Il Diritto Comunitario alla prova delle Exit Taxes, tra limiti, prospettive e contraddizioni
Il tema delle exit taxes, ossia delle varie forme di imposizione collegate alla vicenda del trasferimento della residenza, offre un osservatorio per certi versi privilegiato sul processo di integrazione comunitaria, sui suoi limiti come sulle sue contraddizioni, non solo in materia di fiscalità.
Preliminare ad ogni considerazione è la presa d’atto che la fiscalità diretta è rimasta, per precisa scelta riginaria del Trattato[2], in una posizione sostanzialmente defilata rispetto all’attuazione del progetto comunitario. Diversamente che per la fiscalità indiretta, dove l’armonizzazione delle legislazioni nazionali è stata vista come necessaria all’instaurazione del mercato comune (art. 93), per quella diretta è stato invero ipotizzato solo un ravvicinamento delle legislazioni, peraltro eventuale e limitato a quanto possa avere un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune (art. 94 ). Tant’è che le iniziative al riguardo promosse in sede comunitaria sono alquanto limitate, potendosi annoverare solo le Direttive in tema di distribuzione di dividendi [3] e di operazioni straordinarie transfrontaliere [4], nonché quelle sull’erogazione intracomunitaria di passive incomes [5] . Iniziative, tutte queste, che non hanno intaccato, se non in misura marginale, la sostanziale pienezza della sovranità impositiva degli Stati membri. Se un qualche ridimensionamento di tale pienezza, a vantaggio del tema comunitario, è stato possibile – come noto – è grazie alla Corte di Giustizia, la quale, per assicurare la pienezza di norme e principi ritenuti non rinunciabili, neppure in ambiti rimasti nella piena titolarità normativa degli Stati membri [6] , è giunta progressivamente a sindacare i diversi regimi nazionali, anche su aspetti ed ambiti sottratti al processo comunitario, con ciò dando sostanza a quel fenomeno noto come armonizzazione negativa. Ma si è trattato, appunto, di un’armonizzazione/ravvicinamento solo negativi, attuati mediante la mera rimozione di quei profili di disciplina nazionale reputati incompatibili con norme, principi e valori fondamentali del diritto comunitario.
Ebbene, il tema delle exit taxes mette in evidenza proprio l’illusorietà di continuare a concepire la fiscalità diretta come un aspetto solo marginale ed incidentale alla realizzazione del mercato unico. A ben intendere, il trasferimento della residenza appare una vicenda naturalmente destinata ad impattare sulle libertà del Trattato (quella di circolazione delle persone come pure quella di stabilimento, senza trascurare la libertà di circolazione dei capitali) e, quindi, sulla concreta realizzazione di quello spazio giuridico comune cui il loro pieno riconoscimento è preordinato. Una vicenda, tuttavia, rispetto alla quale i profili di possibile lesione delle predette libertà finiscono per divenire, se non solo certamente anche, quelli correlati al peculiare trattamento ad essa riservato ai fini delle imposte dirette nei divers i ordinamenti nazionali. Questo anche con riguardo alle persone giuridiche, dove, in effetti, la questione appare, primariamente, di diritto commerciale, concernendo il riconoscimento, da parte del singolo ordinamento, della possibilità per le società resi denti di trasferire la propria sede. Perché, ancora una volta, l’impatto della vicenda del trasferimento di sede sulle libertà comunitarie finisce per assumere rilevanza proprio in virtù della variabile fiscale. L’opzione di non riconoscere il trasferimento di sede comporta, difatti, la liquidazione della società che intende trasferirsi con conseguente applicazione del regime fiscale dettato per tale peculiare vicenda e, quindi, con imposizione dei pulsvalori latenti. Sicché, in definitiva, è solo il tema f iscalee, segnatamente, il regime dettato per le imposte sui redditi, a condizionare le scelte allocative degli operatori intenzionati al trasferimento di residenza; i contributi dei diversi autori qui pubblicati appaiono sul punto chiarificatori.
Ma, soprattutto, il tema delle exit taxes fa comprendere come non possa la sola Corte di Giustizia risolvere i molteplici problemi che queste pongono agli operatori.
Certamente, è grazie alla Corte di giustizia che il tema è divenuto una questione di interesse no n solo per gli operatori ma anche per i legislatori nazionali, chiamati oggi, dopo le pronunce rese l’11 marzo 2004 [7] ed il 7 settembre 2006 [8] , a verificare la compatibilità comunitaria delle proprie discipline interne. E va altresì dato atto che la Corte, nelle predette pronunce, ha offerto un contributo importante nella prospettiva, che è propria del processo di armonizzazione negativa. Censurando talune caratteristiche delle discipline esaminate, rispettivamente quella francese e quella olandese, la Corte ha invero chiarito quali elementi (imposizione immediata, prestazioni di garanzie ecc.) non possono essere presenti in un’ exit tax, delineando, per questa via – ossia in negativo – un possibile modello comunitario di imposta correlata alla vicenda della pe rdita di residenza di una persona fisica. Secondo la Corte, se ordinariamente l’imposta sulle plusvalenze maturate colpisce l’atto di realizzo, allora non può essere applicata alla mera perdita della residenza, ma dovrà attendere il successivo effettivo realizzo, anche per tenere conto delle eventuali minusvalenze sopravvenute [9]; al momento della perdita della residenza, di conseguenza, lo Stato di origine può imporre solo una dichiarazione volta ad accertare e così cristallizzare le plusvalenze latenti. Par imenti, non può essere prescritta, in sede di rinvio della tassazione, la prestazione di garanzie a tutela del credito erariale [10] , potendo (e dovendo) gli Stati fare ricorso alla Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, 77/799/CEE [11], relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette, come modificata dalla direttiva del Consiglio 16 novembre 2004, 2004/106/CE [12]ed alla Direttiva del Consiglio 15 marzo 1976, 76/308/CEE [13], come modificata dalla dire ttiva del Consiglio 15 giugno 2001, 2001/44/CE [14], in merito all’assistenza per il recupero dei crediti relativi alle imposte sul reddito e sul capitale [15].
Si tratta di condizioni piuttosto puntuali. Nonostante questo – come emerge dalle diverse relazioni pub blicate – gli ordinamenti nazionali presentano oggi, ossia dopo le pronunce citate, un quadro assai composito ed eterogeneo.
Così, a fronte di Stati che non prevedono alcun tipo di tassazione delle plusvalenze latenti sulle partecipazioni detenute da perso ne fisiche, in occasione del loro trasferimento di residenza (ad esempio l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Francia, la quale, dopo la sentenza Hughes de Lasteyrie, ha proceduto all’abrogazione della propria exit tax ), molti altri la prevedono.
In osservanza della sentenza Hughes de Lasteyrie, tuttavia, l’imposta sulle plusvalenze maturate con le partecipazioni detenute dalla persona fisica, che trasferisce la propria residenza, laddove prevista, non viene prelevata al momento del trasferimento della residenza, ma solo a quello successivo della cessione (o altro evento equiparato). Al momento del trasferimento della residenza si procede, pertanto, solo all’accertamento delle plusvalenze maturate in ragione del valore di mercato delle partecipazioni detenute. Vi sono però Stati che prescrivono l’ulteriore condizione del successivo rientro, entro un periodo predeterminato, del soggetto trasferito (Irlanda e Regno Unito) ed altri, invece, che limitano temporalmente la pretesa impositiva (Paesi Bassi, Svezi a ed Austria). Comune ad entrambe le ipotesi è, evidentemente, la finalità antielusiva della disciplina (sebbene più evidente nella prima che nel seconda ipotesi), volta a contrastare il trasferimento della residenza finalizzato alla sola dismissione delle partecipazioni plusvalenti, piuttosto che la chiusura del sistema, assicurando la pretesa impositiva su plusvalori maturati nello Stato durante il periodo di residenza.
Con riferimento alle minusvalenze sopravvenute, queste sono riconosciute da taluni Stati, seppure nei limiti delle plusvalenze maturate nel periodo di residenza (Germania, Austria, Paesi Bassi); vi sono poi regimi che riconoscono altresì un credito d’imposta per l’imposta eventualmente assolta nello Stato di destinazione (Paesi Bassi).
Assai diversificato appare, inoltre, l’ambito di applicazione della disciplina. In taluni ordinamenti, è prevista l’imposizione sulle plusvalenze latenti indipendentemente dall’entità della partecipazione, laddove altri la riservano alle sole partecipazioni qualificate (Germania ed Austria). Alcuni Stati, poi, prevedono la tassazione solo per coloro che sono stati residenti per un periodo di tempo minimo, mentre la escludono per chi ha soggiornato per periodi brevi (Paesi Bassi). In tutti i regimi che prevedo no exit taxes sulle persone fisiche, la sospensione dell’imposta fino al momento del realizzo è generalizzata ed automatica (in Austria occorre però fare un’apposita istanza) e senza prestazione di garanzie, se il trasferimento della residenza è in uno Sta to Ue; in taluni casi, tuttavia, analogo regime è stato previsto altresì per il trasferimento in Stati SEE (Germania), ovvero solo in Stati SEE con cui sono in atto accordi per lo scambio di informazioni e per l’assistenza amministrativa (Austria). A tale proposito, va ricordato che la stessa Commissione ha riconosciuto il diritto degli Stati membri a salvaguardare i loro crediti fiscali nel momento del trasferimento di attivi in assenza di un sistema di scambio di informazioni adeguato con i Paesi SEE [16]. Non risultano invece casi di sospensione automatica del prelievo senza garanzie anche per il caso di trasferimento in Stati terzi, evento questo ritenuto non coperto dalle libertà comunitarie, sebbene non possa escludersi la possibilità di invocare la libert à di circolazione dei capitali che, come noto, copre anche i rapporti con Stati terzi.
In definitiva, emerge con evidenza come, sebbene all’interno del modello negativo elaborato dalla Corte di Giustizia, gli Stati abbiano potuto costruire o, piuttosto, ma ntenere, modelli di imposizione delle plusvalenze latenti correlati al trasferimento della residenza di persone fisiche non imprenditori, affatto diversificati. Si tratta di un risultato che potrebbe anche apparire accettabile, quale ideale compromesso tra le pretese di sovranità degli Stati membri e le esigenze comunitarie, ma che mostra invece tutti i limiti e le contraddizioni del processo comunitario.
La vicenda sottostante, il trasferimento di residenza, non può continuare ad essere concepita secondo una prospettiva nazionale, separando i due momenti della perdita e dell’acquisto della residenza da parte, rispettivamente, dello Stato outbound e di quello inbound, quasi che non si trattasse di una vicenda transnazionale unica bensì di due vicende nazionali distinte. Se la disciplina fiscale del trasferimento di residenza è idonea a condizionare l’esercizio delle libertà comunitarie, è chiaro che entrambi i momenti della perdita e dell’acquisto della residenza debbono essere considerati necessariamente in modo congiunto. Del resto, nel momento stesso in cui si dichiara incompatibile con il diritto comunitario la tassazione delle plusvalenze latenti contestualmente alla perdita della residenza, il problema delle exit taxes finisce per divenire un problema d i riparto della pretesa impositiva tra Stato outbound e Stato inbound sulle plusvalenze realizzate.
Il problema è chiaramente comunitario, ma tale non sembra poter essere la soluzione.
Perché, così concepito, diventa un problema di possibile doppia imposizione ovvero non imposizione, che può essere risolto solo con strumenti positivi di coordinamento, come le Direttive (non a caso, in materia di fiscalità diretta, le Direttive appaiono principalmente ordinate proprio a regolare il riparto di potere imposi tivo tra Stati), e non certo con l’azione di armonizzazione negativa promossa dalla Corte. Ebbene, di fronte alla constatata impossibilità di addivenire ad una soluzione simile, stante i condizionamenti ed i limiti cui è soggetta l’azione comunitaria su qu esto fronte, gli stessi organi comunitari [17] si sono visti costretti ad auspicare il ricorso ad uno strumento, le convenzioni contro le doppie imposizioni, che, seppure ipotizzato dal Trattato (art. 293), è per definizione non comunitario, giacché rimesso ag li accordi tra Stati.
I descritti problemi risultano addirittura aggravati con riguardo alle exittaxes riferite al mutamento di sede delle persone giuridiche, rispetto alle quali – come si può leggere nelle diverse relazioni – l’impatto delle pronunceHughes de Lasteyrie du Saillant ed N. sugli ordinamenti nazionali è stato pressoché nullo. Tranne il caso dell’Austria, che proprio in ossequio alla giurisprudenza de Lasteyrie ha introdotto un regime di sospensione della tassazione dei plusvalori latenti anc he per il caso di trasferimento della sede, gli Stati che prevedevano una disciplina di exit tax per il cambio di residenza di una società, l’hanno mantenuta senza modifiche sostanziali: tassazione delle plusvalenze relative ai beni ovvero al complesso azi endale non confluiti in una stabile organizzazione, già e solo al momento della perdita della residenza, senza alcuna forma di sospensione della tassazione (Svezia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo).
Gli argomenti addotti a giustificazione sono diversi.
Innanzitutto, il fatto che i casi de Lasteyrie ed N. avevano ad oggetto il cambio di residenza di una persona fisica e non quello di una società. E questo, nonostante il diverso avviso della Commissione [18], è stato letto come un argomento forte a favore della non automatica riferibilità dei principi ivi enunciati al trasferimento di sede delle società. Perché, del resto, è la stessa Corte di Giustizia a suggerire tale conclusione. Dalla giurisprudenza della Corte si evince, infatti, che, se è pur vero ch e costituiscono restrizioni alla libertà di stabilimento delle società tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tale libertà [19] , è parimenti vero che una società costituita in forza di un ordinamento giuridico nazionale esiste sol o in ragione della normativa nazionale che ne disciplina la costituzione e il funzionamento [20] . E ciò significa, o sembrerebbe implicare, che rimane nella facoltà dello Stato membro non consentire ad una società soggetta al suo diritto nazionale di conservar e tale status ove intenda trasferire la sede nel territorio di un altro Stato membro, con ciò sopprimendo il collegamento previsto dal diritto nazionale dello Stato membro di costituzione [21].
Ecco allora – e proprio alla stregua di tali argomenti – che nei d iversiordinamenti, che prevedono exit taxes sul mutamento di residenza delle società, ricorre la giustificazione secondo cui rientra nella facoltà degli Stati membri subordinare tale trasferimento a date condizioni. Condizioni che, in specifico, sarebbero quelle di chiudere le pendenze fiscali rappresentate dai plusvalori latenti e dai fondi in sospensione, ovvero dal recupero delle componenti passive dedotte.
L’esigenza di chiusura e di coerenza del sistema costituisce, infatti, la giustificazione ricorre nte addotta a sostegno del mantenimento di regimi di exit taxes per il trasferimento di residenza delle persone giuridiche. E del resto, tale modello, ordinariamente costruito sulla tassazione dei plusvalori latenti sui beni non confluiti in una stabile or ganizzazione, trova esplicito riconoscimento in sede di normazione comunitaria, segnatamente nella Direttiva fusioni [22] per il caso del trasferimento di sede della SE e della SCE. Un riconoscimento, questo, visto come avvallo della compatibilità comunitaria dei regimi nazionali.
In verità, è lecito dubitare della correttezza di tale conclusione per sostenere, invece, che, dopo le sentenze de Lasteyrie ed N. , anche il modello adottato dal diritto comunitario secondario, nella citata direttiva, si palesa in con trasto con le norme sulle libertà contenute nel Trattato.
La perdita della residenza, come evento che determina la perdita della soggettività piena al potere impositivo dello Stato outbound , può certamente essere assunta a vicenda idonea a cristallizzare l e plusvalenze maturate in capo ai beni e/o al complesso aziendale della società trasferente. Ma la salvaguardia della pretesa impositiva su tali componenti da parte dello Stato di uscita ben può e deve, oggi, mostrarsi compatibile con l’affermazione delle libertà comunitarie.
Perché è chiaro che nel momento in cui il trasferimento di sede all’interno dello Stato non è considerato idoneo a determinare la tassabilità di simili componenti (plusvalenze latenti, fondi in sospensione ecc.), neppure lo può essere il trasferimento in un altro Stato membro. Diversamente, si determinerebbe una disparità di trattamento tra operatori che, ancorchénon censurabile come discriminazione, non differenziando il regime né in ragione della cittadinanza né della residenza, app are sindacabile proprio come restrizione della libertà di stabilimento, nella misura in cui rende certamente più oneroso – ben oltre a ciò che sembra proporzionale e ragionevole – il trasferimento verso uno Stato Ue rispetto a quello intrastatale [23] .
Se così è, ecco allora che la soluzione torna ad essere, inevitabilmente, quella “in negativo” elaborata dalla Corte per i casi de Lasteyrie ed N. : accertamento delle plusvalenze maturate ma con rinvio della tassazione al momento del (successivo) effettivo realizzo; assenza di garanzie; possibilità se non obbligo di ricorrere alle direttive sullo scambio di informazioni e sulla mutua assistenza nella riscossione. E questo, nonostante la Direttiva 90/434/CEE, della cui conformità e compatibilità con le libertà del Trattato è lecito, a questo punto, dubitare.
Diverse soluzioni, incentrate sull’immediata tassazione, non sembrano invero in grado di assicurare, nella stessa misura, la pienezza delle libertà del Trattato. Ciò, ad esempio, è quanto è possibile ritenere co n riguardo alla soluzione ipotizzata nella Risoluzione del Consiglio del 2 dicembre 2008 [24], dove si ammette la tassazione immediata da parte dello Stato di partenza, sollecitando solamente, da parte dello Stato di accoglienza, il riconoscimento dei valori v enali al momento del trasferimento, sì da consentire una continuità di tali valori e, così, evitare fenomeni di doppia imposizione. Il che è corretto, indubbiamente, perché come già detto è questo un problema assai grave connesso al trasferimento di reside nza e che può essere risolto solo coordinando i diversi regimi nazionali (assieme ad altri, peraltro, come ad esempio quello delle residenze plurime). Sennonché, una simile soluzione trascura l’effetto disincentivante dell’immediata imposizione dei plusval ori latenti sul trasferimento di sede all’interno di uno Stato membro, che, giova ripetere, non si ha per l’ipotesidi trasferimento all’interno del medesimo Stato. Sollecitare il riconoscimento dei valori fiscali in capo allo Stato ospitante, “costretto” ad accettare i valori così come emersi in sede di tassazione nello Stato di partenza (una sorta di paradosso del dono, che non si può rifiutare), quindi, se viene incontro ad un’esigenza indiscutibile di coordinamento non risolve il problema centrale delle exit taxes , ossia il loro effetto lesivo delle libertà di circolazione.
Peraltro, si può osservare che solo rinviando l’imposizione al momento dell’effettivo realizzo appare possibile per lo Stato di origine tassare l’avviamento formatosi nel periodo di r esidenza. Tassare l’avviamento al momento del trasferimento, in mancanza di un atto di realizzo, appare irrazionale, posto che si tratta della qualità del complesso aziendale di realizzare un plusreddito, il cui valore esprime i redditi che il complesso aziendale è in grado di produrre in futuro ma che, come tali, andranno tassati nel nuovo Stato. Nello Stato di origine, pertanto, può essere tassato solo se ed in quanto realizzato.
Il modello di exit tax sul trasferimento di sede, inoltre, deve essere comune ad entrambi gli Stati, quello outbound e quello inbound . Del resto, qui, si pone in termini ineludibili il problema del coordinamento: se, come appare evidente, si tratta essenzialmente di ripartire il potere d’imposizione sui plusvalori maturati, in rag ione del periodo di residenza [25], ecco allora che i valori riconosciuti ai fini della pretesa impositiva del primo Stato debbono essere gli stessi in base ai quali il secondo può conteggiare la propria pretesa impositiva. Diversamente, ossia in mancanza di u n reciproco riconoscimento, si possono verificare situazioni di salto d’imposizione ovvero di doppia imposizione.
Il reciproco riconoscimento e con esso il coordinamento, s’impone qui anche per un’altra ragione, che peraltro introduce una specificità deltrasferimento di sede rispetto al trasferimento di residenza delle persone fisiche: la possibilità per l’operatore di spendere fiscalmente (come maggiori ammortamenti) nello Stato di destinazione i plusvalori maturati in quello di origine. In effetti, vi p otrebbe essere un interesse in questo senso da parte dell’operatore, ma è chiaro che occorre assicurare il parallelismo tra tassazione nello Stato di origine e spesa fiscale dei plusvalori emersi in quello di destinazione. Se la soluzione è semplicemente q uella della sospensione della tassazione dei plusvalori accertati, è chiaro che questi debbono restare “congelati” nello Stato di destinazione. L’alternativa – tratteggiata nella relazione del Commissario Kovács – potrebbe allora essere quella di tassare i plusvalori maturati ed accertati nello Stato di origine mano a mano che sono spesati in quello di destinazione. Si tratta di una soluzione un po’ barocca, ma che in effetti consente l’immediata rilevanza fiscale dei plusvalori, garantendo il parallelismo di cui sopra, ma senza imporre l’immediata tassazione dell’intera plusvalenza maturata, che sarebbe in contrasto con la libertà di stabilimento.
Ancora una volta, però, la soluzione ad un problema comunitario rischia di essere non comunitaria, in quanto la sciata nuovamente alla sola responsabilità diretta ed autonoma degli Stati [26] . Del resto, come ha anche riconosciuto la Corte nel caso N. (punto 44) “in mancanza di disposizioni comunitarie di unificazione o di armonizzazione, gli Stati membri rimangono comp etenti per definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri per ripartire il loro potere impositivo, in particolare al fine di eliminare la doppia imposizione [27] .
Il limite forse maggiore, così come il profilo di massima contraddittorietà, dell’azione comunitaria, messo in rilievo dal tema delle exit taxes , è però rappresentato dalla situazione che si viene a determinare in ragione della coesistenza di Stati che consentono il trasferimento di residenza delle società (in ossequio alla regola dell’incorp orazione) e di Stati che, di contro, non la riconoscono (in ottemperanza alla regola della sede reale).
Perché anche volendo riconoscere – come sembra – il contrasto con il diritto comunitario primario delle exit taxes sul trasferimento della sede delle so cietà, almeno per come sono generalmente strutturate, ossia contassazione immediata dei plusvalori latenti, resta il problema di quegli ordinamenti (come in Germania) dove la tassazione delle plusvalenze latenti è la conseguenza non di un’opzione fiscale, bensì civilistica: il mancato riconoscimento del trasferimento della sede all’estero. In questi casi, difatti, la tassazione immediata delle plusvalenze latenti è la conseguenza fiscale della liquidazione della società imposta dallo Stato, che non riconos ce il trasferimento della sede. Qui l’effetto, a ben vedere, è il medesimo dell’applicazione delle exit taxes (tranne, eventualmente, per taluni valori, che certamente non dovrebbero essere tassati, come l’avviamento), ma si tratta di un effetto collateral e: ciò che viene imposto, difatti, è la liquidazione della società, sicché la tassazione delle plusvalenze latenti è la mera conseguenza dell’applicazione del regime fiscale ordinariamente previsto per tale specifica vicenda. La discriminazione che si compie rispetto agli operatori che trasferiscono la propria sede all’interno dello Stato, non è di matrice fiscale bensì civilistica. Sennonché, in ragione della sopra citata giurisprudenza della Corte, qui la libertà di stabilimento non può essere invocata né, di conseguenza, la giurisprudenza affermatasi nei casi de Lasteyrie ed N. ; è da chiedersi, però, se ciò sia compatibile con le libertà del Trattato. Il risultato finale, difatti, è il medesimo dell’applicazione di un exit tax . Addirittura, in questo caso, non si pone neppure un problema di coordinamento tra discipline nazionali, giacché la società viene meno nello Stato di origine, giacché obbligata a liquidare, e si costituisce ex novo in quello di destinazione: così, in mancanza di alcuna continuità, ben possono i due Stati mantenere i trattamenti distinti e non coordinati.
La situazione – come pure osservato da diversi autori – è paradossale, perché l’affermazione dei principi enunciati nei casi de Lasteyrie ed N., già controversa con riferimento alle società, incontra in questo modo un ostacolo difficilmente superabile: tanto più paradossale giacché discende dalla giurisprudenza della Corte medesima. Una giurisprudenza, questa, che se può apparire giustificata nella prospettiva circoscritta ed originar ia del diritto societario, si mostra contraddittoria proprio nel momento in cui, ampliato il quadro, se ne considerano le ricadute fiscali. Quando, insomma, si prende atto che la fiscalità diretta non costituisce una variabiledipendente, un semplice accadimento accidentale, ma può e sempre più rappresenta un fattore in grado di determinare le scelte degli operatori e, pertanto, in grado di pregiudicare la piena realizzazione degli obiettivi voluti dal Trattato.
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- Professore associato di Diritto Tributario – Alma Mater Studiorum Università di Bologna. ↵
- Trattato CE . ↵
- Direttiva 90/435/CEE e successiva modificazione . ↵
- Direttiva 90/434/CEE e successiva modificazione ↵
- Direttiva 2003/49/CEE ↵
- CGE sentenze 11 marzo 2004, causa C-9/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 44; 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, punto 21; 16 luglio 1998, causa C-264/96,ICI, punto 19, e 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y, punto 32. ↵
- C-9/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant, per il cui testo si rinvia alla precedente nota. ↵
- C-470/04 , N. ↵
- C-470/04, N , cit., punto 37. ↵
- C-470/04, N , cit., punto 51. ↵
- Direttiva 77/799/CEE nella sua versione originale. ↵
- Direttiva 2004/106/CE che ha modificato la Direttiva 77/799/CEE. ↵
- Direttiva 76/308/CEE nella sua versione originale. ↵
- Direttiva 2001/44/ CE che ha modificato la Direttiva 76/308/CEE. ↵
- C-470/04, N , cit., punti 52 e 53. ↵
- COM (2006) 825 def. , del 19 dicembre 2006, par. 4.2. ↵
- COM (2006) 825 def., cit., par. 2.2. ↵
- COM (2006) 825 def., cit., par. 3. ↵
- CGE sentenza del 5 ottobre 2004, causa C-442/02 , CaixaBank France , punto 11. ↵
- CGE sentenza del 27 settembre 1988, causa 81/87 , Daily Mail and General Trust , punto 19. ↵
- CGE sentenza del 16 dicembre 2008, C-210/06 , Cartesio , punto 110. ↵
- Direttiva 90/434/CEE del 23 luglio 1990, come modificata dalla Direttiva 2005/19/Ce del 17 febbraio 2005. ↵
- Cfr. CGE sentenza dell’11 marzo 2004, causa C-9/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 42, dove la Corte afferma espressamente che la libertà di stabilimen to, oltre ad assicurare il beneficio del trattamento nazionale nello Stato membro ospitante, vieta allo Stato di origine di ostacolare lo stabilimento in un altro Stato membro di uno dei suoi cittadini. ↵
- Risoluzione EUCOFIN 2 dicembre 2008 . ↵
- Circa la legittimità comunitaria per gli Stati di perseguire l’obiettivo della ripartizione del potere impositivo, in particolare al fine di eliminare la doppia imposizione, sentenza 7 settembre 2006, C-470/04, N. , punto 49; 13 dicembre 2005,causa C ‑4 46/03 , Marks & Spencer , punto 45. ↵
- COM (2006) 825 def., cit., par. 3.2. ↵
- Così anche le sentenze 12 maggio 1998, causa C-336/96 , Gilly , punti 24 e 30; 21 settembre 1999, causa C-307/97 , Saint-Gobain ZN , punto 57; 12 dicembre 2002, causa C-385/00 , De Groot , punto 93, e 23 febbraio 2006, causa C-513/03 , van Hilten-van der Heijden , punti 47 e 48. ↵