Studi Tributari Europei. Vol.11 (2021)
ISSN 2036-3583

L’Europa e la riforma fiscale nazionale

Adriano Di PietroAccademia delle Scienze (Italy)

Già Professore Ordinario di diritto Tributario dell’Università di Bologna

Pubblicato: 2022-09-21

Abstract

The forthcoming approval of the Italian tax reform marks typically national intentions and patterns. The reform, in fact, limits national responsibility for the harmonisation of vat, focusing on rates, whereas national responsibility for the future implementation of the European directive on reduced rates is lacking. National intentions on vat implementation then focus on tax reactions to evasion and avoidance without accompanying them with specific solutions. Comparative experience is also not taken into account for the progressivity of personal taxation, which remains differentiated in the European field. Instead, the choice of regulating capital income independently of personal taxation appears to be constant in the European experience. albeit with different rates. Constant and shared in the European sphere, then, is the national choice to accentuate the link between business income and the result of the civil balance sheet. In the same way, the regulation of corporate taxes is still a subject of wide European competition, in particular due to the different economic impact of the national rates adopted. On the other hand, any attention is lacking to a tax such as inheritance tax, whose limited tax incidence in Italy accentuates the interest for European taxpayers to locate in our country. Thus, the Italian tax regime fuels a European tax competition made evident by the large rate differential that differentiates Italian inheritance tax choices from those of other European states.

La prossima approvazione della riforma tributaria italiana marca intenti e modelli tipicamente nazionali. La riforma, infatti, limita la responsabilità nazionale di armonizzazione dell’iva, concentrando l’attenzione sulle aliquote, Manca, invece, una responsabilità nazionale per la futura attuazione della Direttiva europea sulle aliquote ridotte. Gl’intenti nazionali sull’applicazione dell’iva si concentrano poi sulle reazioni fiscali a fenomeni di evasione e di elusione senza accompagnarle però con specifiche soluzioni. L’esperienza comparata non viene presa in considerazione nemmeno per la progressività dell’imposta personale che rimane differenziata nel campo europeo. Appare, invece, costante nell’esperienza europea la scelta di regolare i redditi di capitale in maniera autonoma rispetto all’imposizione personale. anche se con aliquote diverse. Costante e condivisa nell’ambito europeo, poi, la scelta nazionale di accentuare il collegamento tra reddito d’impresa e risultato del bilancio civile. Così come ancora è tema di ampia concorrenza europea la disciplina delle imposte sulle società, in particolare per la diversa incidenza economica delle aliquote nazionali adottate. Manca, invece, ogni attenzione per un’imposta come quella di successione, la cui limitata incidenza fiscale in Italia accentua l’interesse per i contribuenti europei a localizzarsi nel nostro Paese. Così, il regime fiscale italiano alimenta una concorrenza fiscale europea resa evidente dal forte differenziale di aliquote che differenzia le scelte impositive italiane per le successioni da quelle di altri Stati europei.

Keywords: Riforma tributaria; vocazione europea; iva; irpef; imposta successioni.

1 Verso una nuova riforma tributaria italiana

L'Europa appare timida e contingente nella ricca ed articolata discussione che anima la riforma tributaria italiana prossima ventura. L'Europa appare e scompare dai confini nazionali nei quali continuano ad essere concentrate le proposte italiane. Come tali, arricchite da un impegno politico governativo, da un ampio confronto parlamentare, da una varietà di proposte imprenditoriali e sindacali, da una limitata presenza di analisi accademiche. L'Europa, quindi, rimane un riferimento necessario nel quadro ordinamentale che in tutti questi anni è stato creato dall'Unione europea anche nel campo tributario. L'Europa non è però parimenti efficace nelle scelte del progetto di riforma tributaria italiana. Qui l'ampia ed efficace tradizione europea, anche nel diritto tributario, opera con una semplice menzione nell'art.1 del disegno di legge delega. Utile, quanto basta, per ricordare, più che per rendere efficace, il rispetto necessario dell'ordinamento europeo. Anche per il settore armonizzato la disciplina europea, poi, viene menzionata come corollario di coerenza dell'efficienza nell'applicazione dell'Iva, perdendo, agli occhi del futuro legislatore nazionale, tutta l'incidenza nell'ordinamento che, negli anni, il diritto europeo ha saputo e potuto conquistare. Quell'incidenza che, nelle auspicate previsioni riformatrici, per il testo unico nazionale dovrebbe addirittura rappresentare una garanzia di normalizzazione della disciplina fiscale.

Trascurata la necessaria incidenza fiscale nazionale dell'ordinamento europeo, la previsione riformatrice dimentica anche quella dimensione comparata che la crescente integrazione del mercato europeo ha reso sempre più efficace, a mano a mano che si moltiplicavano le sollecitazioni di concorrenza fiscale nell'ambito europeo.

2 La necessaria importanza europea per l’iva

Significativa la divergenza tra intento politico e soluzioni fiscali che segna la più recente esperienza italiana per l'iva. L'aumento delle aliquote era una scelta politica che si era rivelata datata. Nel 2018, quando fu adottata, era coerente con le sollecitazioni che sia l'Unione europea, sia l' OCSE, avevano indirizzato agli Stati: quelle di aumentare il peso fiscale delle imposte indirette nel quadro generale dei finanziamenti pubblici nazionali. L'Italia aveva, infatti, previsto, con passaggi successivi, d'innalzare progressivamente l'aliquota dall'originario 22 al 25 e fino al 26,5 ponendo così la misura ordinaria del prelievo nazionale ai livelli europei più elevati.

Una scelta, questa, che è stata prima rinviata al 2019, poi “congelata”, per effetto della pandemia, fino ad essere dimenticata con l'applicazione del grande finanziamento della Next Generation UE, il fondo europeo di sostegno finanziario. Un effetto, questo, che quindi ha lasciato immutato l'ordine delle aliquote ordinarie, al pari di quanto è avvenuto per altri Paesi europei. Prevalgono ancora le aliquote più elevate nel Nord Europa. Qui, l'Ungheria al 27% è in buona compagnia con Svezia e Danimarca al 25% , Finlandia al 24%. Evidente la differenza rispetto a quelle, certo più moderate, sulle quali insistono ancora Spagna al 21%,Francia al 20% e Germania al 19% che sono i Paesi più facilmente comparabili con l'Italia dove l'aliquota ordinaria rimane al 22%.

Un assetto delle aliquote, questo, che è destinato però a mutare con l'approvazione della proposta di Direttiva Europea del Dicembre 2021 che, approvata dalla Commissione europea, deve ancora terminare la propria procedura con il consenso del Parlamento europeo. La proposta di Direttiva sembra smentire, come si legge anche nelle premesse, gl'intenti di razionalizzazione che avevano ispirati i precedenti interventi dell'Unione. Si prevede, infatti, una moltiplicazione delle aliquote ridotte a fronte, invece, di quella progressiva riduzione che ha caratterizzato negli ultimi anni la strategia europea. Ispirata dalla convinta preoccupazione di aumentare il ruolo e il peso finanziario delle imposte indirette nei bilanci degli Stati europei.

3 La varietà delle aliquote e l'eterogeneità della disciplina sostanziale nell'iva

3.1 La costellazione postnazionale delle aliquote

Certo, una fedeltà politica europea, questa italiana, che potrà essere confermata nel confronto con la varietà delle aliquote che corteggiano la solidità di quella ordinaria. Non solo quella ridotta, che già si differenzia da altre di Paesi concorrenti, ma anche quelle che, pur legate da una comune autorizzazione europea, punteggiano le scelte degli Stati. Una costellazione post nazionale che, senza l'efficacia della futura Direttiva sulle aliquote ridotte, potrebbe durare anche al di là dei limiti temporali entro i quali era stata immaginata la varietà attuale di aliquote, sollecitata da esigenze più nazionali che europee. Infatti, ancora sopravvive l'aliquota 0 in Malta, Olanda, Spagna e Irlanda; mantengono la loro efficacia aliquote super ridotte inferiori al 5% dal 2.1% al 3% e al 4%. Gli Stati, europei, poi, esibiscono, come esiti eterogenei concordati con la Commissione europea, una selva di aliquote intermedie, con ampio ventaglio di possibili varianti: del 6%, 7%, 8%, 9%, 10%, 12%, 13%.

Un assetto così differenziato e coerente con le esigenze finanziarie nazionali continua ad alimentare occasioni di confronto tra gli Stati. Queste possono diventare utili per una competizione europea, sicuramente nel settore dei servizi; quello fondato ancora sulla territorialità del soggetto utilizzatore a fronte, invece, di quella oggettiva data dallo Stato di localizzazione del bene che caratterizza le cessioni.

Una situazione, questa, di grande varietà delle aliquote, alimentata dagli esiti del confronto bilaterale con la Commissione che i singoli Stati europei sono riusciti ad ottenere, concordando la misura delle aliquote applicate in deroga e la loro efficacia nel tempo. Tale assetto potrà poi ricevere un riconoscimento europeo una volta che sia stata approvata la proposta di Direttiva presentata nel dicembre 2021. Chiaro e manifesto l'intento della Commissione Europea: introdurre un criterio di razionalizzazione nelle scelte nazionali delle aliquote ridotte che potranno adottare una varietà di soluzioni tra quelle offerte dalla futura Direttiva. Tali quelle di un massimo di due aliquote ridotte, una pari almeno al 5 %, e l'altra inferiore al minimo del 5 %, e di un'esenzione con diritto a detrazione dell'IVA a monte. Con tale varietà di scelte è prevedibile che i futuri ordinamenti tributari nazionali si potranno differenziare stabilmente, senza esigenza di negoziare le scelte con la Commissione, proprio per la diversa incidenza fiscale su varie tipologie di beni o servizi. Quella che spetterà pur sempre agli Stati europei individuare a seconda che le tipologie siano o meno comprese nell'elenco di beni o servizi di cui all'allegato III della Sesta Direttiva.

3.2 Le responsabilità nazionali nella futura articolazione europea delle aliquote ridotte

La futura scelta delle aliquote ridotte, comunque, dovrà rispettare parametri quantitativi fissati dalla proposta Direttiva. Così gli Stati non potranno adottare né aliquote ridotte inferiori al minimo del 5 % che superino i ventiquattro punti relativi a beni e servizi elencati nell'allegato III della Direttiva 2006/112/CE, nè un'aliquota ridotta inferiore al minimo del 5 % e un'esenzione con diritto a detrazione dell'IVA a monte, che superino di sette punti le percentuali per gli stessi beni o servizi. Quelli che, destinati a coprire esigenze di base, rappresentano ancora la giustificazione, offerta nei preliminari della stessa proposta di Direttiva, per garantire soluzioni di sistema. Tale la necessità sia di evitare la proliferazione nazionale di aliquote ridotte per motivi di bilancio e sia di garantire la parità di trattamento.

Le scelte italiane attuali ben riflettono la futura articolazione delle aliquote, così come prevista dalla menzionata proposta di Direttiva europea. Infatti, dopo varie evoluzioni normative, l'Italia offre ora un quadro articolato e coerente con quello definito dalla futura Direttiva. Infatti, oltre al previsto 5% prevede un'aliquota superiore del 10% ed una, inferiore, del 4%. Una scelta che, del pari, opera su diverse tipologie di beni o servizi ed è quindi specificatamente coerente con l'ampia e articolata previsione di beni o servizi previsti dall'allegato III alla sesta Direttiva.

3.3 La moltiplicazione e l'articolazione delle aliquote come uno degli obiettivi della legge delega

Tale l’impegno normativo per le aliquote iva che sarà consegnato al Governo dalla legge di Delega con una responsabilità alta: quella di riformare, come esplicitamente previsto, sia il numero e sia i livelli delle aliquote. Un impegno totale che, per essere coerentemente realizzato, dovrà affermare il primato di uno degli obiettivi, quello economico o quello finanziario che da sempre si fronteggiano. Prevedere nella responsabilità governativa di aumentare il numero delle aliquote attualmente vigenti significherebbe moltiplicare le aliquote ridotte con un effetto benefico sugli scambi ma non altrettanto per le entrate dello Stato.Una responsabilità governativa, questa, che, ampliata dall'applicazione della futura Direttiva dovrebbe, comunque, essere concordata con la Commissione europea, una volta che, con l'investitura della legge delega, il Governo faccia prevalere ragioni economiche e finanziarie per giustificare proprie e autonome scelte impositive e superare i limiti che la nuova Direttiva prevede.

Coerente, poi, con la moltiplicazione delle aliquote anche la rideterminazione del loro livello. Una scelta riformatrice che potrà coinvolgere anche l'aliquota ordinaria, rinnovando, in quest'occasione, le esigenze finanziarie che l'Italia aveva manifestato nel lontano 2018. Certo. la maggiore attenzione si concentrerà comunque su quelle ridotte. Quindi, si potrà prevedere una trasmigrazione, dall'aliquota super ridotta a quella ridotta, di tipologie e categorie di beni o servizi variamente considerati e valutati. Una scelta, pur sempre nel ricercato equilibrio di economia e finanza, che si riproporrebbe anche nell'ulteriore passaggio dall'aliquota ridotta ad un'aliquota intermedia se non addirittura a quella ordinaria. Una scelta di limitata incidenza economica e finanziaria, dato il numero ridotto di beni annoverati. Più rilevante, invece, quella che riguarda l'aliquota intermedia del 10% che annovera un buon numero di beni o servizi. Anche in questo caso la soluzione riformatrice nasce dal confronto e dall'equilibrio di esigenze finanziarie ed effetti economici, con soluzioni che possono ricondurre all'aliquota ordinaria beni o servizi attualmente annoverati tra quelli soggetti all'aliquota intermedia.

Nel quadro composito che caratterizza ora l'alternarsi delle aliquote esistenti introdurre una o più altre aliquote intermedie significherà alterare la marcia di avvicinamento dalle aliquote intermedie verso l'aliquota ordinaria o il passaggio dall'aliquota ridotta ad altra intermedia. Un esito che, se pur sollecitato dalla legge delega, se pur diviso tra l'alternarsi delle aliquote ridotte e il moltiplicarsi di aliquote intermedie, rischia di ricondurre la responsabilità politica della Commissione europea più a circoscrivere l'attuale autonomia delle scelte nazionali che a riaffermare, come accaduto per lunghi anni, la piena esigenza di una sola aliquota ridotta.

3.4 L'eterogeneità della disciplina sostanziale dell'iva

Difficile, invece, definire in termini riformatori un impegno normativo coerente con la disciplina dell'iva. Questa è divisa tra un impegno generale, quale quello di razionalizzarne la struttura, ed altri specifici che, oltre agli interventi sulle aliquote, privilegiano, invece, gli aspetti applicativi più di quelli sostanziali dell'imposta, come si può rilevare dalle formule usate dalla legge delega. Questa menziona interventi in materia di elusione, ma orienta ogni ulteriore futuro impegno riformatore alla realizzazione di un ampio e generico obiettivo. Quello di aumentare il grado di efficienza, riferito all'imposta o alla sua attuazione, rispetto alla disciplina europea armonizzata dell'iva. Una soluzione normativa che, nella sua ampiezza, si presenta certo ambigua: riconosce l'importanza della disciplina europea nel disegno riformatore, ma la orienta all'applicazione dell'iva che tradizionalmente costituisce una responsabilità normativa degli Stati membri. Come tale però in continua conformità con le interpretazioni della Corte di Giustizia. A queste va riconosciuto il merito di aver continuamente contribuito a garantire, con la responsabilità dell'uniforme interpretazione delle Direttive, anche la sempre più frequente diretta applicazione delle relative disposizioni. Ciò, a mano che la Corte di Giustizia ne riconosceva i caratteri di sufficiente determinazione, incondizionatezza e avvenuta scadenza del termine di attuazione nazionale.

Così, negli ordinamenti nazionali, e quindi anche in quello italiano, si è ampliata la responsabilità europea di applicazione della Direttiva. Per la disciplina italiana il confronto è più evidente. Infatti, l'elaborazione dell'iva, che nel lontano 1972 era sconosciuta all'ordinamento italiano, ha certo anticipato l'approvazione della sesta Direttiva europea. Per questo, quindi, la disciplina nazionale è il frutto di un'elaborazione condotta sulla base della sola e più essenziale struttura dell'iva, quale quella regolata nella prima e nella seconda Direttiva europea. Così il Governo italiano, nell'originario decreto delegato del 1972, ha adottato una disciplina ampia, articolata, analitica. Come tale arricchita da categorie giuridiche nazionali intese come migliore applicazione dei caratteri generali definiti essenzialmente in sede europea. Un esito normativo che, con tale ricorrente analiticità nazionale, si presta a una più sicura e coerente applicazione. Quella che agli interpreti nazionali appare certo più affidabile di quella derivante dalle ricorrenti e sempre più frequenti interpretazioni della Corte di Giustizia. Così i caratteri strutturali dell'iva italiana continuano ad essere testualmente affidati alle originarie scelte normative nazionali. Quelle che avevano qualificato cessioni di beni e prestazioni di servizi in maniera ampia e coerente con la tradizione giuridica italiana. Come tali resi funzionali a regolare, anche ai fini fiscali, gli effetti giuridici che l'ordinamento riconosce e tutela per la circolazione di beni e per gl'impegni giuridicamente fondati di fare, non fare, permettere. Come tali utili a stabilire, con originalità, il momento della prestazione imponibile ai fini dell'iva o ad arricchire la base imponibile, in coerenza con i caratteri nazionali di prestazione principale, accessoria e connessa.

L'indifferenza riformatrice nazionale alla disciplina sostanziale dell'iva non è però destinata a confermarne l'attuale assetto. Finisce, invece, per affidare alla dialettica tra legislatore e giudici nazionali da un lato e Corte di giustizia dall'altro, il futuro esito della disciplina nazionale. Quella che dovrà misurare l'attuale efficacia dell'ordinamento tributario italiano con l' ampia affermazione di quelle categorie economicamente ispirate che rappresentano e continuano a rappresentare, con il tempo, il più coerente esito dell'interpretazione europea. Rispetto a questa si amplia la responsabilità nazionale di garantire l'adeguamento della propria disciplina al primato indiscusso dell'ordinamento europeo e rispetto al quale l'interpretazione europea si pone come corollario. Di conseguenza, l'adeguamento, che rimane il principio ispiratore della delega per l'iva, non necessita di una specifica investitura riformatrice. Le modifiche da apportare alla disciplina iva, infatti, non corrispondono a scelte di politica fiscale nazionale. Costituiscono, invece, vincoli europei. Per questo non necessitano di un intervento riformatore che per sua stessa definizione è innovativo. Rappresentano, invece, una responsabilità nazionale per una revisione in senso europeo di tutti gli aspetti dell'iva: dai soggetti, alle operazioni, alla base imponibile, ai regimi speciali, alle sanzioni. Una responsabilità di sistema che il legislatore italiano dovrà più esplicitamente assumere più per una sua responsabilità europea che per un'investitura riformatrice come quella che deriva da una legge di delega.

4 La responsabilità europea per l'imposizione personale sui redditi

In nome delle libertà e dei principi che ispirano i Trattati europei e grazie anche alla progressiva incidenza di Direttive e Regolamenti, la forza della responsabilità europea ha già mutato regimi interni ma transnazionali come quelli dei redditi di capitale, delle operazioni transfrontaliere, di società residenti e non residenti. Ha sollecitato, inoltre, più intense collaborazioni transnazionali.

4.1 L'incerta definizione della progressività

Nonostante questo ricco quadro d'interventi, l'attenzione riformatrice italiana si è manifestamente concentrata sull'incidenza dell'imposizione personale. Quella affidata alla fluidità e all'efficacia della progressività sulla quale si è consumato, in Italia, un primo confronto tra modelli europei. Un confronto opportuno, se non, addirittura, necessario, in un mercato sempre più caratterizzato da libertà che hanno consapevolmente ispirato una concorrenza fiscale.

In un quadro europeo, come quello cui l'Italia rinnova la propria attenzione, ritorna l'interesse per quella progressività continua che continua a caratterizzare l'esperienza tedesca. Una soluzione che sembrerebbe garantire il miglior risultato di giustizia fiscale, ma che rimane di non agevole attuazione fuori dai confini tedeschi. Il concetto di “progressività continua” adottato in Germania per i redditi compresi tra 9.409 e 54.949 euro può essere spiegato come un'aliquota media che, attraverso una complessa formula matematica rivista annualmente, aumenta costantemente all'aumentare del reddito. L'aliquota di scaglione, che viene adottata per gli scaglioni di reddito superiori all'importo di 54.949 euro indicato nella tabella, funziona nello stesso modo nel meccanismo di calcolo dell'imposta come nel nostro Paese: si applica l'aliquota percentuale corrispondente allo scaglione di reddito in cui è incluso l'intero importo.

Infatti, la progressività continua è affidata, in via esclusiva, al controllo dell'Agenzia Fiscale e nasconde aspetti di applicazione non facilmente comprensibili per tutti i contribuenti. Così, si comprende perchè l'esperienza tedesca rimanga al momento unica in Europa, nonostante le potenzialità finanziarie che accompagnano la progressività continua.

L'esperienza italiana di applicare, dalla riforma del 1971, una progressività per scaglioni, rimane comune a molti altri Paesi europei. Nel tempo ne è cambiata, invece, l'incidenza economica, con scaglioni che, a seconda delle scelte nazionali, vanno dal 14 al 52%. Si tratta ancor oggi di scelte eterogenee. Accomunano l'esperienza italiana e quella spagnola, con scaglioni dal 19 al 45 %, e quella francese, dal 14 al 45%. Differenziano poi tali scelte mediterranee rispetto a quelle di altri Paesi europei. Quelli per i quali permane un'incidenza della progressività più elevata. Così per il Belgio, gli scaglioni vanno dal 25 al 50 % e per i Paesi Bassi, dal 36 al 52%.

Una scelta riformatrice sull'incidenza della progressività che, politicamente ancora attuale, dovrebbe essere sempre più oggettivamente condivisa. Per questo, potrà accomunare gli sforzi innovativi dei Paesi più vicini all'Italia, come Spagna e Francia. Sarà un impegno riformatore per le aliquote senza del quale non sarà possibile garantire né la maggiore efficacia ridistribuiva della ricchezza, anche eliminando salti d'imposta, né l'equilibrata ripartizione del sacrificio economico dei contribuenti. Sarà un impegno riformatore utile, d'altra parte, per rendere attuale la riduzione dell'incidenza fiscale della progressività a tutto favore di una maggiore incidenza fiscale delle imposte indirette. Una sollecitazione, questa, che accomuna da tempo UE ed OCSE.

4.2 L'eterogenea incidenza di detrazioni e deduzioni

Il riassetto della progressività non potrà essere adeguatamente efficace se non si procederà anche a razionalizzare le varietà di detrazioni e di deduzioni che accompagnano la liquidazione dell'imposta personale sui redditi. Quelle che, nel tempo, ne hanno talmente arricchito il quadro da indebolire le originarie funzioni che erano state attribuite: quelle di adeguare la progressività alle condizioni personali e operative dei contribuenti. Un intento condiviso negli ordinamenti europei che hanno rinnovato la fiducia nell'efficacia di deduzioni e, soprattutto, di detrazioni, ma rispetto alle quali le scelte italiane sono molto più numerose ed eterogenee, a maggior ragione, arricchite dagli effetti fiscali della pandemia.

Di qui, l'esigenza di razionalizzare, in nome degli obiettivi condivisi con altri Paesi, le scelte nazionali e, di conseguenza, di ordinarle per categorie secondo l'esperienza europea. Solo così l'Italia potrà offrire un quadro organico, e non episodico e contingente, di detrazioni e deduzioni. Ne trarranno vantaggio l'efficacia ridistribuiva della progressività, la trasparenza delle scelte d'intervento, la coerenza con le finalità di sistema che le detrazioni e le deduzioni sono chiamate ad offrire. Tutti obiettivi che, formalmente coerenti con le finalità riformatrici di un'imposta personale, dovrebbero poter rientrare tra quelli che la legge delega indica a fondamento delle soluzioni che il Governo dovrà adottare. Questo, infatti, nell'assicurare un riordino delle deduzioni e detrazioni dovrà tener conto delle rispettive finalità e, soprattutto, degli effetti sull'equità e sull'efficienza dell'imposta. Un impiego futuro orientato così più su obiettivi generali che su soluzioni specifiche che consentiranno al Governo di operare con una sostanziale discrezionalità nell'individuare e scegliere i settori d'intervento. Potrà selezionarli nella varietà e nella numerosità delle deduzioni e soprattutto delle detrazioni che negli anni hanno influenzato la liquidazione dell'imposta personale. Per questo intento normativo un sostegno di razionalizzazione potrà esser offerto al Governo proprio dalla varietà delle ispirazioni che, tradizionalmente, accompagnano le scelte delle detrazioni. Evidente, infatti, il loro effetto sull'efficacia distributiva della progressività. Altrettanto utile per la coerenza di un sistema fondato su un'imposizione personale. Questo, nel “raccogliere” tutti i redditi, dovrà pur sempre tener contro della posizione personale e familiare del contribuente cui le detrazioni sono tradizionalmente indirizzate.

Così, le future scelte governative potranno meglio realizzare obiettivi di equità, indicati nella delega. Così, potranno anche misurare l'efficienza di un'imposta che dovrà pur sempre meglio rispondere, nelle scelte e nell'articolazione delle detrazioni, al relativo carattere personale, colto, come in questo caso, per l'imposta e non solo per l'imponibile.

4.3 La debolezza della personalità

Con la progressività anche la personalità ha perso, nel tempo, l'originaria e qualificante caratterizzazione. Quella che in Italia, vedeva confluire nell'unica base imponibile varie categorie di reddito. Quella che raccoglieva, con criteri diversi di commisurazione, tutti i redditi posseduti da una persona fisica. “Merito”, questo, della diffusione di regimi applicabili alle singole categorie di reddito che hanno finito con impoverire la funzione finale della personalità. In Italia tali regimi, presidiati da aliquote diverse, si sono progressivamente diffusi. Hanno investito, nel tempo, diverse categorie di redditi: da quelli di capitale, a una parte di redditi fondiari fino ai redditi diversi. Sono arrivati anche a presidiare una parte importante del reddito professionale, oltre che d'impresa, con il parametro del fatturato di 65000 euro. Un esito che non è presente con tale varietà ed estensione in altri Paesi europei. Infatti, Francia, Germania, Spagna, Olanda, Belgio, Finlandia e Portogallo si concentrano sui redditi di capitale e comunque adottano aliquote che non presentano, certo, coerenza con la scala delle progressività dell'imposta personale. Passano, infatti, dal 26% della Spagna, al 27% della Germania, al 28% del Portogallo, fino al 30% della Finlandia.

In Italia, quindi, permane una fiducia intatta e incontrastata nelle scelte di contribuenti ai quali continuare ad offrire, in maniera sistematica, un'alternativa efficace all'imposizione progressiva. Con questa logica si comprende perché il progetto di riforma tributaria moltiplichi le applicazioni di un regime che rimette pur sempre alle valutazioni dei contribuenti la convenienza e l'opportunità dell'alternativa reale all'imposizione progressiva. Un intento non condiviso nella stessa ampiezza negli ordinamenti europei più importanti ma che, invece, l'Italia vorrebbe veder moltiplicato.

In effetti, il progetto di riforma rinnova la fiducia nell'efficacia di un regime forfettario del 15% per i redditi d'impresa e di lavoro autonomo al di sotto dei 65.000 euro di reddito. Si tratta di un regime forfettario che, pur ispirandosi alle scelte dei Paesi europei che hanno adottato la flat tax personale, non ha il carattere generale che caratterizza attualmente i Paesi baltici e Romania, Ungheria e Bulgaria. Inoltre, lo stesso disegno di legge prevede d'intervenire sui redditi di capitale con il dichiarato intento di integrare la varietà dei diversi proventi in un'unica categoria. Questa sarà soggetta ad uno stesso regime che, comunque, consentirà di sottrarsi alla naturale progressività dell'imposta personale. Per questo la proposta di riforma prevede di razionalizzare le attuali differenze tra 12,50% e 26% operanti per le diverse categorie di redditi di capitale. La soluzione prospettata non risolve, però, l'effetto di doppia imposizione che accompagna, da sempre, proventi di un'attività economica già tassata in capo alle società. Inoltre, non si preoccupa che alla ridotta disponibilità di ricchezza non corrispondano, poi, proporzionate possibilità d'investimento di capitale per i beneficiari di un reddito così ridotto. Infine, le proposte riformatrici intendono garantire una tendenziale neutralità tra i diversi sistemi di tassazione delle imprese, per limitare quelle che vengono temute come distorsioni di natura fiscale nella scelta delle forme organizzative e giuridiche dell’attività imprenditoriale. Un intento responsabile, coerente, per eliminare i vantaggi fiscali derivanti dalla scelta delle forme imprenditoriali, ma che, con una stessa base imponibile, si concentrerebbe poi sulla misura delle aliquote progressive o proporzionali da applicare.

4.4 Verso un reddito “civile”

Non meraviglia, invece, l'intento, dichiarato nel progetto di riforma, di accentuare il ravvicinamento tra bilancio di esercizio e reddito d'impresa, così come quello di rivedere la disciplina delle variazioni in aumento e in diminuzione. Ciò al fine di adeguarla ai mutamenti intervenuti nel sistema economico, allineando così, anche solo tendenzialmente, tale disciplina a quella vigente nei principali Paesi europei. Proprio con tale scelta tendenziale la riforma affida al Governo la duplice responsabilità normativa: da un lato, quella di graduare la riaffermata autonomia nazionale per la determinazione del reddito d'impresa con l'utilità nazionale e dall'altro, di continuare l'attuale ravvicinamento in relazione alle scelte compiute da altri ordinamenti europei. Lasciato così alle responsabilità nazionali tale ravvicinamento rimane un obiettivo politicamente affermato ma che non assume ragione ed efficacia di un principio. Si comprende, così, perché nelle scelte europee si alternino convergenza e divergenza per giudicare il grado di avvicinamento di bilancio e reddito. Quindi, difficile immaginare un percorso coerente con tale intento quando le esperienze europee declinano in maniera differenziata il pur comune rapporto con il bilancio di esercizio. Lo è a maggior ragione per quei componenti che concorrono ad alimentare l'imponibile. Tali quelli delle perdite, degli ammortamenti, degli interessi passivi: tutti di più dichiarata autonomia fiscale. Quindi, quello indicato nel progetto di riforma sarebbe un intervento utile, anche se di più difficile attuazione. Infatti, il ravvicinamento tra reddito e bilancio dovrebbe essere perseguito in coerenza con obiettivi che l'Italia ha ufficialmente dichiarato di voler realizzare ma che non trovano riscontro, nella loro varietà, nelle diffuse esperienze europee. Tali quelli di incentivare la transizione ecologica, le aggregazioni societarie e il rafforzamento patrimoniale.

4.5 La concorrenza per l'imposta sulle società

Anche sull'imposizione per le società prevale ancora la concorrenza fiscale europea. Quella che si manifesta subito per le aliquote, dove l'Italia si è fino ad ora aggregata al gruppo di Spagna, Belgio, Francia stabili al 25% e segna, così, un'evidente differenza con altri Paesi che, come Portogallo e Finlandia, sono scesi al 21% e al 20%. L'Italia conferma, così, la propria fiducia nella piena, anche se diminuita, responsabilità tributaria di enti societari o collettivi. Affida, quindi, solo all'imposizione personale la scelta strategica di riduzione del peso fiscale complessivo a tutto favore delle imposte indirette. Una responsabilità condivisa con altri Paesi economicamente forti. Frutto però di un'intensa competizione fiscale che al momento non sembra trovare soluzioni condivise. Complici, la mancanza di competenza europea per l'imposta societaria e gli effetti economicamente positivi offerti dalla competizione fiscale. Quelli che possono derivare dalle scelte di localizzare sedi e investimenti in Paesi che, come quelli baltici e la stessa Germania, offrono un differenziale di ben 10 punti percentuali d'imposizione societaria. Per non parlare della stabile vocazione concorrenziale di Irlanda che con la sua aliquota del 12,50 % rimane un polo di attrazione in Europa di sedi e investimenti anche extraeuropei.

Si è affermata in Europa. una dissociazione tra sedi legali e centri operativi, tra localizzazione di società e d'investimenti che indebolisce la forza e l'attualità delle libertà del mercato europeo. Quelle sulle quali da sempre si è retta l'Unione. Qui la responsabilità italiana andrebbe oltre i limiti riformatori attuali. Diventerebbe una responsabilità politica tanto più importante quanto gli effetti finanziari della pandemia impongono una seria e stabile riflessione sul ruolo della competizione fiscale nel settore delle imposte societarie.

5 La successione poco fiscale

Il silenzio, con distaccata reazione governativa, accompagna, invece, le sollecitazioni di parte politica ad una revisione robusta dell'imposta sulle successioni in Italia. Quella giustificata dal confronto attuale tra le minute aliquote nazionali e quelle europee ben più importanti. Un confronto ineguale sui patrimoni trasferiti mortis causa tra la successione di aliquote italiane del 4%, 6% e 8% e quelle che arrivano al 30% in Finlandia, al 34 % in Spagna, al 45% in Francia, fino al 50% in Germania e al 60% in Belgio. Un confronto che evidenzia una competizione fiscale ineguale. Questo fa dell'Italia l'unico grande paese europeo ad essere classificato come paradiso fiscale, mentre in Europa questa designazione favorevole era riservata solo a Paesi di minore importanza economica come Portogallo, Estonia e Slovacchia, che hanno preferito non imporre alcuna tassa di successione. Una responsabilità nazionale che è sempre più difficile da giustificare nella competizione europea e, comunque, ben in contrasto con le scelte fatte in altri settori dell'ordinamento nazionale.

6 Quale vocazione europea per la futura riforma?

La legge delega per la futura riforma tributaria italiana sembra voglia continuare a definire il futuro delle parti ritenute più importanti dell'ordinamento tributario italiano in una visione dichiaratamente domestica. Nonostante il suo manifesto impegno, la previsione della legge di delega pare scambiare però l'effetto, da attribuire alle sue future previsioni, che non può che essere nazionale, con le soluzioni normative che lo ispirano e che sono ormai diventate sempre più europee.

Infatti, le soluzioni del disegno di legge delega limitano i riferimenti europei ad un ruolo non proporzionato con le future responsabilità normative del Governo. Così, nella parte generale queste sono ricondotte genericamente all'ordinamento europeo, quasi si fosse ancora agli albori dell'integrazione economica europea, anche nel settore fiscale.

Nel settore specifico dell'iva, poi, le responsabilità concentrate sul nuovo assetto delle aliquote rivendicano un'autonomia normativa nazionale, trascurando però l'imminente investitura europea di un'innovativa articolazione delle aliquote ridotte. D'altra parte, la scelta nazionale, compresa quella dell'Italia, dell'aliquota ordinaria dovrà sempre più confrontarsi con le scelte di altri Paesi. Infatti, in un mercato diventato unico da più di 25 anni, le divergenze nazionali dell'aliquota ordinaria assumono sempre più un peso economico sia sugli scambi interni e sia sulle importazioni. Per questo destinato a provocare una competizione fiscale con gli altri Paesi europei nel quadro ormai consolidato della territorialità che affida alla destinazione dei servizi e all'esistenza del bene nel territorio il criterio d'imponibilità nazionale con l'iva.

Al di là del programmato riassetto delle aliquote, la disciplina futura dell'iva nazionale è affidata invece, dalla proposta di legge di delega, ad un ampio quanto generico impegno di razionalizzazione della struttura dell'imposta

Una previsione che, però non può evidentemente essere parimenti efficace in settori, come quello di lotta all'evasione o di recupero dell'elusione, che rimangono di persistente competenza nazionale, e negli altri che riguardano la disciplina sostanziale dell'iva. Per questa, infatti, vale pur sempre il primato della competenza europea in nome della quale poi prosegue ininterrotta l'efficacia interpretativa della Corte di Giustizia. Una responsabilità istituzionale, questa, per garantire l'uniforme interpretazione delle norme europee che arricchiscono le Direttive in materia di iva. Così si sono affermate negli anni soluzioni consolidate che hanno definito i caratteri dell'imposta; che hanno mutato le scelte nazionali con un impegno continuo anche al là di una formale ed esplicita investitura riformatrice.

Si tratta però di un primato che la stessa Corte di Giustizia ha affermato anche in settori non formalmente investiti da una competenza europea ordinata e articolata come quella delle Direttive. Resi però “europei” dal rispetto delle libertà economiche, che caratterizzano il mercato europeo, e dei principi, che pur sempre ispirano l'ordinamento europeo. Il silenzio della legge delega, anche in questo caso, non potrà impedire l'adeguamento continuo della disciplina nazionale nel settore delle imposte sui redditi, prima di tutto per i regimi di quelli transnazionali.

Invece, l'attenzione della legge di delega si concentra su di una competenza tradizionalmente nazionale: quella dell'imposta personale sui redditi e, principalmente, della sua incidenza economica. Tale quella fondata sulla serie di aliquote applicabili nella visione tradizionale della progressività. Però la riforma potrebbe essere l'occasione per il Governo italiano, che dovrà attuare i principi della legge di delega, di verificare, con attenzione e responsabilità, le esperienze europee. Certo, le differenze per l'incidenza della progressività, che in tutt'Europa continua ad accompagnare l'imposizione personale su redditi, sono ancora evidenti. Certo, una volta abbandonata l'idea di utilizzare per la riforma italiana la progressività continua, che caratterizza pur sempre l'esperienza tedesca, potrebbe esser utile graduare il nuovo assetto degli scaglioni e delle relative aliquote alle altre esperienze europee. L'Italia potrebbe, così, immaginare un più utile confronto con Paesi come Spagna e Francia con i quali condivide i parametri finanziari e la relativa incidenza fiscale sull'economia. Poterebbe essere un' utile occasione per comparare scelte fiscali ed effetti finanziari sulla distribuzione del reddito che rappresentano, al di là della preoccupazione del gettito, ormai parametri condivisi da altri Paesi europei.

In questo quadro sarebbe utile anche la comparazione; utile la razionalizzazione di detrazioni e deduzioni che affermano un'attenzione specifica a singole categorie di spese ritenute fiscalmente rilevanti ma il cui peso è stato accentuato dalla Pandemia. Un'esigenza della razionalizzazione politicamente diffusa, ma difficile da tradurre in criteri, se non addirittura, in modelli. La comparazione, quindi, con le esperienze di Paesi mediterranei potrebbe esser un primo e significativo contributo per il successo delle iniziative e per i criteri e i parametri che l'abbiano potuto giustificare.

Più coerenti con gli attuali indirizzi di politica fiscale le proposte riformatrici in materia di imposte societarie. Nonostante la nota mancanza di modelli e di misure fiscali europei, le proposte nazionali potranno confermare la fiducia in quegli indirizzi riformatori che l'Italia, come altri Paesi europei, ha adottato. Un effetto ancor più evidente per la base imponibile dell'imposizione societaria che misura un crescente ravvicinamento delle discipline nazionali con due conseguenze eterogenee. Quella della progressiva corrispondenza dei regimi nazionali all'esito della disciplina contabile e l'altra dell'efficacia crescente dei principi contabili internazionali a presidiare la base imponibile dell'imposizione societaria.

D’altra parte, la competizione europea ha sollecitato anche un altro confronto, più evidentemente legato all'incidenza economica dell'imposizione, quello sulla misura dell'aliquota. Così, sull'esempio dell'Irlanda, sono progressivamente cadute le feroci aliquote dell'imposizione societaria. Le relative riduzioni nazionali si sono andate avvicinando senza nessun vincolo europeo, ma come naturale spinta della competizione, nel comune intento di attrarre la localizzazione di società negli ordinamenti nazionali.

Non vi è traccia, invece, nel modello riformatore di interventi sull'imposta di successione. La consapevolezza del carattere originale del modello italiano, che non ha riscontri in altri Paesi comparabili per popolazione e ricchezza, non ha sollecitati interventi normativi per quote e base imponibile che potessero avvicinare il modello nazionale a quello di altri Paesi europei. Una scelta questa, ancora politicamente responsabile che continua a confinare in Italia l'imposta del novero dei tributi minori. Ciò nonostante, la responsabilità patrimoniale che negli studi teorici le viene attribuita. Con l'attuale disciplina italiana, quindi, l'imposta continuerà a offrire un vantaggio competitivo alle delocalizzazioni in Italia di pensionati ed anziani che potranno continuare a beneficiare del più mite costo fiscale della futura trasmissione mortis causa del proprio patrimonio.

In definitiva, l'impegno della futura riforma tributaria italiana continuerà ad affermarsi sulle linee evolutive, segnatamente nazionali, che hanno caratterizzato le scelte tributarie degli ultimi anni, anche prima degli effetti finanziari contingenti provocati dalla pandemia. Si manifesta una consolidata fiducia della legge di delega nelle scelte nazionali cui non corrisponde, però, un'attenzione proporzionata all'incidenza crescente che il diritto europeo ha assunto, giorno dopo giorno, negli ordinamenti tributari nazionali. Merito, questo, della progressiva armonizzazione delle imposte indirette; delle scelte europee per le imposte sui redditi in coerenza alla mobilità economica ed individuale che la creazione del mercato unico ha provocato; delle crescenti spinte concorrenziali che animano, da tempo, le scelte nazionali sull'aliquota dell'imposta societaria; della crescente responsabilità normativa per la progressiva uniformità delle basi imponibili, quella che il rispetto delle scelte nazionali alimenta e che l'applicazione dei principi contabili internazionali rafforza.

Così però la riforma nazionale rischia di essere un'occasione perduta.