Fisco, 1998, pag. 5038.
  41. G. D’Abruzzo, Il contrasto all’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione nel Tuir riformato. Analisi delle scelte legislative ed inquadramento sistematico, in Rass. trib., 2004, pag. 828.
  42. È peraltro in vigore l’art. 46 t.u.i.r. , ai sensi del quale ”le somme versate alle società commerciali e agli enti di cui all ‘articolo 73, comma 1, lettera b), dai loro soci o partecipanti si considerano date a mutuo se dai bilanci o dai rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo“. Esso introduce la regola per cui le somme versate dai soci si presume siano date a mutuo (capitale di debito), salvo che il contribuente non fornisca propria contraria. Questa norma risulta interpretata rigorosamente dalla giurisprudenza (cfr. Cass., sent. 20 novembre 2001, n. 14573) secondo cui, ad esempio, non vale a superare la relativa presunzione neppure la circostanza che la società sia a ristretta base sociale, ovvero familiare, come pure che non risultino erogati interessi ai soci sulla base del bilancio. Tali somme concorrono alla determinazione del reddito complessivo, salva l’applicazione ai sensi dell’art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600 del 1973, di una ritenuta a titolo di acconto dovuta, come chiarito in giurisprudenza (cfr. Cass., sent. 4 aprile 2008, n. 8747; Cass., sent. 4 maggio 2001, n. 6257), indipendentemente dalla materiale erogazione degli interessi stessi. Tale norma dimostra, quindi, tra le due possibili qualificazioni, una preferenza per il legislatore per quella che ritiene le somme fornite da un socio come date a titolo di capitale di debito, piuttosto che a titolo di capitale di rischio. In dottrina L. Castaldi, Redditi di capitale, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L  imposta sul reddito delle persone fisiche , diretta da F. TESAURO, I, Torino, 1994, pag. 250; F. Padovani, A rt. 46 (Versamenti dei soci), in Commentario breve alle leggi tributarie, di G. Falsitta, A. Fantozzi, G.Marongiu, F. Moschetti, Tomo III – TUIR e leggi complementari, a cura di A. Fantozzi, Padova, 2010, pag. 237; A. Piri, Art. 46 (Versamenti dei soci) , in Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi , a cura di G. Tinelli, Padova, 2009, pag. 363.
  43. T. Di Tanno, A rt. 116 (Interessi passivi), in Commentario breve alle leggi tributarie , di G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Tomo III – TUIR e leggi complementari, a cura di A. Fantozzi, Padova, 2010, pag. 502; D. Stevanato, Indeducibilità degli interessi passivi e ” genuinità  del finanziamento: istanza di disapplicazione preclusa?, in Corr . trib., 2008, pag. 2694.
  44. S. BIASCO, La nuova riforma dell’imposizione sulle imprese a confronto con le conclusioni della Commissione sull’Ires, in Il Fisco, 2007, pag. 6203.
  45. Si consideravano similari alle obbligazioni anche ”i buoni fruttiferi emessi da società esercenti la vendita a rate di autoveicoli, autorizzate ai sensi dell’articolo 29 del regio decreto legge 15 marzo 1927, n. 436, convertito dalla legge 19 febbraio 1928, n. 510 ”.
  46. A tal fine, la legge 24 novembre 2003, n. 326, in sede di conversione del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, ha introdotto, nell’art. 39, il comma 14-octies, con il quale è stato integrato l ’art. 10 della legge 7 aprile 2003, n. 80, per disporre che i decreti legislativi di attuazione degli articoli 3 e 4 tenessero conto della riforma del diritto societario attuata con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6.
  47. In estrema sintesi e per quanto qui di interesse, si ricorda che la riforma societaria, al fine di facilitare il reperimento di risorse finanziare da parte delle società di capitali, ha ampliato le loro possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi e non, concedendo all’autonomia privata il più ampio spazio possibile. La disciplina codicistica, ora, non pone limiti ai contenuti dei diritti patrimoniali che possono essere riconosciuti ai titolari dei nuovi strumenti finanziari, sicché questi possono essere meglio conformati alle caratteristiche negoziali dei finanziamenti e degli apporti sottostanti. In definitiva, è affidata all’autonomia privata, come espressa nello statuto della società, la possibilità di prevedere forme di remunerazione variamente collegate agli utili d ’ impresa e di regolare la restituzione di un apporto connotandolo come un vero e proprio finanziamento, ovvero inserendolo in un rapporto associativo caratterizzato dalla condivisione dei rischi d’impresa (G. Visentini, Principi di diritto commerciale, Padova, 2006, pag. 262). È stato così accresciuto il numero degli strumenti a cui le imprese possono ricorrere per la raccolta diretta di capitale , da un lato permettendo loro di apportare deroghe alle tradizionali categorie delle azioni e delle obbligazioni (fino addirittura a offuscare le differenze tra le due categorie di valori mobiliari), dall ’ altra attribuendo la facoltà di emettere anche altri strumenti finanziari, diversi dalle azioni e dalle obbligazioni. La maggiore novità introdotta dal d.lgs. n. 6 del 2003 consiste, quindi, nell’introduzione della categoria degli strumenti finanziari i quali si situano tra le azioni e le obbligazioni. Si caratterizzano per essere emessi a fronte di apporti non imputati a capitale, seppur il bene apportato (denaro o beni in natura) sia astrattamente imputabile a capitale. La normativa utilizza, infatti, correttamente il termine apporto, non già il termine conferimento per indicare la natura del rapporto che si instaura tra emittente e sottoscrittore. Si tratta così di strumenti partecipativi che non attribuiscono la qualità di socio (in quanto non sono correlati al conferimento di valori imputati a capitale), pur potendo essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati (escluso in ogni caso il voto nell’assemblea generale), quali la nomina del consiglio di amministrazione o di un sindaco (art. 2351, comma 5, cod. civ.). Il sottoscrittore può vantare esclusivamente diritti patrimoniali (il diritto all’utile o alla liquidazione, ad una certa scadenza, del valore patrimoniale netto dell’apporto conferito) o anche diritti amministrativi (che attengono al funzionamento dell’organo assembleare e all’attività di gestione), ma non il diritto di partecipare al capitale sociale della stessa società.
  48. Amplius G. Corasaniti, Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni: dalla riforma del diritto societario alla riforma dell‘imposta sul reddito delle società, in Dir. prat. trib., 2003, pag. 875; M. Piazza, Azioni, obbligazioni e strumenti finanziari partecipativi nella riforma fiscale, in Il fisco, 2004, pag. 620; M. Basilavecchia, Gli utili da partecipazione in società non residenti, in Corr. trib., 2005, pag. 827.
  49. Oltre ancora ai buoni fruttiferi emessi da società esercenti la vendita a rate di autoveicoli, autorizzate ai sensi dell ’ articolo 29 del R.d.l. 15 marzo 1927, n. 436, convertito dalla legge 19 febbraio 1928, n. 510.
  50. Sulle criticità dell’impostazione del legislatore cfr. G. Fransoni, Scelte di fondo e criticità nel sistema impositivo degli strumenti finanziari, in Strumenti Finanziari e Fiscalità, 2011, pag. 15.
  51. F. Gallo, Schema di decreto legislativo recante ”Riforma dell’imposizione sul reddito delle società” (Ires) – Audizione informale presso la Commissione finanze della Camera dei Deputati , in Rass . trib. , 2003, pag. 1661.
  52. E forme di tassazione per trasparenza. L’applicazione di tale meccanismo è stato confermato con riferimento alle società di persone ed è stato esteso alle società di capitali per opzione in presenza di specifici requisiti che, in estrema sintesi, si sostanziano nella ristrettezza della base proprietaria.
  53. P. Pistone, Il credito per le imposte estere ed il diritto comunitario: la Corte di giustizia non convince, (Nota a CGCE 12 maggio 1998 (causa C-336/96); CGCE 14 settembre 1998 (causa C-291/97)), in Riv. dir. trib. 2000, pag. 76.
  54. A. Di Pietro, La nuova disciplina dell’IRES: la tassazione dei redditi dei non residenti ed i principi comunitari, in La riforma dell’imposta sulle società, a cura di P. RUSSO, Torino, 2005, pag. 126.
  55. Corte di Giustizia CE, sent. 6 giugno 2000, Causa C-35 /98,Verkoijen, relativa ad una disposizione di legge di uno Stato membro che subordina la concessione di un’esenzione dall’imposta sul reddito alla condizione che tali dividendi siano versati da società aventi sede nel detto Stato membro; Corte di Giustizia CE, sent. 15 luglio 2004, Causa C-315/02Lenz,relativa ad una normativa che consente ai soli titolari di redditi da capitale di fonte interna di scegliere tra l ’ imposta cedolare del 25% e l’imposta ordinaria sul reddito con aliquota dimezzata; Corte di Giustizia CE, sent. 7 settembre 2004, Causa C-319/02Manninen, relativa ad una normativa ai sensi della quale il diritto di una persona residente al credito d’imposta sui dividendi versatigli da società per azioni sia escluso qualora queste ultime non abbiano sede nello stesso Stato.
  56. Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale; tassazione dei dividendi percepiti da individui nel mercato interno, Bruxelles, 12 dicembre 2003, n. COM(2003)810.
  57. Sul significato di detto termine cfr. Agenzia delle Entrate, Circolare 4 agosto 2006, n. 28; Agenzia delle Entrate, Circolare 6 ottobre 2010, n. 51.
  58. Si segnala solo un’eccezione con riferimento alle minusvalenze conseguite da società che sono integralmente indeducibili mentre le corrispondenti plusvalenze sono tassate per il 5%.
  59. Ciò risulta testualmente dall’art. 1, comma 38, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (c.d. Legge Finanziaria per il 2008) che, a seguito della riduzione dell’aliquota IRES dal 27,5% stabiliva che ”al fine di garantire l’invarianza del livello di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze, in relazione alla riduzione dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società disposta dal comma 1 del presente articolo, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze sono proporzionalmente rideterminate le percentuali di cui agli articoli 47, comma 1, 58, comma 2, 59 e 68, comma 3, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 ”Il successivo decreto ministeriale 2 aprile 2008 ha individuato nel 49,72% la quota di concorrenza al reddito degli utili da parte del socio qualificato, così da portare la tassazione complessiva socio – società al 43% sull’utile lordo.
  60. I redditi di capitali derivanti da interessi percepiti da persone fisiche residenti sono, infatti, imponibili indipendentemente dal luogo della loro percezione. Pertanto, sono imponibili non solo i redditi prodotti in Italia, ma anche quelli di fonte estera in quanto corrisposti da non residenti. Anche questi, in estrema sintesi, sono assoggettati a ritenute alla fonte o ad imposte sostitutive del 20%. L’Italia persegue così la finalità di assicurare per i suoi residenti una sostanziale indifferenza nell’ investimento in Italia o all’estero.
  61. L’imposta sostitutiva è applicata dalle banche, dalle società di intermediazione mobiliare, dalle società fiduciarie, dagli agenti di cambio e da altri soggetti espressamente indicati in appositi decreti del Ministro delle finanze di concerto con il Ministro del tesoro, residenti in Italia, che comunque intervengono nella riscossione degli interessi, premi ed altri frutti ovvero, anche in qualità di acquirenti, nei trasferimenti dei titoli.
  62. Sul tema cfr. V. Amendola Provenzano, P. di Felice, Il regime delle ritenute e delle imposte sostitutive sulle rendite finanziarie, in Strumenti Finanziari e Fiscalità, 2011, pag. 27.
  63. La descrizione delle regole di tassazione degli utili (derivanti da partecipazioni non qualificate) ed interessi, di plusvalenze e minusvalenze deve essere completata precisando che all’applicazione delle imposte sostitutive può provvedere direttamente il contribuente evidenziandole in dichiarazione (c.d. regime della dichiarazione) o l’intermediario presso cui sono depositate ed a cui è affidata l’amministrazione (c.d. regime del risparmio amministrato). Ai contribuenti è poi riconosciuta la possibilità di inserire tali titoli in gestioni individuali di portafoglio (c.d. regime del risparmio gestito). In questo caso è prevista una tassazione del 20% non sui compensi incassati, ma sul risultato maturato di gestione determinato come differenza del valore del patrimonio a fine anno rispetto al valore di inizio anno. Queste asimmetrie di trattamento rappresentano un’evidente violazione del principio di omogeneità. Tali disparità risultano ora accentuate se si guarda alle modalità di tassazione dei redditi derivanti dalle gestioni collettive di portafoglio. Si tratta della tassazione dei fondi mobiliari che si rinviene ora all ’ art. 26-quater, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo introdotto dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, di conversione del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225. Fino a tale modifica, la tassazione degli OICR di diritto italiano era commisurata al risultato della gestione e trovava applicazione un’imposta sostitutiva sul risultato maturato. L’imposta era prelevata sugli incrementi di valore registrati di anno in anno; i fondi fungevano da sostituti di imposta ed i sottoscrittori erano tassati sui proventi teorici, anche se non ancora realizzati con il disinvestimento (tassazione sul ”maturato”). Nel caso di andamento negativo della gestione, e quindi di maturazione di una perdita in capo al fondo, il previgente regime comportava l’ emersione di un credito di imposta in capo a quest ’ ultimo. È ora, invece, stata eliminata la tassazione sul maturato ed è stata introdotta una tassazione del 20% sui proventi realizzati, colmando lo svantaggio competitivo dei fondi italiani rispetto a quelli esteri. In particolare, è stato introdotto il predetto art. 26-quinquies , d.P.R. n. 600 del 1973 che prevede che, a decorrere dal 1° luglio 2011, i proventi derivanti dalla partecipazione a organismi di investimento collettivo del risparmio con sede in Italia, diversi dai fondi immobiliari, e quelli con sede in Lussemburgo, già autorizzati al collocamento in Italia, limitatamente alle quote o azioni collocate nel territorio dello Stato, saranno soggetti all ’ applicazione di una ritenuta del 20% all’atto della percezione. In questa maniera risulta che la tassazione sul risultato maturato di gestione è rimasta prerogativa delle gestioni individuali di portafoglio per le quali si è esercitata l’opzione per il risparmio gestito, mentre, al di fuori di tale ipotesi, l’intero sistema si appunta intorno alla tassazione nella misura del 20% sul redditi percepiti dall’investitore.
  64. Restano altresì esclusi gli interessi corrisposti da società italiane a società estere consociate (si tratta di società di altri Stati dell ’ Unione Europea destinatarie delle disposizioni di cui alla direttiva 2003/49/CE cui si applica una ritenuta alla fonte a titolo di imposta del 5%) e gli utili corrisposti a soggetti residenti nell’UE o in Paesi aderenti al SEE inclusi nella whitelist, soggetti alla ritenuta con aliquota ridotta dell’1,375%.
  65. Questi infatti erano tassati con aliquote del 12,5% o del 27% a seconda che i vari impieghi manifestassero o meno carattere speculativo. Erano indici di tale carattere: a) la durata dell’investimento: se di durata superiore a 18 mesi; b) la tipologia di emittente: si riteneva che i titoli emessi da società quotate o dallo Stato evidenziassero una minore propensione alla speculazione in quanto in tali casi era minima, se non nulla, possibilità di partecipazione del percettore alle politiche aziendali.
  66. S. Giannini, Gli interessi passivi nel quadro della tassazione societaria internazionale, cit., pag. 14.
  67. In Italia la tassazione progressiva sugli interessi si verifica nei limiti in cui opera l’art. 46 t.u.i.r. che, come chiarito in precedenza, presume che i versamenti dei soci siano qualificati quali mutui fruttiferi che concorrono integralmente alla determinazione del reddito complessivo del socio. Tale regola non opera però in tutti i casi (assolutamente frequenti e comuni nella prassi operativa) in cui il prestito è cartolarizzato in un titolo.
  68. Commissione di studio sull’imposizione fiscale delle società (c.d. Commissione Biasco, dal nome del Presidente) istituita con decreto del Vice Ministro dell’Economia del 27 giugno 2006.
  69. Commissione di studio sulla imposizione fiscale sulle società (c.d. Commissione Biasco), Relazione finale, disponibile sul sitointernet del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento per le politiche fiscali.
  70. In particolare Cass., Sez. Un., sent. 23 dicembre 2008, n. 30055; Cass., Sez. Un., sent. 23 dicembre 2008, n. 30057.
  71. Cass., sent. 21 gennaio 2011, n. 1372.
  72. Mediante l’intervento normativo in questione il legislatore ha stabilito l’indeducibilità delle ”minusvalenze realizzate ai sensi dell  articolo 101 sulle azioni, quote e strumenti finanziari similari alle azioni che non possiedono i requisiti di cui all’articolo 87 … fino a concorrenza dell’importo non imponibile dei dividendi, ovvero dei loro acconti, percepiti nei trentasei mesi precedenti il realizzo. Tale disposizione si applica anche alle differenze negative tra i ricavi dei beni di cui all’articolo 85, comma 1, lettere c) e d), e i relativi costi“. In altri termini ha disposto l’indeducibilità delle minusvalenze realizzate a seguito della cessione di azioni, quote e strumenti finanziari similari alle azioni se: 1) la cessione ha ad oggetto titoli partecipativi posseduti da meno di trentasei mesi che al contempo: a) non rientrino nel regime di participation exemption (essendo, come noto, fiscalmente irrilevante ogni minusvalenza, o differenza negativa, conseguita con riferimento alla cessione di questi ultimi); b) presentino, in ogni caso, i requisiti cosiddetti di natura oggettiva richiesti per l’applicazione del regime di participation exemption, relativi alla residenza fiscale della società partecipata ed all’attività da questa esercitata; 2) nei trentasei mesi precedenti la cessione, il titolo alienato abbia dato luogo alla distribuzione di dividendi.