Le sfide del finanziamento a mezzo indebitamento e a mezzo capitale di rischio – e come la Germania è andata sopra le righe
1. Introduzione
Finanziare una società con capitale di rischio piuttosto che facendo ricorso all’indebitamento comporta un regime fiscale del tutto diverso per quanto riguarda sia gli investitori, sia la società stessa. Di conseguenza, non sorprende che, nella pratica fiscale di tutti i giorni e anche occasionalmente per quanto concerne i c.d. schemi abusivi, sia importante la scelta tra indebitamento e capitalizzazione. L’aspetto essenziale del presente articolo, pertanto, è quello di identificare le esigenze di politica fiscale derivanti da detta scelta.
Particolare attenzione deve essere prestata al finanziamento transnazionale. In questo caso, specificamente, le differenze di aliquota forniscono delle opportunità di pianificazione fiscale che possono, in assenza di una legislazione difensiva, condurre anche a pratiche abusive. In particolare, ciò risulta esser e vero nei casi di c.d. “thin capitalization” e di “fat capitalization”, vale a dire, da un lato ipotesi di sotto-capitalizzazione di società controllate residenti appartenenti a gruppi societari esteri (thin capitalization) e, dall’altro lato, ipotesi di iper-capitalizzazione di società finanziarie controllate estere, appartenenti a gruppi societari nazionali (fat capitalization).
Tali schemi, tuttavia, devono essere chiaramente distinti dalla semplice capitalizzazione di gruppi industriali nazionali che abbiano società controllate sia nazionali che estere, i quali debbano affrontare esigenze finanziarie per le proprie attività economiche sia nazionali, sia estere. In tal senso, la c.d. barriera alla deducibilità degli interessi (Zinsschranke), strumento internazionale del tutto nuovo, recentemente introdotto dal legislatore tedesco per limitare la deducibilità fiscale degli interessi passivi [2], dovrebbe essere urgentemente modificata [3].
Sfortunatamente, il regime del c.d. capitale di fuga (in teoria destinato a fornire una deduzione illimitata di interessi passivi ai gruppi societari che finanziano le proprie operazioni in Germania con capitale pari almeno all’ammontare medio del capitale dell’intero gruppo) non ha potuto eliminare gli effetti devastanti derivanti dalla c.d. “riduzione dei valori di libro” (Beteiligungsbuchwertkuerzung).
Ciò risulta vero, nonostante il fatto, ben noto anche all’Amministrazione Fiscale tedesca, che, praticamente, nessun gruppo societario con sede in Germania può avvalersi del suddetto regime del capitale di fuga. Di conseguenza, sempre teoricamente, a tutti i gruppi societari tedeschi è negata la deduzione integrale degli interessi anche se, presumibilmente, la maggior parte di detti gruppi effettua un finanziamento attraverso il valore “medio” del capitale di rischio all’interno del proprio stato di residenza. Una modifica dell’art. 4h della Legge tedesca in materia di imposte sui redditi [4] (ITA, Einkommensteuergesetz) perciò resta uno dei compiti più urgenti della politica fiscale societaria in Germania.
2. Distinguere debito e capitale di rischio in Germania
Distinguere tra finanziamento con ricorso al capitale di rischio e con ricorso al debito ai fini della legislazione fiscale tedesca è abbastanza semplice. Ciò, perchè la legislazione fiscale a tale riguardo generalmente segue la distinzione operata dal Codice del Commercio tedesco (Handelsgesetzbuch [5]), il quale prevede regole semplici e coerenti per quanto concerne i due suddetti tipi di finanziamento (soprattutto in confronto a quanto previsto, ad esempio, negli Stati Uniti, dove la giurisdizione tributaria applica numerosi tests per individuare la tipologia di finanziamento [6]).
Le caratteristiche fondamentali del capitale di rischio sono la postergazione (nel caso di insolvenza, è l’ultimo debito ad essere soddisfatto), la “sostenibilità” (non vi alcun diritto di recesso e perciò si tratta di un impegno a tempo indeterminato) e la partecipazione a perdite e profitti della società [7].
Un regime fiscale speciale è previsto solo dall’art. 8(3)(2) della Legge tedesca in materia di imposte sui redditi [8] (CTA, Körperschaftsteuergesetz). Ai sensi di tale disposizione, i pagamenti si considerano effettuati a debito (e perciò non costituiranno remunerazione di capitale e viceversa) a meno che non vi sia una partecipazione agli utili della società ed ai proventi derivanti dalla liquidazione della stessa. Di conseguenza, salvo che si tratti di uno strumento per partecipare alle riserve occulte della società, i pagamenti saranno qualificati “interessi” (finanziamento a debito).
3. Come si tassa il capitale di rischio ed il finanziamento a debito in Germania
3.1. Deduzione in capo al pagante, tassazione in capo al beneficiario – Simmetria solo in linea di principio
Perché è utile valutare l’impatto fiscale che determina l’impiego di capitale di rischio, piuttosto che di capitale “a debito”? La ragione dipende dal differente regime fiscale dei pagamenti effettuati in forza di finanziamenti in conto capitale, ovvero a debito, per quanto riguarda sia il pagante, sia il beneficiario.
In generale, cioè nei limiti di quanto previsto da specifiche disposizioni anti-abuso, gli interessi passivi sono deducibili, se sono funzionali al finanziamento per le attività produttive ed il loro pagamento riduce la capacità contributiva del pagante. Il principio del reddito netto impone, infatti, la loro deducibilità.
Distribuire utili come dividendi, tuttavia, non è riconducibile alla realizzazione di reddito. La percezione di una fonte di reddito, anche ad esempio il profitto di una società, è un importo netto e perciò viene considerato base imponibile ai fini delle imposte sui redditi.
La deducibilità, ovvero non deducibilità, della remunerazione del capitale, ovvero del debito, generalmente ha la sua contropartita sul versante del percipiente, posto che tale simmetria dovrebbe essere la precondizione per un “sistema normativo fiscale neutrale”. Gli interessi deducibili dal reddito del pagante dovrebbero essere generalmente interamente tassati in capo al beneficiario. Al contrario, i dividendi non dovrebbero essere tassati (quanto meno non con aliquota ordinaria) dal momento che sono già stati assoggettati a tassazione in capo alla società che li ha distribuiti.
A prima vista, questa interazione tra deducibilità fiscale da u n lato e tassazione dall’altro appare essere simmetrica, prevenendo, sin da subito e sistematicamente, l’utilizzo di schemi abusivi. Tuttavia, tale simmetria risulta spesso non così perfetta. Mentre tali problemi sorgono generalmente in contesti transnazionali (e ciò è dovuto alla differenza di aliquote tra Stati), almeno per quanto concerne la Germania, deve rilevarsi che l’assenza di simmetria risulta vera anche in un contesto meramente interno, vale a dire nell’ipotesi del c.d. Abgeltungssteuer.
3.2. Solo il 25% di imposta sul reddito di capitale (Abgeltungssteuer)
L’Abgeltungssteuer è stato introdotto in Germania il primo gennaio 2009 e prevede l’applicazione di un’aliquota del 25% sul reddito dei privati derivanti dall’impiego di capitale, art. 32d ITA [9]. Questa imposta (a cui va aggiunta una sovrattassa fino al 3%) è dovuta indipendentemente dalle caratteristiche fiscali del beneficiario (come spese di gestione o perdite riportate in avanti) e viene riscossa da un istituto di credito. Di conseguenza, un contribuente non è, di solito, tenuto a inserire il proprio reddito da capitale nella dichiarazione dei redditi.
In questo modo, può giustificarsi il basso livello di tassazione del 25% (in rapporto a quella che è l’aliquota sul reddito personale applicata in Germania, che può raggiungere anche il 45%) sia sui dividendi sia sugli interessi attivi. Con riguardo alla remunerazione del capitale di rischio (vale a dire, il reddito derivante dai dividendi), l’aliquota ridotta tiene conto del fatto che i dividendi hanno già scontato un’imposta in capo alla società distributrice. Coordinando l’aliquota del 30% prevista per le società e per le attività produttive con l’aliquota del 25% sul rimanente 70% per i dividendi distribuiti a persone fisiche, il risultato complessivo è un’aliquota del 47.5%, che si avvicina abbastanza all’aliquota ordinaria del 45%. Con riguardo, invece, alla remunerazione del finanziamento a debito (vale a dire, il reddito derivante dagli interessi attivi), l’aliquota ridotta dimostra che una parte significativa del reddito pari all’interesse nominale applicato è, comunemente, non un reddito “reale”, ma solo compensativo dell”inflazione. Con un tasso d’interesse del 6% ed un tasso d’inflazione del 3%, un’imposta del 25% di 60, in realtà, si traduce in un onere fiscale del 50% sul “reale” guadagno del patrimonio netto , vale a dire che il reddito, al netto dell’inflazione, sarà pari a 30.
Nonostante il fatto che le imposte del 25%, sui redditi da dividendi e su quelli da interessi attivi possano, da sole, abbastanza facilmente essere giustificate, la loro combinazione si presta ad un uso abusivo, anche a livello interno. In primo luogo, ciò si verifica perché gli interessi corrisposti non sono assoggettati a tassazione in capo alla società, mentre i dividendi distribuiti lo sono e, in secondo luogo, perché soprattutto nelle società controllate e/o strettamente collegate, i finanziamenti a debito e con capitale rischio possono essere facilmente fungibili. Perciò, il legislatore fiscale tedesco è stato ben consigliato nel limitare il campo di applicazione dell’imposta del 25% ai pagamenti di interessi in un contesto che vede coinvolte terze parti. Gli interessi sui mutui erogati da un socio al 10%, infatti, sono soggetti all’aliquota ordinaria, che, come detto, può raggiungere anche il 45% [10].
3.3. Nessuna ritenuta alla fonte sugli interessi in uscita
In Germania, così come forse in tutti gli Stati OCSE [11], manca anche una simmetria tra la deducibilità degli interessi in capo al pagante e la riscossione a mezzo ritenuta in nome e per conto del beneficiario. In generale, e cioè al di fuori degli obiettivi previsti dalle disposizioni in materia di thin capitalization o di altre norme anti-evasione, gli intessi corrisposti ad una banca straniera ovvero ai titolari di obbligazioni sono deducibili per il pagante (si tratta dei c.d. interessi passivi derivanti da prestiti erogati da un terzo). Il pagamento degli interessi in uscita, tuttavia, non è soggetto ad alcuna ritenuta. Per tale ragione, gli interessi corrisposti ad obbligazionisti localizzati in paradisi fiscali (come i fondi di investimento nelle Isole Cayman) o ai fondi pensione americani (comunemente esenti da imposta) non sono soggetti ad alcuna imposizione – sono deducibili in capo al pagante e non sono soggetti a tassazione in capo al beneficiario.
In certi casi, l’assenza di imposizione a livello del beneficiario (accompagnata dall’assenza di qualsiasi ritenuta alla fonte) ha perfettamente senso. Può esserci un fondo d’investimento in un paradiso fiscale che sostiene costi di gestione (per esempio, per il finanziamento dei prestiti obbligazionari) in misura pari agli interessi che riceve. Secondo il principio del reddito netto, il reddito da interessi di tale fondo d’investimento non dovrebbe essere soggetto a tassazione (ritenuta). Ancora, gli interessi corrisposti ad un fondo pensione esente da imposte saranno eventualmente tassati, e per l’intero, ma solo dopo anni, quando verranno distribuiti ai pensionati. In tal caso, infatti, si tratterà di un reddito derivante da pensione e come tale integralmente imponibile.
Tale assenza di simmetria, tuttavia, esiste anche in molti altri casi che rendono necessarie pianificazioni fiscali. Anche se la Germania ed altri Stati OCSE volessero mettere fine a questa situazione introducendo una ritenuta alla fonte non solo sugli interessi corrisposti agli obbligazionisti nazionali, ma anche su quelli in uscita, non sarebbero liberi di farlo.
In primo luogo, all’interno del Mercato Comune, qualsiasi ritenuta tra due società direttamente collegate e localizzate in diversi Stati Membri dell’Unione Europea è vietata dal diritto comunitario, ed in particolare dall’art. 1, co. 1 della Direttiva 2003/49/CE [12]. Se, per esempio, una società finanziaria olandese emettesse obbligazioni al pubblico e accendesse un mutuo in favore di una controllata tedesca, la Direttiva 2003/49/CE non permetterebbe alla Germania di introdurre una ritenuta su tali pagamenti intra-gruppo. Salva l’ipotesi in cui anche l’Olanda (e tutti gli altri Stati Membri dell’Unione Europea) decidesse di applicare una ritenuta alla fonte sui pagamenti di interessi in uscita, la Germania non potrà, in pratica, prevedere alcuna ritenuta alla fonte per gli interessi corrisposti a soggetti stranieri.
In secondo luogo, in Germania (ed in quasi tutti i paesi OCSE), una fitta rete di Trattati fiscali, conclusi in conformità al Modello di Convenzione OCSE non renderebbe applicabile una ritenuta sugli interessi in uscita (ovviamente per quanto concerne “esclusivamente” gli investitori che hanno diritto di avvalersi dei benefici del trattato). L’art. 11 del Modello di Convenzione OCSE [13] (ed analogamente il Modello di Convenzione U.S.A. [14]) riconosce un diritto esclusivo allo Stato di residenza di tassare gli interessi corrisposti, senza lasciare alcuna possibilità all’applicazione di qualsivoglia tipo di ritenuta da parte dello Stato della fonte.
Terzo, e forse più importante, una ritenuta sugli interessi in uscita non sembra essere economicamente flessibile. Fin tanto che esisteranno investimenti alternativi all’estero (con ritenuta esente), una società con sede legale in uno Stato che applichi la ritenuta in uscita sugli interessi pagati avrebbe molti problemi pratici ed un grave costo in termini di efficienza circa l’allocazione di fondi sui mercati finanziari internazionali (cosa che resterebbe presumibilmente vera anche per lo stesso Stato quando le obbligazioni statali e/o governative non sono soggette a tale ritenuta). Perché un investitore dovrebbe preferire un tasso di ricavo ridotto in forza dell’applicazione di una ritenuta quando vi sono altri strumenti di debito che permettono di ottenere interessi senza alcun aggravio fiscale?
In conclusione, l’antica pratica di astenersi dal tassare gli interessi corrisposti nello Stato della fonte è probabile che risulti, almeno nel breve e medio periodo, l’unica praticabile, per ragioni sia giuridiche, sia economiche. Pertanto, l’asimmetria circa la deducibilità e l’assenza di ritenuta nelle operazioni transnazionali continuerà a costituire un’importante sfida per i legislatori di tutto il mondo.
3.4. Un concetto alternativo: vantaggi per la deduzione di capitale
Un approccio alternativo a quello di tassare il reddito, risolverebbe il problema di simmetria. In un sistema di imposta sul reddito che non impone il tasso normale di rendimento del capitale, vale a dire un tasso di rendimento senza rischi (trattandosi di una mera remunerazione per rinviare i consumi attuali al futuro), sarebbe coerente non tassare il reddito da interessi attivi. Di conseguenza, non ci sarebbe discordanza tra la deducibilità fiscale in capo al pagante e l’assenza di tassazione per il beneficiario. Perciò, la mancanza di ritenuta sugli interessi pagati in uscita non causerebbe nessuna asimmetria all’interno del sistema ma, esattamente all’opposto, sarebbe effettivamente una necessità per garantire la simmetria del sistema.
La politica fiscale che giustifica una deduzione del capitale apportato è quella secondo cui i risparmi derivano da redditi già tassati. Tassare il rendimento di un investimento effettuato con moneta già tassata si rivelerebbe un aggravio fiscale per il contribuente che, piuttosto che spendere detta moneta, l’abbia risparmiata.
Gli studiosi di diritto tributario si sono confrontati per centinaia di anni sul fatto che tassare il reddito da capitale fosse qualificabile come “doppia imposizione” [15]. Il presente articolo vuole solo sottolineare che un vantaggio per il capitale di rischio potrebbe tramutarsi in una asimmetria causata dall’assenza di ritenuta sugli interessi in uscita. Nel contesto degli affari commerciali, una deduzione sul capitale non permetterebbe, da un lato, alcuna deduzione degli interessi corrisposti, ma, dall’altro lato, neanche la riduzione del patrimonio netto indicato in bilancio, moltiplicato per il valore di un rendimento privo di rischio, per esempio per il 3%. Se questo fosse il caso, né gli interessi corrisposti, né i dividendi distribuiti (nella misura in cui non superino il tasso normale di rendimento) sarebbero soggetti a tassazione in capo al pagante. Dal momento che nessuno di essi sarebbe tassato in capo al beneficiario, non vi sarebbe asimmetria da valorizzare ai fini di una pianificazione fiscale.
Inoltre, in mancanza di ritenuta sugli interessi in uscita, l’unica alternativa concepibile per ristabilire una simmetria potrebbe essere quella di negare la deducibilità fiscale di tutti gli interessi passivi. In quel caso, gli interessi corrisposti, ed i dividendi distribuiti, riceverebbero il medesimo trattamento in capo al pagante: nessuno di loro sarebbe deducibile. Negare la deduzione per gli interessi passivi, tuttavia, chiaramente violerebbe il principio di capacità contributiva che ha, almeno in Germania, portata costituzionale [16] (derivante dal principio di uguaglianza di cui all’art. 3 co. 1 della Costituzione tedesca [17], Grundgesetz). Dal momento che molti Stati non sarebbero, probabilmente, disponibili a negare la deducibilità degli interessi passivi (o, anche se fossero disponibili, lo farebbero nel rispetto dei propri vincoli costituzionali), neanche in favore di una deduzione sul capitale di rischio, il legislatore fiscale, più probabilmente, continuerà ad affrontare le sfide connesse all’assenza di simmetria sulla tassazione dei finanziamento con indebitamento o con ricorso al capitale di rischio. Il problema evidenziato è sempre quello per cui gli interessi sono tassati con aliquote più basse in alcuni Stati, rispetto ad altri. Questo permette l’arbitraggio fiscale, in particolare attraverso fenomeni di thin capitalization o iper-capitalizzazione (la c.d. “fat capitalization“) degli enti. Tali fenomeni saranno descritti nei paragrafi IV e V.
4. La Thin Capitalization in Germania
4.1. Finanziamento con ricorso all’indebitamento nei gruppi di società (art. 8a CIT, versione abrogata)
Lo scenario fiscale interessato dal regime della thin capitalization è piuttosto semplice. Per poter dedurre di interessi passivi (al fine di ridurre i profitti imponibili) in uno Stato con un livello di tassazione piuttosto elevato, una società madre straniera (o un soggetto ad essa correlato) eroga un prestito transnazionale alla società figlia residente. Dal momento che i prestiti erogati da soci, da un lato, ed i versamenti in conto capitale, dall’altro, sono giuridicamente ed economicamente intercambiabili, gli interessi passivi versati dal residente possono essere aumentati in modo pressocchè arbitrario, qualora non vi siano disposizioni tributarie atte a contrastare tale fenomeno.
Inizialmente, le autorità fiscali tedesche hanno provato a contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione abusiva utilizzando la previsione generale anti-abuso di cui all’art. 42 del Codice di Diritto Tributario Tedesco [18]. La corte federale tributaria (Bundesfinanzhof) ha, tuttavia, ritenuto che un contribuente abbia diritto di erogare un finanziamento sia a soggetti con i quali non abbia alcun rapporto, sia a società nelle quali possiede una partecipazione, in quanto un socio può finanziare le attività della società cui partecipa sia con capitale di rischio che attraverso prestiti. [19] Per evitare che i profitti delle società tedesche partecipate da società straniere vengano del tutto fagocitati con il pagamento di interessi passivi su prestiti transnazionali, nel 1994 è stato introdotto l’art. 8a nel CIT, modellato su quanto altri Stati avevano fatto in materia di thin capitalization [20]. L’idea di base era che gli interessi passivi corrisposti a società di un gruppo oltre una certa soglia (per esempio, se il prestito del socio eccedeva il capitale di rischio della società per più del 150%) fossero finalizzati a distribuire, in modo artificiale, il capitale di rischio ed i prestiti all’interno di un gruppo societario e, pertanto, non sarebbero stati deducibili.
4.2. Una barriera per la deducibilità degli interessi passivi anche nei confronti di terzi (art. 4h ITA, art. 8a CIT versione vigente)
A partire dal 2008, la Germania non ha più seguito la pratica applicata nel “mercato” internazionale in materia di thin capitalization. Il regime tedesco ora si applica a qualsiasi pagamento di interessi passivi, indipendentemente dal fatto che si tratti di interessi passivi derivanti da finanziamenti erogati da soci ovvero da soggetti terzi e non più solo a quelli erogati all’interno di un gruppo.
a) Deduzione totale degli interessi per un a mmontare inferiore all’ammontare medio del capitale di rischio
Tecnicamente, il nuovo sistema tedesco di deduzione degli interessi passivi (chiamato Zinsschranke) funziona in questo modo: di norma, gli interessi passivi (per prestiti erogati sia all’interno di un gruppo, sia da terzi) sono deducibili solo nei limiti in cui non eccedono il 30% del reddito del soggetto residente al lordo di interessi, imposte, svalutazioni ed ammortamenti (c.d. EBITDA, corrispondente all’incirca al nostro ROL). Tale limitazione non si applica, tuttavia, qualora l’ammontare del capitale di rischio impiegato nelle operazioni commerciali compiute nello stato di residenza dal contribuente non sia inferiore all’ammontare medio del capitale di rischio del gruppo societario a cui il contribuente stesso appartiene (il cosiddetto “capitale di fuga”) . (Inoltre, non ci sono restrizioni alla deduzione degli interessi passivi (i) quando non eccedano la soglia di Euro 3.000.000,00 annui o (ii) il contribuente non sia parte di alcun gruppo societario (c.d. “fuga” del soggetto autonomo)).
Per caratterizzare concettualmente questo regime, sembra utile invertire il linguaggio legale. Allora, di norma gli interessi passivi sono interamente deducibili. C’è un’eccezione a tale regola, tuttavia, nel caso in cui il capitale impiegato per lo svolgimento di attività nel territorio dello Stato di residenza sia inferiore all’ammontare medio del capitale di rischio del gruppo societario di riferimento. In questo caso, il contribuente può dedursi gli interessi passivi solo entro il limite del 30% del suo EBITDA.
La nuova barriera tedesca sugli interessi è stata ampiamente e fortemente criticata, per lo più giustamente (nessuna limitazione per gli interessi passivi derivanti da rapporti con parti correlate, eccessiva complessità ed intransigenza, riferimento agli IFRS, ecc.). L’idea di negare la deduzione integrale degli interessi passivi nel caso in cui il capitale di rischio sia inferiore a quello medio di gruppo, tuttavia, può trovare le sue giustificazioni in una politica di equità fiscale, che meglio garantisce lealtà e correttezza. Almeno non è assurdo presumere che un rapporto di capitale inferiore alla media del gruppo sia in qualche modo “guidato” da ragioni fiscali. Alla luce del fatto che capitale e debito all’interno di un gruppo societario sono, per lo più, giuridicamente ed economicamente intercambiabili, perché, salvo il motivo fiscale, un gruppo societario dovrebbe dotarsi in un Paese di un capitale di rischio notevolmente inferiore rispetto a quello medio impiegato negli altri Paesi?
Un esempio potrebbe illustrare quest’idea: presumiamo che la società capogruppo di una multinazionale abbia un rapporto di capitale del 100%, cioè non vi sia alcun finanziamento a debito. Se la società figlia residente della capogruppo priva di indebitamento richiedesse l’integrale deduzione, in Germania, di ingenti interessi passivi, difficilmente si potrebbe biasimare un ispettore delle tasse che vada a contestare l’opportunità di tale deduzione.
b) Deduzione del 30% del EBITDA come regime “de minimis”
Si tratta di un errore concettuale, tuttavia, negare la completa deducibilità degli interessi passivi nel caso in cui il capitale di rischio “residente” sia inferiore al capitale di rischio medio del gruppo societario. Ciò avviene perché, solo in via presuntiva, si può assumere che i relativi interessi passivi siano generati per ragioni fiscali, nella misura in cui essi si riferiscono ad un finanziamento che ecceda il rapporto con la capitalizzazione media del gruppo. Di conseguenza, gli interessi passivi sui prestiti dovrebbero essere deducibili fino al rapporto con il debito medio di gruppo.
La regola del 30% del EBITDA, tuttavia, serve a bilanciare questa lacuna concettuale. Ciò è perché viene permessa la deduzione di alcuni interessi passivi anche se le operazioni meramente nazionali del contribuente sono finanziate con un capitale di rischio inferiore a quello medio di gruppo. Alla luce di ciò, sembra corretto dire che il regime della deduzione nei limiti del 30% del EBITDA deve essere definito come regime “de minimis”, in quanto consente di ottenere una deduzione di interessi passivi, anche se il contribuente non ha superato il test del c.d. capitale netto.
In conclusione, nel regime della thin capitalization (in particolare, per quanto concerne le multinazionali straniere con società controllate tedesche), sia la nuova che la vecchia versione del regime tedesco dei così detti “earning stripping” può, in linea di principio, essere giustificata da un punto di vista fiscale (per il nuovo regime, però, ciò è solo nella misura in cui il gruppo straniero non sia gravato da inutili oneri della prova per quanto concerne il debito “dannoso” tra parti correlate, ai sensi di quanto previsto dall’art. 8a(3) del CIT [21] ). Ciò perché nessun regime è connesso a schemi motivati solo da ragioni fiscali. Mentre l’originario regime della thin capitalization si applicava solo ai prestiti dei soci, in sè potenzialmente abusivi, quello attuale è, almeno in teoria, limitato ai contribuenti che compiono le proprie operazioni in Germania utilizzando una quantità di capitale di rischio inferiore a quella che risulterebbe adeguata, alla luce della media di gruppo.
5. Fat Capitalization in Germania
5.1. Regime CFC
Come spiegato sopra, un gruppo societario straniero può, di solito, ridurre il proprio carico fiscale sui profitti interni allocando gli interessi passivi (sui prestiti erogati dai soci). Ciò è affrontato dalla disciplina della thin capitalization. I gruppi societari con sede in Germania, tuttavia, possono minimizzare il carico fiscale, utilizzando uno schema di pianificazione fiscale comunemente conosciuto come fat capitalization o iper-capitalizzazione:
una società madre tedesca capitalizza una società figlia, con sede in un Paese a fiscalità privilegiata. Questa soggetta ad una bassa imposizione (ovvero esente da imposizione) restituisce i fondi alla Germania, attraverso un prestito alla società madre. In assenza di qualsivoglia misura legislativa, la società madre tedesca potrebbe ridurre la propria base imponibile quasi all’infinito, realizzando artificiosamente interessi passivi. Gli interessi pagati sarebbero soggetti ad una tassazione bassa (o nulla) nello Stato di residenza della società figlia. I profitti corrispondenti possono rientrare in Germania essenzialmente liberi da qualsiasi imposta, godendo dell’esenzione del 95% di cui al regime di participation exemption, previsto dell’art. 8b(2) CIT [22].
Per contrastare queste strutture “iper-capitalizzate”, la Germania ha attuato, negli anni 70, un regime per le c.d. controlled foreign corporations (CFC), che è abbastanza simile a quello previsto in altre nazioni OCSE, per esempio, negli Stati Uniti (sin dal periodo dell’amministrazione Kennedy). L’idea è quella di “squarciare il velo societario” a fini fiscali in caso di (i) Paese a bassa fiscalità; (ii) redditi negativi e (iii) soci prevalentemente residenti. Qualora applicabile, il regime delle CFC tedesco (art. 7 della legge fiscale tedesca in materia di CFC [23]) consente di tassare il reddito da interessi della società straniera come se fosse direttamente conseguito in Germania.
Tuttavia, come avviene in tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea, il regime CFC tedesco è soggetto ad una valutazione di compatibilità con le libertà economiche fondamentali riconosciute dal Trattato CE. A partire dalla sentenza Cadbury Schweppes della Corte di Giustizia delle Comunità Europee [24] (CGE), l’art. 7 del FTA si applica, all’interno del mercato comune, solo nei casi in cui manchi una sostanza economica [25]. La barriera per la deduzione degli interessi passivi, tuttavia, risulta d’aiuto per prevenire e contrastare gli schemi di “iper-capitalizzazione”.
5.2. La barriera alla deducibilità degli interessi passivi anche per quanto concerne i debiti erogati da terzi (art. 4h ITA, art. 8a CIT testo vigente)
Un esempio può illustrare come la barriera alla deducibilità degli interessi passivi contribuisca a contrastare i fenomeni di fat capitalization.
Si presuma che una società madre tedesca finanzi le proprie operazioni in Germania con un capitale maggiore rispetto a quello dell’intero gruppo. In teoria, in virtù del rapporto tra capitale di rischio in Germania e capitale di rischio medio dell’intero gruppo, la società madre tedesca dovrebbe potersi dedurre tutti gli interessi passivi realizzati in Germania. Se il gruppo societario avesse pianificato un’operazione di ipercapitalizzazione, vale a dire avesse previsto di finanziare una società figlia in un paese a fiscalità privilegiata con capitale di rischio per ottenere il rimborso dei fondi attraverso un prestito intrasocietario, la società madre non avrebbe avuto più titolo per dedursi tutti gli interessi passivi. Ciò avviene perché il capitale di rischio per le attività nazionali decrescerebbe mentre il capitale di rischio medio dell’intero gruppo resterebbe invariato. In virtù del consolidato, un prestito intragruppo non ha effetto sul debito complessivo del gruppo. A causa della struttura ipercapitalizzata, la deduzione degli interessi della società madre è attualmente limitata al 30% del proprio EBITDA nazionale.
6. Finanziamento di società multinazionali tedesche in assenza di Thin Capitalization e Fat Capitalization
6.1. Nessuna scappatoia per il capitale virtuale (Taglio dei costi di acquisizione anche per le so cietà controllate straniere)
Mentre il regime tedesco della barriera alla deduzione degli interessi passivi può avere alcuni pregi per quanto concerne le strutture sottocapitalizzate ed ipercapitalizzare (o almeno sotto tale aspetto risulta giustificato), il suo effetto può essere semplicemente devastante per i gruppi societari multinazionali con capogruppo in Germania, che finanziano le operazioni delle proprie società controllate, residenti e non residenti.
La ragione è che i contribuenti nazionali hanno solo in teoria – ma non in pratica – diritto all’applicazione del regime del “capitale di fuga”, il quale dovrebbe consentire una deduzione di interessi passivi illimitata, quando vi sia un rapporto appropriato di capitale di rischio all’interno della Germania. Come principio di base, virtualmente, quindi, tutti i gruppi societari multinazionali con capogruppo in Germania possono dedurre gli interessi passivi nel limite del 30% dell’EBITDA [26]. Le multinazionali straniere, dall’altro lato, sono effettivamente capaci di dimostrare alle autorità fiscali tedesche di aver diritto ad una illimitata deduzione di interessi nel caso in cui abbiano un capitale di rischio adeguato per finanziare le proprie attività in Germania. Ne risulta che le multinazionali tedesche sono chiaramente discriminate rispetto alle loro controparti straniere.
Questo risultato è particolarmente sorprendente alla luce del fatto che, prima del 2008, le multinazionali tedesche non erano per nessuna ragione colpite dal regime degli “earning stripping” (come non lo sono neanche le multinazionali straniere nei propri Stati di residenza). Solo le società figlie tedesche di multinazionali straniere (ma non le società capogruppo tedesche) di solito hanno per lo più soci stranieri, essendo capaci (con erogazione di prestiti da parte di soci) di ridurre la propria base imponibile nazionale.
La ragione per cui alle multinazionali tedesche è vietato avvalersi dello strumento del “capitale di fuga” (e perciò di una deduzione illimitata di interessi passivi) dipende dal meccanismo di cui all’art. 4h(2)(c)(5) dell’ITA [27]. Ai sensi di tale disposizione, il capitale di rischio residente, ai fini della valutazione del “capitale di fuga”, è ridotto del valore di libro delle partecipazioni relative alla società figli e straniere. Tale riduzione lascia molte società con sede in Germina senza capitale – come ben noto all’amministrazione finanziaria tedesca – qualora il capitale di rischio del residente sia inferiore al capitale di rischio medio di gruppo.
Gli strani effetti di ciò possono essere illustrati con il seguente esempio. Si consideri una società madre tedesca (D-GmbH) con un capitale di 40 ed un debito di 60. Il patrimonio della D-GmbH è formato al 100% dalle partecipazioni nella società straniera T-Corp e da macchinari, ciascuno con un valore di libro di 50. T-Corp è gravata da molti più debiti rispetto al capitale (80% contro 40%). I macchinari di valore pari a 250 sono stati finanziati, infatti, ricorrendo per 200 al debito e 50 al capitale. Il rapporto di capitale del gruppo in consolidato è pertanto 13%.
Si penserebbe che D-GmbH non abbia problemi di “capitale di fuga”. Il capitale della D-GmbH è non solo molto più alto del capitale della società figlia straniera (40% contro 20%), ma eccede anche il capital e del consolidato (40% contro 13%). A causa della riduzione del valore di libro, tuttavia, il capitale di D-GmbH scende aritmeticamente a sotto zero. Capitale 40 meno valore di libro relativo alla società T-Corp 50 determina meno 10 (!) di capitale. Tale valore è inferiore al 13% di cui al rapporto con il capitale di gruppo e D-GmbH non ha quindi diritto ad una deduzione illimitata di interessi passivi. D-GmbH può dedurre gli interessi unicamente nel limite del 30% dell’EBITDA sebbene le sue attività in Germania siano effettivamente finanziate con un capitale di rischio maggiore rispetto a quello di gruppo, ed a quello impiegato per operazioni all’estero.
Le multinazionali straniere non sono, quanto meno, colpite automaticamente dalla riduzione del valore di libro. Ciò avviene perché il gruppo multinazionale straniero – tranne il caso in cui la società capogruppo sia tedesca – non ha necessariamente bisogno di conservare le proprie partecipazioni in Germania. Inoltre, una struttura di gruppo del tipo, società capogruppo straniera – società madre tedesca – società figlia straniera appare abbastanza inusuale (e forse animata da ragioni essenzialmente fiscali).
Vale la pena notare che la holding tedesca non è danneggiata dagli obiettivi del regime della barriera di deducibilità degli interessi passivi. Ai sensi dell’art. 15(1)(3) del CTA [28], tutti i membri di un gruppo consolidato (Organschaft) sono considerati come se fossero un unico soggetto ai fini del calcolo della barriera di deducibilità degli interessi passivi. Dal momento che questo gruppo è considerato nella sua globalità ai fini del regime del “capitale di fuga”, non c’è alcun valore di libro da dedurre dal capitale della società madre. Posto che, in Germania, solo le società figlie residenti possono avvalersi della tassazione consolidata di gruppo (mediante la compensazione di perdite ed utili di gruppo), derivano pesanti conseguenze sul piano del diritto comunitario. Il regime del “capitale di fuga” appare chiaramente in violazione della libertà di stabilimento, di cui all’art. 43 del Trattato [29]. Mentre l’acquisizione di una società residente (e conseguentemente rientrante nell’accordo di consolidamento) non determina modifiche al regime della barriera alla deducibilità degli interessi passivi, l’acquisizione di una società residente in uno stato membro nell’Unione Europea determina la riduzione del capitale della società madre nel rapporto 1:1, per un valore pari al prezzo d’acquisto e quindi al valore di libro [30].
È interessante notare che, il legislatore tedesco non ha fornito alcuna spiegazione al sistema di riduzione del valore di libro. Nell’intera storia legislativa [31], non c’è un solo articolo che impedisca, a partire dal 2008, virtualmente a tutti gruppi multinazionali tedeschi di potersi dedurre una quantità di interessi passivi superiori a quanti ne abbiano percepiti (salvo che loro non rientrino nell’obiettivo del 30% dell’ EBITDA di cui alla regola de minimis). Questa incredibile lacuna legislativa potrebbe condurre alla conclusione che le multinazionali tedesche non siano volentieri private della favorevole occasione di superare il regime del “capitale di fuga”. Effettivamente, un tale errore potrebbe anche essere comprensibile. Ciò perché la prima versione dell’art. 8a CIT conteneva ancora una previsione secondo cui il capitale di una società madre veniva ridotto del valore di libro delle sue società figlie (anche straniere). La prima versione del regime tedesco di thin capitalization, tuttavia, prevedeva delle regole speciali per le società holding , si tratta dell’art. 8a(4) CIT, versione abrogata. Quelle disposizioni mitigarono accuratamente l’effetto della riduzione del valore di libro che è esattamente ciò di cui vi sarebbe stato bisogno anche nell’attuale versione dell’art. 8a CIT. Disposizioni ben formulate per le holding e le capogruppo, come descritte nella seguente sezione, evitano il doppio conteggio del capitale di rischio nazionale – una comprensibile rivendicazione delle autorità fiscali – senza privare virtualmente tutte le multinazionali tedesche dal regime del “capitale di fuga”.
6.2. Regime delle Holding dopo l’introduzione dell’art. 8a(4) CIT, versione abrogata
L’astensione di qualsiasi riduzione del valore di libro non è una opzione praticabile per le regole previste in materia di ”earning stripping”, che in qualche modo si connettono al capitale. La ragione è che le deduzioni di interessi passivi potrebbero essere quasi indefinitivamente aumentate dal fatto che la società madre all’interno di uno Stato fornisce capitale alla propria controllata nel medesimo Stato che, a sua volta, fornisce tale capitale ad una sua controllata, e così via. Alla fine, tutte queste società, anche se sono all’interno di una catena societaria, riceverebbero dei benefici fiscali per il proprio capitale di rischio (per esempio, con un rapporto di 1.5:1.0 tra debito e capitale) anche se si tratta del medesimo capitale, solo passato di mano in mano [32].
Per contrastare questo meccanismo a “cascata”, la versione originale del regime dell’”earnings stripping” riduceva anche il capitale di rischio del contribuente nella misura del valore di libro della sua partecipazione. Tale disciplina prevedeva, tuttavia, un’eccezione alla regola, con riguardo alla società madre nel caso in cui le controllate di quest’ultima avessero convenuto di non utilizzare il proprio capitale ai fini fiscali. Se la società madre non voleva che il proprio capitale fosse ridotto del valore di libro delle sue partecipazioni, alle relative società controllate non era permesso utilizzare il rapporto tra debito e capitale di 1.5:1.0 per la deduzione, ai sensi dell’art. 8a(4) CIT versione oggi abrogata.
La stessa logica può essere facilmente applicata al regime vigente in Germania in materia di “earning stripping”. Il capitale di una società madre non dovrebbe essere ridotto del valore di libro delle sue società figlie, a meno che tali società figlie abbiano titolo per usufruire del regime del “capitale di fuga” loro stesse. Se detta condizione è soddisfatta (impedendo alle società figlie di “acquisire” “capitale di fuga”), potrebbe non esserci un doppio conteggio del capitale di rischio nazionale/interno. Di conseguenza, un cambiamento meno incisivo dell’attuale legislazione modellata sulla precedente previsione del CTA e perciò meglio conosciuta ai professionisti del settore fiscale, introdurrebbe una barriera alla deduzione degli interessi passivi anche per le società multinazionali tedesche.
Quale alternativa ad una formulazione elaborata dopo la precedente versione dell’art. 8a(4) CIT, il Ministro delle Finanze bavarese propose un approccio simile [33] che è stato assoggettato, apparentemente, ad una intensa discussione durante le negoziazioni condotte per l’Accordo di Coalizione del 26 ottobre 2009 [34]. Il nuovo Governo tedesco richiede esplicitamente: “Rivedere il regime del “capitale di fuga” e renderlo applicabile ai gruppi societari con sede in Germania”.
Perciò, anche senza alcuna modifica legislativa, le autorità fiscali dovrebbero poter interpretare l’attuale formulazione legislativa della normativa in modo che non si eviterebbe più alle multinazionali tedesche di avvalersi del “capitale di fuga”. Come correttamente è stato fatto in una circolare del Ministero delle Finanze tedesco del 15 dicembre 1994 [35] relativamente all’esatta interpretazione della legge, le autorità fiscali potrebbero ragionevolmente concludere che la riduzione di capitale attraverso il valore di libro delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 4h(2)(c)(5) che si applica solo alle società figlie residenti. Visto che può esserci solo un doppio conteggio del capitale relativamente alle società figlie nazionali, il telos (fine) della norma supporterebbe senza dubbio tale interpretazione.
6.3. Nessuna giustificazione alla deduzione del 30% dell’EBITDA limitata (presumibilmente) nel tempo
I limiti alla deduzione degli interessi passivi al 30% dell’EBITDA senza poter utilizzare in modo sicuro il regime del “capitale di fuga” anche da parte delle multinazionali tedesche, vale a dire una barriera alla deduzione che valga a prescindere dall’esistenza di meccanismi fiscalmente orientati, come i prestiti erogati dai soci (quello che era il vecchio regime tedesco dell’”earning stripping”) o un capitale di rischio interno inferiore a quello medio di gruppo (quella che è la teoria che anima l’attuale regime tedesco dell’”earning stripping”), possono, tuttavia, difficilmente essere giustificati da una politica fiscale o sotto il profilo della correttezza. Data l’assenza del carattere anti-abusivo del regime dell’”earning stripping”, quest’ultimo sembrerebbe costituire una chiara violazione del principio del reddito netto, caposaldo della capacità contributiva. I motivi per cui i contribuenti ricorrono all’indebitamento sono molto talmente differenti tra di loro (per esempio, dipendono dal settore in cui opera il contribuente (con le proprie risorse di capitale), dal profilo di rischio dell’investitore del contribuente o dalla situazione di profitti e perdite nel passato) per essere raggruppati e distinti in “appropriati” e “inappropriati” attraverso i l valore fisso dell’EBITDA. La mera esenzione dei redditi prodotti all’estero, o dei redditi derivanti da dividendi, non può giustificare il diniego alla deduzione di interessi passivi in assenza di qualsiasi specifico comportamento abusivo del contribuente, anche se ciò dipendesse solo dal fatto che tali redditi sono esenti, in quanto si tratta di redditi assoggettati a tassazione all’estero ovvero a tassazione in capo alla società distributrice.
In particolare, la natura solo (presumibilmente) temporale del diniego di deduzione di interessi non rende superflua la verifica di un comportamento abusivo. Anche lasciando da parte il fatto che il valore della moneta cambia nel tempo, ciò avviene perché in numerosi casi il diniego alla deduzione di interessi passivi sarà permanente, indipendentemente da qualsiasi riporto in avanti. Primo, il riporto in avanti spesso non si conserva nelle ipotesi di cambio della forma meramente giuridica di un’operazione, come ad esempio nelle ipotesi di riorganizzazione societaria ovvero nei cambi di governance. Secondo, e più importante, non tutti i modelli di business di gran lunga attuabili richiedono un rapporto di capitale del 30% come requisito per riportare in avanti gli interessi. Con un rapporto di capitale del 10% o del 20%, si potrebbe avere un profitto, ma spesso non sarà possible riportare a nuovo gli interessi non dedotti.
7. L’imposta sul commercio tedesca ed il diritto comunitario
Ai sensi dell’art. 8 n. 1 della legge tedesca sul commercio b [36] (TTA), il 25% di tutti gli interessi passivi non sono deducibili ai fini fiscali, e tecnicamente ciò avviene attraverso lo strumento della variazione in aumento della base imponibile. Presumendo un demoltiplicatore d’imposta sul commercio locale con un’aliquota di circa 14%, gli interessi passivi vengono tassati con aliquota al 3,5%. Il 27 maggio 2009, il Tribunale Fiscale Federale tedesco [37] (Bundesfinanzhof) ha deciso di rinviare alla CGE la seguente questione preliminare: il limite di indeducibilità del 25% viola quanto previsto dalla Direttiva 2003/49/CE [38] ?
Secondo la formulazione letterale dell’art. 1, co. 1 della Direttiva 2003/49/CE, le variazioni in aumento (e non solo le ritenute) sono violazioni della Direttiva stessa: “I pagamenti di interessi sono esentati da ogni imposta applicata sia tramite ritenuta alla fonte, sia previo accertamento fiscale”. Di conseguenza, la sentenza della CGE può avere un impatto (molto ampio) anche sul regime di thin capitalization, non più focalizzato solo sulle strutture abusive.
Tuttavia, un problema che non è stato sollevato avanti alla CGE dal Tribunale Fiscale Federale concerne il diritto comunitario primario. Per quanto riguarda le società finanziarie transnazionali, vi potrebbe essere un contrasto tra le variazioni in aumento del 25%, ai sensi della legge sull’imposta sul commercio, per gli interessi passivi indeducibili relativi a transazioni commerciali e l’art. 43 del Trattato CE, relativo alla libertà di stabilimento. [39] Ciò perché il meccanismo di variazione in aumento non si applica a situazioni meramente interne, vale a dire quelle in cui la finanziaria tedesca eroga un prestito ad una propria controllata tedesca (in questo caso, le società tedesche controllate, come consueto, costituiscono un’unità fiscale ai fini dell’imposta sul commercio e pertanto godono di un accordo infragruppo che permette compensazione di perdite ed utili) [40].
Anche se nello scenario meramente interno vi sarebbe una variazione in aumento – questa volta a livello della società finanziaria per le proprie spese di rifinanziamento (per esempio, interessi sulle obbligazioni emesse sul mercato del capitale di debito) -, la CGE potrebbe tuttavia trovare discriminatorio il trattamento delle società finanziarie estere con sede in altri Stati Membri rispetto a quello applicato ad analoghe società residenti. Ciò perché una giustificazione sul piano della coerenza del sistema fiscale normalmente richiede che lo svantaggio fiscale, ed il corrispondente vantaggio, siano in capo ad una sola persona giuridica (contrariamente al caso in cui due soggetti esteri sono membri di un medesimo gruppo societario) [41]. Inoltre, se una società figlia tedesca, magari a causa di alcuni prestiti erogati a propri dipendenti, sia una finanziaria ai sensi di quanto previsto dall’art. 19(3) del Regolamento dell’imposta sul commercio (Gewerbesteuerdurchfuehrungsverordnung, GewStDV), non ci sarebbe alcuna variazione in aumento per gli interessi passivi.
8. Conclusioni
In linea di principio, gli interessi passivi sono paragonabili alle altre spese necessarie allo svolgimento di un’attività, sotto il profilo della capacità contributiva e perciò, come tali, deducibili. C’è, tuttavia, un’assenza di simmetria nella tassazione in capo al beneficiario, in particolare nelle situazioni transnazionali. Dal momento che continueranno ad esserci nel mondo ipotesi di interessi in uscita privi di ritenuta alla fonte – e tale situazione, allo stato, sembra essere priva di alternative per svariate ragioni, vuoi economiche, vuoi giuridiche – e poiché il debito ed il capitale (del socio) sono intercambiabili, le norme anti-abuso possono in generale essere giustificate sotto quest’ottica.
In particolare, ciò è vero nelle situazioni transnazionale che coinvolgono tutti i Paesi, sia con alta sia con bassa pressione fiscale. La legislazione tributaria deve contrastare sia le strutture sottocapitalizzate, che quelle ipercapitalizzate, per esempio, limitando la deduzione degli interessi passivi sui prestiti erogati da soci, ovvero ponendo fine alla delocalizzazione di società figlie finanziarie in paradisi fiscali nei quali si registrano solo redditi negativi.
Sfortunatamente, la Germania si è spinta un po troppo oltre in questo senso ( i ) contrastando anche la deduzione di interessi derivanti da finanziamenti erogati da terzi e ( ii ) non introducendo, allo stesso tempo, un modello certo di “capitale di fuga”. Di conseguenza, le multinazionali tedesche non potranno mai superare il test del capitale di rischio e perciò avranno una deduzione limitata di interessi passivi anche relativi a debiti contratti con terze parti, nonostante il proprio capitale di rischio nazionale sia più alto di quello medio di gruppo. Ciò avviene perché anche il valore di libro delle partecipazioni in società straniere viene sottratto al capitale di rischio nazionale, nonostante non vi sia il rischio di una doppia valutazione del capitale.
La Germania deve urgentemente risolvere questo problema, introducendo un meccanismo modellato su quello che era l’originario regime di thin capitalization, ovvero, alternativamente, modificando tale originario regime, eliminando i limiti alla deduzione per quanto concerne gli interessi passivi derivanti da prestiti erogati da soggetti terzi. In caso contrario, i gruppi societari tedeschi avranno una deduzione di interessi passivi sempre limitata al 30% dell’EBITDA, mentre tale limite non troverà applicazione per le multinazionali straniere – un risultato piuttosto sorprendente e che, in più, viola, da un lato, il principio della capacità contributiva nella misura in cui comporta una variazione in aumento del 25% per quanto concerne il trattamento degli interessi passivi previsto dall’imposta sul commercio e, dall’altro lato, il diritto comunitario primario e secondario.
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- Dr. Chr istian Dorenkamp LL.M. (NYU Int’l Tax), Avvocato. Traduzione a cura di Federica Maria Bucci, Dottoranda in Diritto Tributario Europeo presso l’Università di Bologna.↵
- Cfr. tuttavia, l’esistenza di regime fiscale simile in Italia, e precisamente all’art. 96 de l TUIR (gli interessi passivi che eccedono gli interessi attivi sono deducibili solo nella misura del 30% del risultato operativo lordo della gestione caratteristica).↵
- Cfr. anche Coalition Agreement del 26 ottobre 2009 tra CDU, CSU e FDP, pag. 11 (“modificare la fuga di capitale e renderla adatta ai gruppi societari tedeschi”).↵
- Art. 4h ITA.↵
- HGB.↵
- Cfr. William T. Plumb, The Federal Income Tax Significance of Corporate Debt: A Critical Analysis and a Proposal, 26 Tax Law Review 369, 1971.↵
- Cfr., con riguardo all’applicazione di detti criteri ai differenti tipi di società, Wolfgang Schoen e.a., Debt and Equity – What’s the Difference – A Comparative View, B.III.1, Social Science Research Network (SSRN).↵
- Art. 8(3)(2) CIT.↵
- Art. 32d ITA.↵
- Art. 32d(2) ITA.↵
- Negli Stati Uniti, per esempio, il Sec. 871(h) ed il Sec. 881(c) dell’Internal Revenue Code individua un portafoglio di interessi esenti da qualsiasi ritenuta.↵
- Direttiva 2003/49/CE del 3 giugno 2003 su i pagamenti di interessi e royalties tra società controllate.↵
- Art. 11 OECD M o del Convention.↵
- Art. 11 US Model Convention.↵
- Cfr., per esempio, Joachim Lang, Taxing Consumption from a legislative point of view, in Manfred Rose (Ed.), Heidelberg Congress on Taxing Consumption, Heidelberg 1990, page 273.↵
- Al riguardo, si veda, a titolo esemplifica tivo, la decisione della Corte di Cassazione tedesca (Bundesverfassungsgericht) del 12 dicembre 2 BvL 1/07 (con riguardo alle spese di trasferta dei dipendenti).↵
- Art. 3(1) GC.↵
- Art. 42 FC.↵
- Cfr. BFH del 5 maggio 1992 (I R 127/90), BStBl. II 1992, 532).↵
- A causa della reazione degli enti legislativi tedeschi alla sentenza della CGE del 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst [2002] ECR 2002 I-1179, il regime di thin capitalization tedesco è stato reso applicabile anche a situazioni meramente interne. Dal momento che non ci sono disparità di aliquote all’interno di un’unica nazione, tuttavia, colpire finanziamenti intragruppo puramente interni non ha senso.↵
- Art. 8a CIT.↵
- Art. 8b(2) CIT.↵
- Art. 7 FTA.↵
- CGE 12 settembre 20 06, C-19 6 /04, Cadburry Schweppes[2006] ECR I-07995.↵
- Al riguardo si veda, a titolo esemplificativo, Jens Schoenfeld, in Flick/Wassermeyer/Baumhoff (Ed.), Foreign Tax Act, prima dei paragrafi 7-14 nota 261.↵
- Alla luce del fatto che la nuova barriera di deducibilità degli interessi passivi prevista in Italia non permette, in teoria, una fuga di capitale (si veda l’art. 96 del Testo Unico delle Imposte sul Reddito italiano), le stesse considerazioni dovrebbero essere valide anche per tutte le società italiane.↵
- Art. 4h(2)(c)(5 ) ITA.↵
- Art. 15(1)(3) CTA.↵
- Art. 43 Trattato che istituisce la Comunità Europea (versione consolidata).↵
- Si veda, per esempio, Stefan Köhler, First Thoughts Regarding the New Interes t Barrier Rules, Deutsches Steuerrecht (DStR) 2007, 597 (602); Homburg, The Interest Barrier – Tax Innovation without Precedent, Finanz-Rundschau (FR) 2007, 717 (725).↵
- BT-Drucks. 16/ 4841.↵
- Si veda, per esempio, Norbert Herzig , Thin Cap Regulations § 8a CIT, Der Betrieb (DB) 1994, 168 (173).↵
- Cfr. BT-Drucks. 16/12525.↵
- Cfr. Accordo di Coalizione del 26 ottobre 2009, tra CDU, CSU e FDP, p. 11 (“Escape-Klausel überarbeiten und für deutsche Konzerne anwendbar machen”).↵
- Cfr. Circolare del Ministero delle Finanze Federale del 15 dicembre 1995, nota 90.↵
- Art. 8 n. 1 TTA.↵
- BFH I R 30/08.↵
- Direttiva 2003/49/CE del 3 giugno 2003 sul pagamento di interessi e royalties tra società controllate.↵
- Art. 43 Trattato che istituisce la Comunità Europea (versione consolidata).↵
- Ai sensi di quanto affermato nella sentenza della CGE del 18 Settembre 2003, C-168/01, Bosal [2003] ECR I-9409, un mero ostacolo alle decisioni tra società madre residente e società figlia estera è sufficiente per costituire violazione delle libertà economiche fondamentali previste dal Trattato CE.↵
- Si veda, a titolo esemplificativo, sentenza CGE del 13 Dicembre 2005, C-446/03, Marks&Spencer [ 2005] ECR I-10837 e ancora sentenza CGE 7 settembre 2004, C-319/02, Manninen [2004] I-7477 che ha sostenuto un concetto di coerenza abbastanza ampio. Cfr. anche Wolfgang Schoen , Back to the Future – Thin Cap in the Light of ECJ Decisions, Internationales Steuererecht(I StR) 2009, 882 (885), il quale ha argomentato un concetto di coerenza più ampio con riguardo anche alla legislazione thin capitalization.↵