Studi Tributari Europei. Vol.10 (2020)
ISSN 2036-3583

DAC 6, efficacia dell’accertamento tributario e trasparenza: fino a che punto sono legittimi i doveri di disclosure?

Antonio PerroneUniversità di Palermo (Italy)

Professore ordinario di diritto Tributario

Submitted: 2020-08-14 – Published: 2021-04-26

The DAC Directive has been emended and integrated several times during the last few years, showing a gradual increase of the mandatory automatic exchange of relevant tax information both on the objective (by increasing the scope of the relevant information) and the subjective (by increasing the recipients of the obligation) side. Therefore scholars have firstly questioned the legal interests that the mandatory automatic exchange of relevant tax information is aimed to protect in the international tax context. Yet it is also of some interest questioning to what extent the protection of those interests can legitimate a duty of “disclosure” that goes beyond the relationship between a State and its constituents, covering a relationship between a citizen and a State to which he/she does not belong. Since, although the duty of information regards directly the State of belonging, its effect extends also towards different States and persons.

I molteplici interventi sull’originaria struttura della direttiva DAC hanno comportato un notevole ampliamento degli obblighi di informazione fiscalmente rilevanti tanto sotto il profilo soggettivo (ampliamento della platea degli obbligati), quanto sotto quello oggettivo (ampliamento degli obblighi). Ciò induce, in prima battuta, a chiedersi quali possano essere i beni o interessi giuridici tutelati dallo scambio automatico di informazioni fiscalmente rilevanti nel contesto internazionale. Ma induce altresì a domandarsi entro quale misura la tutela di quei beni ed interessi possa legittimare un obbligo di disclosure che attiene non ad un piano domestico dei rapporti fra l’obbligato ed il proprio Stato di appartenenza, ma ad un piano eurounitario in cui l’obbligo di informazione, seppur diretto allo Stato di appartenenza, esplica i suoi effetti anche nei confronti di ordinamenti differenti e di soggetti che in essi operano.

Keywords: DAC 6; trasparenza; dovere di disclosure; membership principle.

1 Dalla DAC 1 alla DAC 6: come mutano e si ampliano i doveri di informazione fiscale

Un denominatore comune che sembra caratterizzare i diversi interventi che nel tempo hanno modificato ed integrato la Direttiva 2011/16/UE (Directive on Administrative Cooperation; cd. DAC 1) in tema di scambio di informazioni fiscalmente pertinenti è quello dell’esponenziale incremento dei doveri richiesti ai contribuenti o, più in generale, ai destinatari delle relative disposizioni. Lungo questa linea si pone certamente la Direttiva 2018/822/UE (cd. DAC 6), per la quale nel nostro ordinamento è attualmente in discussione lo schema di decreto legislativo di recepimento1 (approvato nel Consiglio dei Ministri del 20 luglio scorso e in attesa di pubblicazione) e che coinvolge anche gli intermediari2 che intervengano nella realizzazione, consulenza o commercializzazione dei cd. «meccanismi transfrontalieri» sottoposti all’obbligo di notifica.

In via estremamente sintetica, e con specifico riferimento al profilo dei doveri dei contribuenti (o dei soggetti diversamente coinvolti), occorre ricordare che l’evoluzione (non soltanto europea, ma anche dei Paesi in area OCSE) sulla materia dello scambio di informazioni si è diretta a più riprese verso un «mandatory disclosure regime».3 La DAC 1 aveva previsto sin dall’origine tre modelli di scambio di informazioni: quello su richiesta, quello spontaneo e quello obbligatorio.

Nel modello su richiesta uno Stato che ha fondata ragione di ritenere che un altro Stato sia in possesso di elementi utili ai fini dell’accertamento della base imponibile di un contribuente residente nello Stato richiedente, ed al contempo esercente un’attività o in possesso di titoli, conti bancari, ecc. nello Stato destinatario della richiesta, può avanzare a quest’ultimo una richiesta concernente la trasmissione di informazioni, caratterizzate, peraltro, dalla clausola della «prevedibile pertinenza»4 (alla cui sussistenza è rimessa la concreta attuazione dello scambio).

Nel modello cd. spontaneo uno Stato autonomamente decide di trasferire ad altro Stato informazioni fiscali ritenute pertinenti relativamente ad un contribuente residente nello Stato di destinazione delle informazioni ed esercente attività nello Stato che le eroga.

La Commissione Europea, tuttavia, come già si evince dal decimo considerando della DAC 1, si è mostrata immediatamente consapevole che un sistema rimesso al modello dello scambio spontaneo o su richiesta era necessariamente destinato ad avere un’efficacia limitata, riconoscendo altresì che «the mandatory automatic exchange of information without preconditions is the most effective means of enhancing the correct assessment of taxes in cross-border situations and of fighting fraud». È stato quindi da subito previsto un approccio step-by-step verso un modello di scambio obbligatorio ed automatico di informazioni.

1.1 (segue) La DAC 2

Ai sensi dell’art. 8 della DAC 1, lo scambio obbligatorio di informazioni era originariamente limitato a specifiche ipotesi (redditi da lavoro dipendente e pensioni, compensi agli amministratori, prodotti assicurativi ramo vita, proprietà immobiliari e redditi da beni immobili). Tuttavia, la preventiva approvazione, nel 2010, da parte degli Stati Uniti del Foreign Account Tax Compliance Act (FACTA)5 e la successiva approvazione, nel 2014 da parte dell’OCSE, dello standard globale per lo scambio di informazioni, noto come Common Reporting Standard (CRS),6 hanno messo in evidenza l’inadeguatezza del modello europeo e spinto l’Unione ad adeguarsi. La risposta europea agli stimoli provenienti dall’ambito internazionale è stata l’approvazione della Direttiva 2014/107/UE (in modifica della Direttiva 2011/16/UE) nota come DAC 2.7 L’influenza degli sviluppi internazionali in tema di cooperazione nello scambio di informazioni (soprattutto di carattere bancario e finanziario8) quale strumento per combattere l’evasione e la frode fiscale internazionale, il ruolo del G20 e del G8, l’approvazione del FATCA e di un “single global standard for automatic exchange of tax information” a livello OCSE, traspaiono chiaramente dal secondo considerando della DAC 2, la cui intera struttura è ispirata al CRS e risente dell’impostazione del FATCA. Peraltro, una delle ragioni che hanno indotto all’approvazione di tale direttiva è la consapevolezza che diversi Stati membri, utilizzando l’opportunità concessa dall’art. 19 della DAC 1, stavano procedendo a stipulare autonomamente con gli Stati Uniti accordi per lo scambio di informazioni basati sul modello FATCA e sul CRS, minando così l’uniformità del mercato interno. L’ottavo considerando della DAC 2 sottolinea, per l’appunto, che la strada autonomamente intrapresa da più Stati membri, se da un lato manifestava la loro disponibilità ad uno scambio di informazioni più aperto nel settore bancario e finanziario, dall’altro era foriero di possibili asimmetrie all’interno del mercato unico e pertanto l’introduzione di una normativa unionale che uniformasse ed armonizzasse le procedure di scambio a quelle in essere in ambito internazionale avrebbe evitato il ricorso al richiamato art. 19 della DAC 1.

Con la DAC 2 pertanto è stato richiesto, in particolare alle istituzioni bancarie e finanziarie all’interno degli Stati membri, di adeguare le loro regole di reportistica e di due diligence a quelle previste nel Model Competent Authority Agreement e nel CRS varati dall’OCSE (sulla cui struttura sono basate le previsioni contenute negli Annex I e II della DAC 2). Peraltro, l’intento di costruire un’area comune per lo scambio di informazioni, in linea con le previsioni OCSE, è espressamente indicato nel tredicesimo considerando della direttiva, che suggerisce di utilizzare il Commentario al Model Competent Authority Agreement ed il CRS «as a source of illustration or interpretation».

1.2 (segue) La DAC 3

Il successivo passo verso l’ampliamento dei doveri di comunicazione, nonché verso una maggiore omogeneizzazione con gli standard internazionali in tema di scambio obbligatorio di informazioni, è stato attuato con la Direttiva 2015/2376/UE (cd. DAC 3) che, ancora una volta, è intervenuta nel modificare ed integrare la DAC 1.

Questa volta oggetto dello scambio obbligatorio di informazioni sono i ruling preventivi transfrontalieri (advance cross-border rulings)9 e gli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento (advance pricing arrangements), stante la consapevolezza - già precedentemente manifestata dalla Commissione [si veda COM (2012)22 final] - che questi strumenti possono giocare un ruolo decisivo nel consentire la trasmigrazione di utili realizzati in Paesi a fiscalità ordinaria verso Paesi a fiscalità privilegiata. Analoga consapevolezza, peraltro, è stata manifestata dal Consiglio europeo nelle sue conclusioni del 18 dicembre 2014. In ambito unionale è così maturata la convinzione che un efficace strumento per la lotta ai processi di profit-shifiting (realizzati soprattutto dalle multinazionali, ma con il supporto non indifferente delle amministrazioni di taluni Paesi dell’Unione) poteva essere la condivisione fra le amministrazioni fiscali degli Stati membri di informazioni concernenti quegli accordi e/o quegli strumenti che meglio si prestavano (e si prestano) alla realizzazione di tali finalità elusive.

Si è quindi proceduto ad integrare l’art. 3 della DAC 1, mediante l’aggiunta del punto 14, per definire gli advance cross-border ruling10 e, mediante l’aggiunta del punto 15, per definire gli advance pricing arrangement,11 così come si è proceduto ad individuare l’ambito delle operazioni potenzialmente a rischio di profit-shifiting che devono formare oggetto di comunicazione. Rientrano in quest’ambito gli accordi e le decisioni: i) sui prezzi di trasferimento unilaterali, bilaterali o multilaterali; ii) concernenti l’esistenza o l’assenza di una stabile organizzazione in un determinato Paese; iii) concernenti l’esistenza o l’assenza di fatti potenzialmente influenti nella determinazione della base imponibile di una stabile organizzazione; iv) che stabiliscono lo status fiscale di un’entità ibrida (hybrid entity) in uno Stato membro che si relazioni a soggetti residenti in altre giurisdizioni; v) concernenti l’ammortamento di un asset in uno Stato membro, qualora l’asset sia stato acquisto da un gruppo operante in un’altra giurisdizione. Dal punto di vista soggettivo l’obbligo di comunicazione riguarda tanto i contribuenti, soprattutto gruppi di imprese e multinazionali, che hanno stipulato un accordo su prezzi di trasferimento, quanto le amministrazioni fiscali degli Stati membri che hanno partecipato alla stesura di un ruling preventivo transfrontaliero. Proprio a carico di queste ultime la DAC 3 ha richiesto, ai fini della comunicazione delle informazioni pertinenti, l’utilizzo di uno standard form che tenesse conto di quanto elaborato del Forum OCSE on Harmful Tax Practices all’interno dell’Action Plan BEPS.12

1.3 (segue) La DAC 4 e la DAC 5

L’opportunità, particolarmente sentita nel contesto unionale, tanto di adeguarsi alle previsioni del progetto BEPS, quanto di giocare un ruolo di primaria importanza nei tavoli delle trattative a livello internazionale, ha indotto l’Unione a prevedere, poi, un ulteriore ampliamento dei doveri di comunicazione, diretto, questa volta ed in particolar modo, ai gruppi societari ed alle multinazionali.

Ancora una volta, dunque, tramite la Direttiva 2016/881/UE (cd. DAC 4) si è proceduto ad integrare ed ampliare la portata della DAC 1. L’impianto strutturale che è stato preso a base per la predisposizione della DAC 4, e per l’individuazione degli obblighi di informazione in essa contenuti, è quello dell’Action 13 Plan BEPS, che - come noto - ha prestato particolare attenzione alle strategie che i diversi Paesi possono adottare per rendere più trasparenti gli accordi in tema di transfer price, spesso utilizzati (distorcendone la funzione effettiva, che non è ovviamente elusiva) dai gruppi multinazionali per realizzare complessi procedimenti di Base Erosion and Profit Shifting, riducendo così il loro carico fiscale a livello globale. L’Action 13 Plan BEPS prevede, a riguardo, tre specifici strumenti che hanno l’obiettivo, per l’appunto, di rendere maggiormente trasparenti gli accordi in materia di transfer price. Esso in particolare prevede: i) la creazione di un Master File per la raccolta di informazioni, concernenti i gruppi multinazionali a livello globale, che dovranno essere messe a disposizione delle amministrazioni fiscali dei Paesi ove quei gruppi svolgono la loro attività; ii) la predisposizione di un Country File Report, che raccoglie per ogni Paese le informazioni riguardanti le transazioni infragruppo fra le società (o le stabili organizzazioni) che operano in quel Paese; iii) la predisposizione del Country-by-Country Report, che raccoglie una serie di informazioni (concernenti, ad esempio il reddito, gli utili, le imposte pagate, i dipendenti, gli asset materiali e immateriali, ecc.) riguardanti ogni giurisdizione in cui il gruppo multinazionale opera.

Peraltro, dal primo e secondo considerando della DAC 4 emerge con chiarezza la consapevolezza di quanto siano difficili le sfide poste dai processi di evasione e di elusione internazionale, così come emerge la consapevolezza che quei processi possono incidere anche sull’equità complessiva del sistema fiscale, poiché gli strumenti di rimozione dell’imponibile maggiormente complessi e sofisticati difficilmente possono essere messi in atto da imprese di piccole e medie dimensioni, con la conseguenza che il carico fiscale di queste ultime diventa paradossalmente superiore a quello delle multinazionali. Da qui la conclusione, evidenziata nel terzo considerando della DAC 4, che lo scambio automatico ed obbligatorio di informazioni fiscali può essere uno strumento di indubbia utilità nell’affrontare tali sfide. Fatte tali premesse, la Commissione ha ritenuto che il set di strumenti previsti all’interno dell’Action 13 Plan BEPS potesse considerarsi indubbiamente efficace ed è sulla base di queste premesse che la DAC 4 ha disposto l’inserimento, all’interno della DAC 1, dell’art. 8 bis bis che ha previsto l’introduzione dell’obbligo di redazione (recte, che gli Stati membri debbano adottare le misure necessarie per prevedere l’introduzione dell’obbligo di redazione) del Country-by-Country Report (CbCR)13 a carico della controllante capogruppo residente ai fini fiscali nel territorio di uno Stato Membro, o comunque (laddove la capogruppo non sia residente UE) a carico di qualsiasi altra entità del gruppo tenuta alla rendicontazione, stabilendo altresì che la competente autorità di uno Stato membro che abbia ricevuto il report debba comunicarlo, mediante scambio automatico, a ogni altro Stato membro in cui, in base alle informazioni del report, una o più entità costitutive del gruppo tenuto alla rendicontazione sono residenti a fini fiscali o sono soggette a imposte per le attività svolte tramite una stabile organizzazione.

In questo breve excursus del percorso di ampliamento ed integrazione della DAC 1 un riferimento essenziale (poiché non strettamente aderente alle tematiche di carattere fiscale) deve essere fatto anche alla Direttiva 2016/2258/UE (cd. DAC 5), in tema di informazioni antiriciclaggio, che ha disposto l’obbligo per gli Stati membri di fornire alle autorità fiscali l’accesso alle procedure di adeguata verifica della clientela applicate dalle istituzioni finanziarie ai sensi della direttiva 2015/849/UE del Parlamento europeo e del Consiglio.

1.4 (segue) La DAC 6

Di ben altra importanza (ai fini del presente scritto) è invece la Direttiva 2018/822/UE (cd. DAC 6) che, allo stato, rappresenta l’ultima modifica ed integrazione della Direttiva 2011/16/UE.

Il punto di riferimento della DAC 6 sono gli strumenti fiscali «potenzialmente aggressivi» (così il secondo considerando) e cioè quei meccanismi che operano contestualmente su più giurisdizioni e sono idonei a trasferire gli utili imponibili verso regimi tributari maggiormente favorevoli o hanno come effetto quello di ridurre le imposte esigibili nei confronti dei contribuenti. Tali strumenti sono definiti come «maccanismi transfrontalieri di pianificazione fiscale potenzialmente aggressiva».14 Va precisato, invero, che la potenzialità aggressiva di tali meccanismi non è limitata ai processi di erosione dell’imponibile nei Paesi a fiscalità ordinaria e nella capacità di trasmigrare profitti verso Paesi a fiscalità privilegiata, ma attiene anche al requisito della trasparenza. Come emerge, infatti, dal 4°, 5° e 6° considerando della DAC 6, tali meccanismi possono essere altresì idonei ad eludere alcuni degli obblighi di comunicazione previsti dal CRS e possono dunque essere idonei a fornire ai titolari effettivi la «protezione di strutture non trasparenti». Da qui il ruolo centrale che possono assumere i cd. intermediari e cioè coloro che intervengono nella predisposizione o commercializzazione del meccanismo o che comunque forniscono consulenza in ordine alle modalità pratiche di attuazione dello stesso.15

Tali premesse giustificano, nella logica della DAC 6 un obbligo «generalizzato» di comunicazione di informazioni concernenti tali meccanismi, che si estende a tutti gli attori coinvolti nell’elaborazione, commercializzazione, organizzazione e gestione dell’attuazione degli stessi, nonché a coloro che forniscono assistenza o consulenza, ma non esclude – laddove il consulente non possa effettuare la comunicazione perché vincolato da segreto professionale o laddove il meccanismo sia predisposto direttamente dal contribuente – il coinvolgimento diretto del contribuente (così l’ottavo considerando della DAC 6).

La complessità ed il grado di sofisticazione che tali meccanismi hanno raggiunto nel tempo, e la loro capacità di adeguarsi alle contromisure prese dagli Stati, ha indotto la Commissione a ritenere che fosse utile, non soltanto una definizione generica del «meccanismo transfrontaliero», quanto una precisa individuazione degli elementi distintivi degli stessi (c.d. «hallmarks»16); elementi che sono stati indicati nell’allegato della DAC 6 (che oggi costituisce l’allegato IV della DAC 1). Sulla base di tali considerazioni, la DAC 6 ha disposto l’introduzione all’interno della DAC 1, dell’art. 8 bis ter, in base al quale ciascuno Stato membro è tenuto ad adottare le misure necessarie per imporre agli intermediari la comunicazione alle autorità competenti di informazioni sui meccanismi transfrontalieri soggetti all’obbligo di notifica, disponendo altresì tempi e modalità di notificazione delle informazioni. La stessa norma prevede, poi, l’esenzione per l’intermediario dall’obbligo di notifica quando ciò violerebbe il segreto professionale cui lo stesso è tenuto sulla base del diritto nazionale dello Stato membro, stabilendo, però, che ciascuno Stato membro debba adottare le misure necessarie per imporre agli intermediari impossibilitati di notificare l’obbligo di comunicazione ad un eventuale altro intermediario o, in assenza, al contribuente definito «pertinente».17 Così come è previsto che, laddove non sussista un intermediario, l’obbligo di notifica del meccanismo transfrontaliero debba ricadere sul contribuente che ne trae beneficio. Allo scopo di rendere realmente efficace l’obbligo di comunicazione dei meccanismi transfrontalieri è poi previsto che l’autorità competente di uno Stato membro che ha ricevuto le informazioni è tenuta a trasmetterle, attraverso la modalità dello scambio automatico, alle autorità competenti di tutti gli Stati membri.

2 I beni giuridici e gli interessi tutelati dall’intero impianto normativo della DAC

La breve disamina, sopra svolta, degli interventi modificativi ed integrativi della DAC, mostra, come premesso, che il sistema dello scambio automatico ed obbligatorio di informazioni ha subito un notevole ampliamento e con esso, ovviamente, si sono anche accresciuti i doveri di comunicazione, per i quali è possibile registrare un’estensione tanto sotto il profilo oggettivo, quanto sotto quello soggettivo. Sotto il primo profilo, da un impianto originario che prevedeva obblighi di informazione solo con riferimento a specifiche (quanto ridotte) categorie reddituali (redditi da lavoro dipendente, pensioni, redditi immobiliari, ecc.) si è passati ad un impianto molto più esteso che comprende informazioni di carattere bancario e finanziario, informazioni su accordi in tema di transfer pricing e ruling transfrontalieri, sulle giurisdizioni di esercizio dell’attività dei gruppi, sui meccanismi transfrontalieri, ecc. Sotto il profilo soggettivo, analogamente, il dovere di informazione si è esteso dai meri possessori di specifiche categorie reddituali alle istituzioni bancarie e finanziarie, alle amministrazioni che intervengono nella stipula dei ruling, ai gruppi societari ed alle multinazionali che operano all’interno dell’UE, fino ad arrivare (con la DAC 6) agli intermediari ed ai cd. contribuenti pertinenti. Orbene, è proprio l’ampiezza dei doveri che oggi caratterizza il sistema dello scambio automatico ed obbligatorio di informazioni, così come l’estensione del suo ambito soggettivo, che induce il giurista in prima battuta ad interrogarsi su quali siano i beni giuridici o, sotto altro profilo, gli interessi che quell’impianto intende tutelare e, contestualmente, perché per la tutela di quei beni e di quegli interessi si sia inteso privilegiare taluni strumenti rispetto ad altri.

2.1 (segue) L’interesse ad una più efficace attività di accertamento fiscale

La risposta più ovvia, o quantomeno immediata, è che lo scambio automatico ed obbligatorio di informazioni fiscali pertinenti sia volto a tutelare (e se vogliamo, rafforzare) l’efficacia dell’azione di accertamento delle amministrazioni tributarie degli Stati membri. Insomma, dietro l’ampliamento della portata dei doveri di informazione vi sarebbe la consapevolezza che i fenomeni di evasione ed elusione oggi più che mai si sono “globalizzati” in uno con la globalizzazione dell’economia e, pertanto, gli strumenti di cui dispone un singolo Stato per raccogliere informazioni essenziali ad un adeguato accertamento tributario sono spesso insufficienti (quantomeno lo sono tutte quelle volte che la riduzione indebita dell’imponibile si attua sfruttando accordi o maccanismi transfrontalieri). In quest’ottica il dovere del “contribuente” e degli “intermediari” (ma anche delle stesse amministrazioni) di fornire informazioni pertinenti, da un lato, e lo scambio automatico di informazioni fra Stati, dall’altro, certamente facilita il compito dei funzionari accertatori delle amministrazioni fiscali dei diversi Paesi, rendendo immediatamente noti taluni dati “a cavallo” fra più giurisdizioni che, in assenza del meccanismo obbligatorio ed automatico, richiederebbero complicati processi di richiesta ed ottenimento dei dati, con evidenti aggravi burocratici.18

2.2 (segue) La “trasparenza”

Non è, però, esclusivamente sul piano del rafforzamento dell’azione accertativa che l’impianto complessivo delle varie direttive DAC interviene. Anzi, proprio con riguardo alla DAC 6 sembra che essa, nella misura in cui enfatizza la «potenziale aggressività» dei meccanismi fiscali oggetto di comunicazione obbligatoria, non sia indirizzata esclusivamente a fornire un supporto specifico alle amministrazioni degli Stati membri circa l’acquisizione di informazioni idonee all’accertamento fiscale, ma sia più che altro volta a tutelare il criterio della “trasparenza”,19 rendendo visibili dei meccanismi potenzialmente a rischio elusivo o strumenti idonei ad eludere gli obblighi informativi previsti dalle direttive precedenti.

In realtà, a ben riflettere, il requisito della potenzialità elusiva dello strumento – e con esso la necessità di renderlo noto, tutelando così la trasparenza – sembra caratterizzare l’intera linea evolutiva sopra tratteggiata, quanto meno dalla DAC 3 in poi. Anche gli advance cross-border ruling e gli advance pricing arrangement sono accordi a “potenzialità elusiva latente”; anche in questo caso, dunque, l’obbligo di disclosure tutela l’interesse alla “trasparenza”, allertando le amministrazioni finanziarie sull’esistenza di accordi che possono determinare (ma non necessariamente determinano) lo spostamento di profitti per finalità di minimizzazione del carico fiscale. Ciò vale ancor più per le informazioni oggetto di scambio ai sensi della DAC 4, ove è espressamente previsto (cfr. l’art. 16, par. 6, della DAC 1, aggiunto dalla DAC 4) che le informazioni tratte dal CbCR non hanno un’immediata funzione di ausilio all’attività di accertamento ma vanno più che altro utilizzate al fine di valutare «i rischi elevati legati ai prezzi di trasferimento e altri rischi connessi di erosione della base imponibile e di trasferimento degli utili, compresa la valutazione del rischio di inosservanza da parte dei membri del gruppo di Imprese Multinazionali delle norme applicabili in materia di prezzi di trasferimento, e se opportuno a fini di analisi economiche e statistiche». Occorre peraltro ricordare che la norma in oggetto (il citato art. 16, par. 6) aggiunge espressamente che «[l]e rettifiche dei prezzi di trasferimento da parte delle autorità fiscali degli Stati membri riceventi non si basano sulle informazioni scambiate a norma dell’articolo 8 bis bis (e cioè quelle contenute nel CbCR; ndr)», così confermando che la principale finalità della Direttiva non è quella di fornire informazioni immediatamente utilizzabili per l’accertamento fiscale, quanto quella di garantire, in primo luogo, la trasparenza di elementi a potenziale rischio di indebita erosione della base imponibile, allertando le amministrazioni finanziarie degli Stati membri ed invitandole ad una adeguata valutazione degli stessi. D’altro canto anche il criterio della «prevedibile rilevanza», cui sin dall’origine era stato subordinato lo cambio obbligatorio di informazione ai sensi della DAC 1, richiede, seppur in maniera meno diretta ed evidente, una valutazione del potenziale “rischio fiscale” (in termini elusivi o di evasione) dell’informazione da scambiare.

2.3 (segue) La due accezioni della “trasparenza”. Trasparenza e cooperazione internazionale

Queste minime riflessioni ci convincono che l’intero impianto della Directive on Administrative Cooperation (con tutte le sue modifiche ed integrazioni) è volto a tutelare in egual misura (seppur con un grado diverso di intensità) l’efficacia dell’azione di accertamento delle amministrazioni fiscali degli Stati membri (con riguardo alle attività transfrontaliere) ed il principio di trasparenza. Quest’ultimo, però, a bene vedere non può essere inteso soltanto come conoscibilità di meccanismi e strumenti di potenziale aggressività fiscale, ma deve essere concepito anche come il progressivo abbattimento dei limiti che gli Stati pongono alla libera circolazione di informazioni fiscalmente rilevanti e quindi come strumento di cooperazione con altri Stati (anzi è proprio sotto tale profilo che la trasparenza può assurgere a principio informatore di un ordinamento giuridico).

Proprio quest’ultima accezione della trasparenza, intesa come criterio che valorizza la cooperazione internazionale, e quindi come principio che gli Stati devono perseguire se vogliono a pieno titolo inserirsi nell’assetto cooperativo globale, desta riflessioni di particolare interesse per un giurista.

In primo luogo, il requisito in questione sembra richiamare un più ampio valore di fondo che è quello dell’equità fiscale,20 intesa in un duplice senso: i) garantire che ad ogni giurisdizione sia riconosciuta la sua giusta porzione di gettito in considerazione dei redditi che al suo interno (potremmo dire nel su mercato) sono prodotti - che è un concetto di equità in senso assoluto; ii) fare in modo che ogni contribuente paghi, nella giurisdizione di riferimento, la sua giusta quota di imposte anche rispetto ad altri contribuenti che non possono avvalersi degli strumenti che consentono l’erosione dell’imponibile - concetto, questo, di equità in senso comparato.21 Se ben si riflette, infatti, la trasparenza non ha soltanto una funzione di recupero dell’imponibile, consentendo alle amministrazioni finanziarie di conoscere e valutare gli strumenti e i meccanismi di potenziale riduzione del carico fiscale, e quindi di esercitare l’azione di accertamento, ma ha anche una funzione preventiva, diremmo quasi deterrente, poiché la consapevolezza dell’obbligo di rendere noto il meccanismo che minimizza la contribuzione in una data giurisdizione dovrebbe indurre al non utilizzo del meccanismo stesso. È proprio in questa sua funzione preventiva che la trasparenza si coniuga con la cooperazione, essendo evidente che, quanto maggiore è il numero degli Stati che si conformano al criterio, tanto maggiore sarà la sua funzione deterrente rispetto all’utilizzo di accordi o meccanismi di indebita riduzione del carico fiscale. La trasparenza dunque diviene funzionale, in un contesto infrastatuale, al valore dell’equità fiscale.

In secondo luogo, la trasparenza sembra oggi essere un “must have” e cioè un requisito che uno Stato deve “strategicamente” possedere se non vuole rinunciare agli effetti positivi della cooperazione fiscale, ma soprattutto se non vuol subire gli effetti negativi che possono derivare dal rimanere esclusi da quel processo di sviluppo cooperativo che caratterizza oggi l’arena fiscale internazionale.22 Sotto quest’ultimo profilo il frequente rimando – che è possibile riscontrare in diversi considerando delle Direttive sopra sommariamente esaminate – alle previsioni OCSE, al FATCA, al CRS, al progetto BEPS, etc., sembra mostrare la volontà dell’Unione (o forse è più corretto il riferimento all’opportunità della stessa) di adeguarsi ad un contesto internazionale in cui la trasparenza (nel senso sopra delineato) sembra assurgere ad un valore che gli Stati devono coltivare se vogliono giocare “alla pari” nel contesto globale. E questo, volendo, potrebbe spiegare come mai lo scambio obbligatorio ed automatico di informazioni sia una forma di cooperazione che (non soltanto in Europa, ma anche a livello globale) ha ottenuto più successo di altre. Sembrano evidenti, infatti, in questo particolare settore quelli che Tsilly Dagan definisce come i network effects della cooperazione internazionale.23

2.4 (segue) I cd. “network effects” e le ragioni “strategiche” che spingono alla cooperazione fiscale internazionale

Muovendo da una ricostruzione storica del percorso di sviluppo della cooperazione in materia fiscale, la studiosa israeliana evidenzia come una decisiva importanza abbia avuto la fase di cd. Information Sharing and Transparency (lasciando intendere, peraltro, che l’obbligo di scambio automatico di informazioni è strettamente connesso alla valorizzazione del criterio di trasparenza), analizzata tanto con riferimento agli accordi bilaterali, quanto con riferimento agli strumenti ed alle convenzioni multilaterali. L’idea di fondo che contraddistingue il lavoro dell’Autrice è, però, che la cooperazione, anche – e forse soprattutto – nel campo dello scambio automatico ed obbligatorio di informazioni, non sempre persegua il miglior interesse dei Paesi che decidono di prendervi parte. Soprattutto per gli Stati in via di sviluppo, la circostanza che essi siano disposti a cooperare non sembra essere di per sé prova che la cooperazione soddisfi al meglio i loro interessi (se non altro per i costi che essa comporta per la sua effettiva applicazione24), tanto da indurre l’Autrice a domandarsi: «[…] is it in the best interests of developing countries to cooperate with such transparency-enhancing processes given the extra costs and lower benefits they must consequently bear?».25 Perché allora la cooperazione internazionale, soprattutto con riferimento alla scambio automatico di informazioni ha avuto così tanto successo? Un successo che, come si è visto, riguarda altresì il contesto europeo. La risposta della Dagan è che l’arena fiscale internazionale è ormai un campo in cui gli Stati agiscono strategicamente, operando le loro scelte non soltanto sulla base degli specifici vantaggi che essi possono conseguire in campo domestico, ma valutando altresì le conseguenze che possono avere all’interno del loro ordinamento (così come all’interno del loro mercato) le scelte degli altri Stati, ed è quest’ultimo fattore che, più di altri, influisce sulla scelta di uno Stato di cooperare.

Non è possibile, in questo contesto, analizzare tutti i campi della cooperazione internazionale, che coinvolgono principalmente scelte “strutturali” dei sistemi tributari dei diversi Paesi (e cioè scelte relative alle modalità di tassazione delle società, dei dividendi, delle royalties e degli interessi su investimenti operati da e verso l’estero, così come scelte sul metodo della deduzione, del credito d’imposta, o dell’esenzione per evitare la doppia tassazione, etc.), ci concentreremo pertanto sul solo aspetto della cooperazione avente per oggetto lo scambio di informazioni (e cioè quella forma di cooperazione che sta alla base della DAC). Orbene, con riguardo a questo specifico aspetto, sembra difficile poter negare l’influenza che ha sugli investitori stranieri la possibilità di confrontarsi con standard comuni ed uniformi in diversi Paesi. Se non altro, in termini di compliance è certamente ragionevole sostenere che l’investitore straniero, preso atto dello sviluppo a livello globale del sistema dello scambio automatico di informazioni, preferirà confrontarsi (essere “compliant” come suol dirsi oggi) con quei Paesi che richiedono le stesse informazioni (o comunque informazioni sostanzialmente comparabili), che adottano regole e standard comuni, un’identica (o analoga) reportistica, formulari e modelli comparabili, etc. L’esistenza di norme comuni e standard condivisi fornisce certezza all’investitore. Ciò significa che tanto maggiore è il numero di Paesi che adottano standard e regole comuni, tanto più alto sarà il valore di quelle regole e di quegli standard per coloro che sono chiamati ad uniformarvisi.

Da qui la convinzione che la scelta di uno Stato di aderire al sistema dello scambio obbligatorio ed automatico di informazioni sia indotta quantomeno da due fattori esogeni: i) il fattore strategico“,26 per cui anche se il costo dell’adesione può essere elevato, esso è pur sempre inferiore a quello che uno Stato dovrebbe affrontare restando al di fuori di ciò che viene definito come «treaty club»; ii) il fattore «network effects»,27 inteso come catalizzatore dei Foreing Direct Investment (FDI), nel senso che – come accennato – quanti più saranno gli Stati che adotteranno le medesime regole ed il medesimo standard, tanto più quelle regole e quegli standard diverranno”attraenti" (se non altro in termini di riduzione dei costi di compliance) per gli investitori esteri.28

2.5 L’efficacia dell’azione di accertamento e la “trasparenza” come interessi fondamentali tutelati dalla DAC

Le riflessioni sopra brevemente rassegnate, se condivise, ci convincono ancor di più che alla base del processo che ha portato in Europa alle diverse modifiche ed integrazioni dell’originaria prospettazione della DAC 1 vi è la volontà, recte l’opportunità, dell’UE di aderire a quel principio di “trasparenza” che può intendersi come adeguamento a regole comuni e condivise di disclosure con lo scopo di non subire gli effetti negativi che derivano dal rimaner tagliati fuori da un processo di standardizzazione globale. Proprio in questo senso potrebbero trovare giustificazione quei numerosi riferimenti – cui si è già fatto cenno – alle regole, ai modelli ed agli standard OCSE contenuti nei considerando delle diverse DAC.

Se volessimo allora rispondere all’interrogativo (che ci siamo posti all’inizio del § 2) di quali siano i beni giuridici, o se vogliamo gli interessi, che l’intero impianto della DAC (con tutte le sue modifiche ed integrazioni) mira a soddisfare, sembra potersi confermare che esso mira a salvaguardare tanto l’efficacia dell’azione di accertamento delle amministrazione finanziarie degli Stati membri, quanto l’interesse alla “trasparenza” dell’Unione e degli Stati al contempo, sia sotto il profilo dell’equità fiscale, sia soprattutto nell’accezione di opportunità di aderire ad un modello di disclosure internazionale che conferisce ai Paesi che vi prendono parte un valore aggiunto in termini di uniformità e omogeneizzazione, unitamente ad un crisma di rispettabilità.

3 Un criterio di legittimazione giuridica per i doveri di “disclosure

Avendo affrontato la questione di quali siano gli interessi che l’impianto complessivo della DAC mira a tutelare imponendo doveri di disclosure, è ora possibile, anzi quasi doveroso, domandarsi entro quale misura la tutela di quegli interessi legittimi e giustifichi l’imposizione di tali doveri a coloro che ne sono destinatari. Entro quali limiti l’interesse delle amministrazioni fiscali degli Stati membri alla conoscenza di dati ed elementi necessari all’accertamento, così come il descritto interesse alla trasparenza (nel senso sopra declinato), possono giustificare doveri di informazione? E, soprattutto, quale criterio può legittimare l’imposizione di tali doveri? È un tema complesso, soprattutto perché impone un raffronto fra due piani diversi: il primo che potremmo definire “domestico-domestico” ed il secondo che potremmo definire “domestico-internazionale”.

3.1 (segue) Il piano “domestico-domestico”

Il piano “domestico-domestico” è quello dei rapporti fra un contribuente ed il proprio Stato di residenza (o appartenenza) e riguarda i doveri di collaborazione e di informazione finalizzati all’accertamento nei confronti del contribuente stesso29 (sotto questo particolare profilo non rileva, ovviamente, l’interesse alla trasparenza dello Stato; si potrebbe semmai parlare di obbligo di trasparenza del contribuente).

Storicamente, nel nostro ordinamento questi rapporti sono stati inquadrati nel regime dell’obbligatorietà alla collaborazione, con previsione di sanzioni (soprattutto “improprie”) in caso di mancato rispetto. Si pensi, a riguardo, all’obbligo di rispondere a questionari con i quali l’Amministrazione chiede dati ed informazioni al contribuente, all’obbligo di presentarsi agli inviti notificati dall’Ufficio, a quello di fornire giustificazioni in ordine ai movimenti bancari, di indicare chi sono i beneficiari dei prelevamenti, ecc. Opportunamente è stato poi rilevato che negli ultimi anni il rapporto Fisco-contribuente si è evoluto, abbandonando per un verso l’obbligatorietà della collaborazione (seppur sempre mantenuta nelle tradizionali forme di cooperazione sopra descritte) ed accedendo, per altro verso, a ciò che si suol definire come tax compliance nel senso di «una dimensione intrinsecamente collaborativa e aperta al dialogo».30 In un primo momento la collaborazione del contribuente, così come la disponibilità a dare informazioni sul suo conto, erano stimolate da un logica sostanzialmente premiale31 che si è poi affievolita negli ultimi istituti per dirigersi verso forme di interlocuzione antecedenti la fase di accertamento propriamente detta (con gli interpelli, il regime dell’adempimento collaborativo,32 gli accordi preventivi,33 ecc.) senza però abbandonare del tutto il profilo del beneficio per il contribuente.34

Nel piano “domestico-domestico” rientrano altresì gli obblighi di informazione che riguardano il contribuente, ma che sono a carico di soggetti diversi (si pensi all’obbligo delle banche di fornire le informazioni sulle movimentazioni in entrata ed in uscita dei contribuenti sottoposti a verifica bancaria, agli obblighi di segnalazione antiriciclaggio che possono avere refluenze fiscali, etc.). È da rilevare, a riguardo, che nel piano in questione le informazioni che il contribuente o il soggetto terzo possono dare rimangono comunque confinate a fatti o dati del contribuente stesso o a rapporti che quegli ha con soggetti residenti nello stesso Stato del contribuente.

3.2 (segue) Il piano “domestico-internazionale”

Diversamente, il piano “domestico-internazionale” è quello in cui il contribuente, o altri soggetti destinatari dell’obbligo, sono tenuti a dare informazioni che trascendono, sotto il profilo territoriale, il rapporto fra il contribuente ed il suo Stato di residenza. Colui che è tenuto all’obbligo infatti non dà esclusivamente informazioni che riguardano rapporti con soggetti residenti nello Stato ove l’informazione è data, ma riguardano altresì soggetti e/o entità che si trovano in Stati diversi. Con riguardo agli accordi in tema di transfer pricing o di ruling transnazionali, ad esempio, le informazioni riguardano tutti i soggetti dell’accordo o del ruling e quindi società e/o entità residenti nei diversi Paesi coperti dall’agreement. Nel caso del CbCR, analogamente, le informazioni riguardano entità operanti su più giurisdizioni. Ugualmente, per i meccanismi transfrontalieri previsti dalla DAC 6, ove le informazioni riguardano soggetti ed entità operanti in Stati diversi.

3.3 (segue) Le differenze fra i due piani e gli aspetti comuni

Orbene, l’elemento di principale diversificazione fra il piano “domestico-domestico” e quello “domestico-internazionale” risiede proprio nella circostanza che nel primo le informazioni che il contribuente (o il terzo soggetto) dà sono finalizzate all’accertamento nei suoi confronti all’interno della sua giurisdizione, sono funzionali cioè, ed eventualmente, ad un obbligo contributivo (susseguente all’accertamento) che si consuma tutto nello stesso Stato ove vige l’obbligo di collaborazione. Le informazioni date e ritratte nell’ambito del piano “domestico-internazionale”, invece, sono fornite da un “contribuente” – che deve essere qui inteso anche (se non principalmente) come un gruppo societario – all’interno del suo Stato di appartenenza (si pensi alle comunicazioni date allo Stato di residenza della capogruppo) ma, per effetto dello scambio automatico, possono riguardare l’accertamento di un soggetto collegato al contribuente (un’impresa associata) e residente in uno Stato diverso. Si pensi, ad esempio, ad una rettifica dei prezzi di trasferimento conseguente alla comunicazione di un advance pricing arrangement ai sensi della DAC 3. La capogruppo, residente in uno Stato membro, effettua la comunicazione alla propria amministrazione, che opera poi lo scambio di informazioni, il quale può dar luogo in un altro Stato ad una rettifica dei prezzi di trasferimento a carico di un’entità facente parte dell’accordo e residente nello Stato destinatario dell’informazione. Si pensi, ancora, sempre in tema di transfer pricing, ad una comunicazione concernente, ai sensi della DAC 6, un hallmark E35 relativo ad un cd. safe harbour unilaterale (ritenuto presuntivamente conforme all’arm’s lenght).36 Anche in questo caso la comunicazione fatta da un contribuente/entità all’amministrazione fiscale del proprio Stato membro (si pensi alla comunicazione fatta dal contribuente che ha predisposto ed utilizza il meccanismo transfrontaliero contenente il riferimento ad un safe harbour unilaterale per la definizione di prezzi di trasferimento intercompany) potrebbe dar luogo, in uno Stato diverso (UE o extra UE), destinatario dello scambio automatico, ad una rettifica, ritenendo l’amministrazione di quello Stato che la presunzione di conformità all’arm’s lenght di cui al safe harbour unilaterale non sia effettivamente tale.

Comune ai due piani è la circostanza che l’obbligo di comunicazione può riguardare tanto il contribuente in sé (persona fisica, società, gruppo societario), quando soggetti terzi, che intervengono quindi in qualità di informatori o “coadiutori non volontari” nel riferimento di informazioni fiscalmente rilevanti, anche se occorre precisare che è comunque richiesta una forma di collegamento “territoriale” fra l’intermediario e lo Stato al quale questi è tenuto a fornire informazioni.37

3.4 (segue) L’idea “comunitaria” dello Stato come criterio di legittimazione degli obblighi di disclosure

La superiore distinzione che si è cercato di tracciare fra i due piani consente ora di affrontare la questione che avevamo posto all’inizio del § 3, rispondendo alla domanda cos’è (qual è il criterio) che legittima l’imposizione di un dovere di informazione. Questione che, invero, può andare oltre lo specifico riferimento al dovere di cui si discute ed estendersi fino ad abbracciare il tema più generale di cos’è che legittima uno Stato all’imposizione di un obbligo ai propri cittadini.

Ovviamente non pensiamo di affrontare in questa sede ed in maniera approfondita un tema di tal portata, ma possiamo concordare con una tesi di fondo, condivisa tanto da giuristi positivi quanto da filosofi politici, che l’imposizione di doveri da parte di uno Stato, nei moderni ordinamenti giuridici, trova giustificazione (recte, potrebbe dirsi che questa è una delle giustificazioni) nel rapporto diritti-obbligazioni (o doveri) che è insito nella moderna idea comunitaria dello Stato.38 Quest’ultimo non impone doveri in quanto sovrano, ma in quanto legittimato dalla legge (concetto di rule of law) che tale legittimazione gli conferisce altresì in virtù della circostanza che lo Stato tutela diritti. È il profilo “comunitario”, e cioè la necessità di coloro che appartengono alla comunità di condividere quei doveri che, d’altro canto, sono funzionali ai diritti di tutti, che legittima lo Stato (che si frappone in questo circuito) ad imporre obblighi.39 Nel nostro ordinamento giuridico, ad esempio, il dovere alla contribuzione presenta questa radice “comunitaria”. È, di fatti, il collegamento esistente fra l’art. 53 e gli artt. 2 e 3 della Costituzione che manifesta tale relazione, per cui il dovere fiscale è concepito come uno di quei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e sociale) di cui la Repubblica chiede l’adempimento (art. 2 Cost.), ed è – in quanto tale – strumento che consente di reperire quelle risorse necessarie alla stessa Repubblica per rimuovere gli ostacoli di ordine politico, economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.) e garantendo così che tutti possano fruire di diritti (i cd. diritti di libertà ed i diritti sociali). L’appartenere alla comunità dunque comporta la possibilità di godere ed esercitare una serie di (diritti di) libertà, che non sono soltanto negative, ma altresì positive e che si possono riassumere nel concetto di liberà dal bisogno,40 ma al contempo l’appartenenza genera anche doveri inderogabili che lo Stato è legittimato ad imporre.

Quanto alla letteratura straniera questo concetto di legittimazione dei doveri (imposti dallo Stato) come contraltare dei diritti che lo Stato garantisce agli appartenenti alla comunità è espresso, ad esempio, da Thomas Nagel il quale osserva, nell’ottica della giustizia redistributiva, che la funzione di redistribuzione – correlata al dovere di contribuzione (attraverso il circuito prelievo fiscale-spesa pubblica) – «is something we owe through our shared institutions only to those with whom we stand in a strong political relation. It is, in the standard terminology, an associative obligation», aggiungendo che gli Stati sovrani non sono meri strumenti per la realizzazione di valori pre-istituzionali di giustizia fra gli esseri umani, ma «their existence is precisely what gives the value of justice its application, by putting the fellow citizens of a sovereign state into a relation that they do not have with the rest of humanity». In quest’ottica l’imposizione di un dovere da parte di uno Stato nei confronti dei propri cittadini (recte: “appartenenti” alla comunità dello Stato, ciò che con terminologia anglosassone si potrebbe descrivere come «constituents») trova giustificazione tutta e solo all’interno dello Stato di appartenenza di questi ultimi e trova legittimazione in quel vincolo sociale, politico, economico, comunitario, per cui gli appartenenti hanno doveri nei confronti dello Stato nella misura in cui possono godere di diritti garantiti da quello Stato.

Così ragionando, il dovere di un contribuente di collaborare all’accertamento fiscale nei propri confronti all’interno del suo Stato di appartenenza può trovare legittimazione nella circostanza che egli gode di diritti che quello stato garantisce anche attraverso l’obbligo di contribuzione. In quest’ottica, il “dovere di collaborazione” all’accertamento fiscale può essere considerato come una declinazione del dovere di contribuzione e trova la medesima radice giustificativa di quest’ultimo dovere. Pertanto, se, imponendo la collaborazione, lo Stato persegue l’interesse ad una maggiore efficacia dell’accertamento fiscale, quell’imposizione, id est quell’obbligo, è legittimo ed è giustificabile nella misura in cui lo è il dovere di contribuzione in sé. Ma, qualora lo Stato imponga un dovere di collaborazione per tutelare un interesse, di matrice internazionale, alla propria trasparenza (interesse che, come si è visto, pure sta a fondamento dell’intero impianto DAC), il criterio di legittimazione di quell’imposizione, almeno nell’ottica in cui lo stiamo qui esaminando, viene meno, poiché l’interesse dello Stato trascende il profilo “comunitario” dell’intima relazione che hanno gli appartenenti fra loro e che solo giustifica (quantomeno nell’ottica di Nagel) l’imposizione del dovere da parte dello Stato.

3.4.1 (segue) Nel piano “domestico-domestico”

Riportando queste considerazioni al piano che sopra abbiamo definito “domestico-domestico”, è possibile trovare una radice di legittimazione nell’imposizione al contribuente (da parte dello Stato) di un dovere di collaborazione e di divulgazione di informazioni fiscalmente rilevanti. Così come quegli è tenuto a concorrere alle pubbliche spese, altrettanto è tenuto ad adempiere ad un obbligo di collaborazione (informazione) che possa rendere più efficace l’accertamento nei suoi confronti. E, d’altro canto, lo Stato, così com’è legittimato ad imporre il dovere contributivo è egualmente legittimato ad imporre un dovere di informazione funzionale alla maggiore efficacia dell’accertamento fiscale.

Non vi sarebbe, però, un altrettanto valido criterio di legittimazione per l’imposizione, da parte dello Stato, di un dovere di informazione a soggetti diversi dal contribuente sottoposto all’accertamento fiscale; quest’ultimo quindi sarebbe tenuto a fornire informazioni rilevanti esclusivamente sul proprio conto. Tuttavia, un esame più approfondito del concetto di dovere legato al profilo comunitario dell’appartenenza può indurre ad una diversa conclusione. Come detto, infatti, il dovere di informazione può essere considerato come una declinazione del dovere di contribuzione, ma ciò non significa che il perimetro dei due doveri coincida. Se la matrice giustificativa dei doveri nei confronti dello Stato risiede nella circostanza che all’interno della comunità cui si appartiene si fruisce di libertà (negative e positive) e dei connessi diritti, allora tale matrice può giustificare sia l’obbligo di contribuzione (in proprio), sia l’obbligo di fornire informazioni fiscali funzionali all’accertamento nei confronti di altri. Il dovere di informazione del “terzo” (cioè colui che tale è rispetto al contribuente sottoposto a verifica), infatti, rimane pur sempre all’interno dell’assetto comunitario; è cioè un dovere che lo Stato impone a coloro che appartengono alla comunità ed è funzionale (nella misura in cui incrementa l’efficacia dell’accertamento) ed eventuale rispetto all’obbligo contributivo di tutti. In altri termini, quell’intima relazione, sociale, politica, economica, ecc., che lega lo Stato ai propri constituents ed essi fra loro - e che, nell’accezione di Nagel, «they do not have with the rest of humanity» - legittima tanto il dovere di adempimento in proprio quanto l’obbligo informativo del “terzo”.

Il problema (che in questa sede è solo enunciato), semmai, va posto in termini di “proporzionalità” del rapporto diritti-doveri e cioè comprendere quale sia la natura dei diritti dei constituens lesi attraverso la divulgazione delle informazioni (siano esse rese dal contribuente in proprio, siano esse rese dal terzo) e quale sia la natura dell’interesse giuridico dello Stato ad ottenere informazioni, allo scopo di bilanciare adeguatamente i diritti dei primi con l’interesse del secondo. Verso questo bilanciamento, quanto al rapporto fra doveri di informazione dei contribuenti ed interessi degli Stati membri ad ottenerle, ci sembra, ad esempio, si stia orientando la Corte di Giustizia, quantomeno avendo riguardo al noto precedente Berlioz.41

Volendo trarre, dunque, una prima conclusione, è possibile sostenere che vi è un plafond di legittimazione giuridica che giustifica - nell’ottica dell’appartenenza del cittadino allo Stato e dei doveri che questa appartenenza comporta (rapportati ai diritti che l’appartenenza stessa garantisce) - l’imposizione, da parte dello Stato, ai propri constituents di un dovere di informazione o, più in generale, di collaborazione per rendere maggiormente efficace l’azione di accertamento tributario. Di contro, tale dovere non sembra trovare adeguata giustificazione nella misura in cui esso è volto a tutelare l’interesse dello Stato alla trasparenza così come dianzi declinato.

3.4.2 (segue) Nel piano “domestico-internazionale”

La superiore conclusione attiene al piano “domestico-domestico”, che però è quello che meno interessa i doveri di informazione che stanno a fondamento dell’impianto normativo della DAC. Gli obblighi di disclosure di cui alla Direttiva rilevano, invece e soprattutto, sul piano “domestico-internazionale”, poiché le informazioni che il destinatario di quegli obblighi è tenuto a dare, seppur sul piano del rapporto riguardano pur sempre la relazione che egli ha con il suo Stato di appartenenza (atteso che le informazioni sono trasmesse all’amministrazione fiscale di quest’ultimo), sul piano degli effetti trascendono quel rapporto e possono riguardare l’attività di accertamento realizzata da altro Stato nei confronti di altro contribuente che opera nella giurisdizione di quell’altro Stato. Se, allora, l’imposizione del dovere di disclosure da parte dello Stato nei confronti dei propri constituents trova giustificazione tutta e solo all’interno dello Stato di appartenenza, com’è possibile legittimare un dovere di informazione i cui effetti, sul piano dell’accertamento fiscale, trascendono il rapporto fra lo Stato ed i propri consituents? Cosa legittima uno Stato ad imporre ai propri appartenenti un dovere di informazione che non è funzionale all’accertamento fiscale all’interno di quello Stato, ma al di fuori di esso? Ragionando sul quadro europeo potrebbe sostenersi che il rapporto fra il constituents ed il proprio Stato di appartenenza si replica nel contesto unionale fra gli appartenenti all’Unione e l’Istituzione stessa, ma tale conclusione sarebbe tanto poco convincente quanto facilmente criticabile, almeno nel contesto odierno. In un sistema in cui la sovranità tributaria, soprattutto con riferimento all’imposizione diretta, rimane saldamente in capo agli Stati, in cui non esiste, di fatto, una politica fiscale europea con tributi pagati direttamente dai contribuenti all’Unione e con un bilancio che si alimenta tramite tali tributi e che possa erogare spese pubbliche direttamente a favore degli appartenenti all’Istituzione, è realmente difficile ipotizzare quell’intima relazione che lega i constituents fra di loro ed essi all’Istituzione che è, invece, tratto caratterizzante del rapporto fra i membri di uno Stato e la loro Istituzione di appartenenza. Solo una “svolta” realmente federalista, la previsione di tributi “europei” e di una politica di spesa dell’Unione che abbia come diretti destinatari i “cittadini” europei, potrebbe creare quel necessario substrato di coesione giuridica, economica e sociale, idoneo a legittimare la possibilità per l’“Europa” di imporre, per il tramite degli Stati membri, ai propri constituents un obbligo di disclosure finalizzato a rendere maggiormente efficiente l’attività di accertamento. Fermo restando, dunque, il dato di diritto positivo, per cui gli obblighi di disclosure di fatto esistono – essendo previsti dalla DAC – è sul piano della loro legittimazione giuridica che sembra esistere una lacuna che ne rende difficile la giustificazione. Pertanto, mentre sul piano “domestico-domestico” i doveri di informazione e di collaborazione trovano un valido substrato di legittimazione giuridica, ragionando secondo l’ottica sin qui prospettata, sul piano “domestico-internazionale” (e cioè proprio quello su cui opera la DAC) dovremmo registrare l’assenza di un idoneo criterio legittimante l’imposizione degli obblighi di disclosure sia con riguardo al “contribuente” (concetto ampio nel quale, come detto, annoveriamo anche il gruppo societario) che dà informazioni che lo riguardano, sia, a maggior ragione, con riferimento al “terzo” che eroga informazioni pertinenti altri soggetti.

4 Il “membership principle” quale criterio di legittimazione dei doveri di disclosure previsti dalla DAC. L’inapplicabilità di tale criterio agli “intermediari”

In realtà, vi sarebbe una via per tentare di trovare quel criterio di legittimazione che sembra essere assente sul piano “domestico-internazionale”; ma tale via passa per una rivisitazione – o se vogliamo – una forzatura del concetto di appartenenza come lo abbiamo definito, quanto meno nel suo riferimento alle companies e/o ai gruppi societari.

Nel suo libro «Catching Capital. The Ethics of Tax Competition»42 Peter Dietsch individua due principi di global tax justice e ritiene che il primo di essi vada trovato per l’appunto nell’appartenenza, che egli così definisce: «[n]atural and legal persons are liable to pay tax in the state of which they are a member (the ‘membership principle’)».

Va chiarito, ovviamente, che l’idea che possano esservi dei principi di giustizia globale nell’ambito della tassazione è tutt’altro che pacifica nella letteratura straniera. Lo stesso Nagel, ancorato alla sua posizione fortemente statalista, nega, nel contesto del rapporto fra Stati, l’esistenza di criteri di giustizia distributiva che possano andare oltre l’«humanitarianism». È con questa premessa, dunque, e mantenendo una posizione imparziale, che analizziamo il pensiero di Dietsch, il quale, puntualizzando ulteriormente la sua intuizione, aggiunge che il membership principle dovrebbe essere inteso nel senso che «individuals and companies should be viewed as members in those countries where they benefit from the public services and infrastructure». L’idea dell’appartenenza “fiscale”, dunque, nel pensiero dell’Autore tedesco è collegata ad un concetto allargato di beneficio, per cui si appartiene a quella comunità/Stato in cui si fruisce di servizi pubblici e di infrastrutture, che, nel pensiero di Dietsch (come risulta dalle pagine successive del suo lavoro) devono essere intese come quelle condizioni strutturali complessive che consentono lo svolgimento di un’attività idonea alla realizzazione di un profitto (ivi compreso l’assetto giuridico di un ordinamento). Il legame di appartenenza fiscale ipotizzato da quest’ultimo studioso, dunque, sembra più debole di quello di Nagel ed è idoneo a configurare una appartenenza multipla soprattutto per le companies ed i gruppi societari: si appartiene non soltanto allo Stato ove si risiede, ma a qualunque Stato nel quale si è in grado di usufruire di servizi ed infrastrutture che consentono lo svolgimento di un’attività che è potenzialmente idonea a creare ricchezza tassabile.

Orbene, applicando quest’idea “lasca” di appartenenza fiscale al piano che abbiamo definito come “domestico-internazionale”, sembra possibile trovare un substrato di legittimazione anche ad obblighi di disclosure che trascendono i confini del rapporto constituents-Stato (di appartenenza). Di fatti, nella misura in cui un gruppo societario “appartiene” fiscalmente a più Stati, sembra legittimo che ognuno di questi ordinamenti possa chiedere, alla Ultimate Parent Entity o a altra società del gruppo, informazioni idonee ad incrementare l’efficacia dell’accertamento tributario in ognuno degli Stati di appartenenza. In fondo, anche in questa visione allargata è possibile recuperare quel rapporto fra diritti ed obblighi che giustifica il dovere di disclosure all’interno di uno Stato. Il dovere di informazione, infatti, risponderebbe al diritto diffuso di cui il gruppo societario può godere e che consiste nella possibilità di sfruttare servizi pubblici e complessi infrastrutturali in più Stati per creare ricchezza in ognuno di essi. Se l’obbligo contributivo deve essere legato (nella concezione di Dietsch) a questa fruizione diffusa, che è ciò che crea l’appartenenza fiscale ad ogni Stato ove è possibile tale fruizione, è allora altrettanto possibile legittimare anche un obbligo di informazione diffuso funzionale al miglior accertamento tributario in ognuno di questi Stati.

In quest’ottica gli obblighi informativi della DAC potrebbero trovare quel criterio di legittimazione che mancava nel piano “domestico-internazionale”.

Ovviamente, tale soluzione – se condivisa – giustifica l’obbligo di disclosure del “contribuente” (id est il gruppo societario) con riferimento alle informazioni che lo riguardano, ma non potrebbe giustificare gli obblighi degli intermediari che rimangono “terzi” anche rispetto al criterio di “appartenenza diffusa”. L’intermediario (e cioè, ad esempio, colui che ha elaborato il meccanismo transfrontaliero oggetto di comunicazione obbligatoria ai sensi della DAC 6), infatti, appartiene univocamente al suo Stato di residenza e dunque il suo obbligo informativo non trae legittimazione da una appartenenza “multipla”. Insomma, pur aderendo ad un principio di global tax justice fondato su un criterio che collega l’obbligo contributivo ad ogni Paese in cui si fruisce di servizi ed infrastrutture, è possibile giustificare, attesa la sua consustanzialità al dovere d’imposta, l’obblio di disclosure del “contribuente”, ma non quello degli intermediari che, anche in questa prospettiva, resterebbe privo di un criterio di valida legittimazione giuridica.

5 Osservazioni conclusive

Le superiori riflessioni suggeriscono che è possibile trovare un adeguato criterio di legittimazione giuridica per i doveri di disclosure previsti dalla DAC, con esclusione però dei doveri informativi che la DAC 6 pone in capo agli intermediari. D’altro canto è doveroso, ancora una volta, precisare che tali conclusioni derivano dall’adesione a concezioni teoriche e giuridiche, prospettate tanto da filosofi politici quanto da giuristi positivi, che possono essere condivise o meno. Il punto che si vuole affrontare in queste brevi osservazioni conclusive è, però, un altro.

È indubbiamente vero che lo strumento dello scambio obbligatorio ed automatico di informazioni è particolarmente efficace nel contrasto ai fenomeni di minimizzazione artificiosa dell’imponibile che soprattutto le imprese multinazionali sono in grado di porre in essere. Dunque, in disparte il profilo della legittimazione giuridica, anche sotto quello dell’opportunità può accettarsi che i contribuenti che maggiormente godono dei benefici della pianificazione fiscale siano chiamati a svolgere un ruolo (quello informativo) nelle politiche di contrasto a quei processi di pianificazione. Ciò però non va al cuore del problema che pensiamo sia, invece, quell’insieme di circostanze che, di fatto, rendono possibili quei processi di pianificazione. In altri termini, se effettivamente si intende contrastare la pianificazione fiscale aggressiva, anche nell’ottica dell’equità fiscale, bisogna agire principalmente sui fattori che la rendono possibile. E ci sembra innegabile che fra tali fattori un ruolo primario continuino a giocare le asimmetrie fra gli ordinamenti tributari dei diversi Paesi. Di fatti, se i contribuenti (principalmente i gruppi societari) possono realizzare accordi e meccanismi idonei a trasferire buone parte dei loro imponibili verso giurisdizioni fiscali di vantaggio, ciò accade principalmente perché tali giurisdizioni continuano ad esistere, anche all’interno dell’UE. Sembra, pertanto, che via sia una malcelata ipocrisia nel tentativo di contrastare i fenomeni di pianificazione fiscale addossando gravosi doveri di informazione a carico dei contribuenti, senza però andare alla radice del problema, eliminando quelle asimmetrie fiscali che rendono utile la pianificazione in sé. Da questo punto di vista non sembra che gli Stati membri siano, almeno ad oggi, intenzionati a fare la loro parte, se è vero come è vero che la proposta di direttiva in tema di Consolidate Common Corporate Tax Base (CCCTB), e cioè uno degli strumenti che maggiormente consentirebbe l’eliminazione di asimmetrie fiscali (nella determinazione degli imponibili) all’interno dell’Europa (e con riferimento ai contribuenti di più grandi dimensioni), continua a rimanere oggetto di discussione. Lo stesso processo di race to the bottom relativo alle aliquote della corporate tax, altro fattore rilevante di asimmetria fiscale, è pienamente in atto nel vecchio continente e non sembra che una contromisura in tal senso formi oggetto anche solo di discussione. Vedremo poi quale esito avrà la proposta di direttiva che mira alla individuazione di una base imponibile digitale per risolvere, a regime, il problema della tassazione delle imprese digitalizzate.

Stando così le cose, v’è da chiedersi quanto sia coerente (o forse è il caso di dire “corretta”) la scelta di continuare a incrementare i doveri di disclosure dei contribuenti di fronte ad un atteggiamento dei singoli Stati membri che sembra riottoso ad affrontare il vero nocciolo del problema.


  1. Sul tema si veda G. BARONI, Prime osservazioni sullo “schema” di decreto legislativo di recepimento della c.d. DAC 6, In Riv. dir. trib., supplemento online, del 24 febbraio 2020 (http://www.rivistadirittotributario.it/2020/02/24/prime-osservazioni-sullo-schema-decreto-legislativo-recepimento-della-c-d-dac-6/); M. BELLINI-S. DI TRAPANI, DAC 6 e transfer pricing. Commenti sulla categoria di hallmark E, in Riv. dir. trib., supplemento online, del 21 luglio 2020 (http://www.rivistadirittotributario.it/2020/07/21/dac-6-transfer-pricing-commenti-sulla-categoria-hallmark/); G. SELICATO, Le comunicazioni preventive secondo la Direttiva 822/2018/EU: dalla “collaborazione incentivata” agli “obblighi di disclosure”, in Rass. Trib., 1, 2019, 112 ss.↩︎

  2. Sul tema, anche per la segnalazione di una non perfetta coincidenza fra la definizione di intermediario contenuta nella DAC 6 e quella prevista nello schema di decreto legislativo italiano, si veda G. SELICATO, Le comunicazioni cit., 123 ss.; ID., con particolare riguardo alle cause di esonero degli intermediari previste – in attuazione della DAC 6 - nello schema di decreto legislativo, La disciplina nazionale dei meccanismi transfrontalieri con obbligo di notifica. Prime considerazioni sulle cause di esonero dell’intermediario, in Riv. dir. trib., supplemento online, del 26 maggio 2020 (http://www.rivistadirittotributario.it/2020/05/26/la-disciplina-nazionale-dei-meccanismi-transfrontalieri-obbligo-notifica-prime-considerazioni-sulle-cause-esonero-dellintermediario/);↩︎

  3. Sull’evoluzione che ha condotto da un sistema basato su modalità di scambio su richiesta o spontaneo verso un sistema obbligatorio ed automatico di scambio di informazioni, si veda F. SAPONARO, L’ attuazione amministrativa del tributo nel diritto dell’integrazione europea, Milano, 2017, 208 ss. Sul tema si veda anche P. BORIA, La cooperazione tra amministrazioni nazionali in tema di accertamento e riscossione dei tributi, in Diritto Tributario Europeo, Milano, 2017, 435 ss.; A. BUCCISANO, Assistenza amministrativa internazionale dall’accertamento alla riscossione dei tributi, Bari, 2013. Un’analisi sintetica dell’evoluzione dalla cd. DAC 1 alla cd. DAC 6 è fatta da G. BARONI, Scambio automatico di informazioni: si può ancora parlare di “sana” tax compliance? In Riv. dir. trib., supplemento online, del 29 aprile 2019 (http://www.rivistadirittotributario.it/2019/04/29/scambio-automatico-informazioni-si-puo-ancora-parlare-sana-tax-compliance/).↩︎

  4. Osserva, a riguardo F. SAPONARO, op. cit., 189, ed ivi nota 15 – anche nel riferimento a P. MASTELLONE, L’Unione Europea non riconosce participation rights al contribuente sottoposto a procedure di mutua assistenza amministrativa tra autorità fiscali, in Riv. dir. trib., 2013, 349 ss . – che «in passato l’espressione utilizzata era più restrittiva in quanto faceva riferimento alle sole ‘informazioni necessarie’». Osserva, altresì, l’Autore come unitamente al criterio della «prevedibile rilevanza», sullo scambio spontaneo o su richiesta giochino un ruolo decisivo anche il «principio di reciprocità» (ivi 209) e quello di «equivalenza» (ai sensi dell’art. 17, par. 3, della DAC 1), subordinando dunque l’efficacia e l’efficienza del sistema di scambio alle «sostanziali differenze ancora riscontrabili nelle forme e nelle modalità di esercizio dei poteri istruttori e nelle procedure di accertamento esistenti tra i diversi ordinamenti degli Stati membri» (ivi 210).↩︎

  5. Sull’argomento, senza pretesa di esaustività, si veda S.D. MICHEL - H.D. ROSENBLOOM, FATCA and Foreign Bank Accounts: has the U.S. overreached?, in Tax Notes International, 2011, 709 ss.; G. MARINO, New Exchange of Information versus Tax Solutions of Equivalent Effect, IBFD, Amsterdam, 2016; J. MALHERBE - C.P. TELLO, Le Foreing Account Tax Compliance Act (FATCA) américain: un tournant juridique dans l’échange d’informations fiscales, in RDT, 2014, pag. 299 ss. Per talune criticità del FATCA, soprattutto con riguardo agli obblighi (sostanzialmente unilaterali) imposti anche ai consulenti nel sistema di scambio di informazioni con gli USA, si veda T. DI TANNO, Lo scambio di informazioni tra Amministrazioni finanziarie: limiti ed opportunità, in Rass. Trib., 2015, 3, 665 ss..↩︎

  6. Sull’argomento, senza pretesa di esaustività, si veda G. SELICATO, Le comunicazioni cit. 118; P. PISTONE, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017, 30 ss.; P. MASTELLONE, Lo scambio di informazioni tra amministrazioni finanziarie, in R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Milano, 2016, 249 ss.; S. DORIGO, L’ordinamento italiano e la cooperazione fiscale internazionale, in C. Sacchetto (a cura di), Principi di diritto tributario europeo e internazionale, Torino, 2016, 155 ss.↩︎

  7. Sul punto si veda M. GREGGI, F. AMODDEO, Lo scambio di informazioni in materia tributaria, in F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra (a cura di), L’evasione e l’elusione fiscale in ambito internazionale, Roma, 2016, 657 ss. Sui rapporti fra la DAC 2 e la Direttiva 2014/48/UE (cd. Direttiva sul risparmio), cui la prima si è sostanzialmente sovrapposta, si veda F. SAPONARO, op. cit., 226–227.↩︎

  8. Tramite la DAC 2 è stato inserito all’interno dell’art. 8 della DAC 1 il paragrafo 3-bis, il quale prevede che «[c]iascuno Stato membro adotta le misure necessarie per imporre alle proprie Istituzioni Finanziarie Tenute alla Comunicazione di applicare le norme di comunicazione e di adeguata verifica in materia fiscale (due diligence) riportate negli allegati I e II e di assicurare l’efficace attuazione e il rispetto di dette norme conformemente alla sezione IX dell’allegato I».↩︎

  9. Occorre ricordare che la Direttiva 2011/16/UE, all’art. 9, prevedeva già uno scambio spontaneo di informazioni sui ruling fiscali cui aveva partecipato uno Stato membro. Sul problema del limite di efficacia della forma spontanea dello scambio, in quanto vincolata alla necessaria rilevanza dell’informazione, si veda M. GREGGI, F. AMODDEO, Lo scambio cit., 666 ss.↩︎

  10. Così recita l’attuale punto 14 dell’art. 3 della DAC 1: «“advance cross-border ruling” means any agreement, communication, or any other instrument or action with similar effects, including one issued, amended or renewed in the context of a tax audit, and which meets the following conditions: (a) is issued, amended or renewed by, or on behalf of, the government or the tax authority of a Member State, or the Member State’s territorial or administrative subdivisions, including local authorities, irrespective of whether it is effectively used; (b) is issued, amended or renewed, to a particular person or a group of persons, and upon which that person or a group of persons is entitled to rely; (c) concerns the interpretation or application of a legal or administrative provision concerning the administration or enforcement of national laws relating to taxes of the Member State, or the Member State’s territorial or administrative subdivisions, including local authorities; (d) relates to a cross-border transaction or to the question of whether or not activities carried on by a person in another jurisdiction create a permanent establishment; and (e) is made in advance of the transactions or of the activities in another jurisdiction potentially creating a permanent establishment or in advance of the filing of a tax return covering the period in which the transaction or series of transactions or activities took place».↩︎

  11. Così recita l’attuale punto 15 dell’art. 3 della DAC 1: «"advance pricing arrangement" means any agreement, communication or any other instrument or action with similar effects, including one issued, amended or renewed in the context of a tax audit, and which meets the following conditions: (a) is issued, amended or renewed by, or on behalf of, the government or the tax authority of one or more Member States, including any territorial or administrative subdivision thereof, including local authorities, irrespective of whether it is effectively used; (b) is issued, amended or renewed, to a particular person or a group of persons and upon which that person or a group of persons is entitled to rely; and (c) determines in advance of cross-border transactions between associated enterprises, an appropriate set of criteria for the determination of the transfer pricing for those transactions or determines the attribution of profits to a permanent establishment. Enterprises are associated enterprises where one enterprise participates directly or indirectly in the management, control or capital of another enterprise or the same persons participate directly or indirectly in the management, control or capital of the enterprises»↩︎

  12. Il 13° considerando della DAC 3 raccomanda, a riguardo, che «[i]n developing such a standard form for the mandatory automatic exchange of information, it is appropriate to take account of work performed at the OECD’s Forum on Harmful Tax Practices, where a standard form for information exchange is being developed, in the context of the Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting»↩︎

  13. È invece facoltativa, in Italia, la redazione del Master File e del Country File. Sul punto si veda F. SAPONARO, op. cit., 240, nota 156. Sul tema si veda altresì M. TRIVELLIN, Contributo allo studio degli strumenti di soluzione delle controversie fiscali internazionali, Torino, 2017, 100 ss.↩︎

  14. In base all’art. 3, punto 18 della DAC 1 (punto che è stato aggiunto dalla DAC 6) per “meccanismo transfrontaliero” si intende «un meccanismo che interessa più Stati membri o uno Stato membro e un paese terzo, laddove almeno una delle condizioni seguenti sia soddisfatta: a) non tutti i partecipanti al meccanismo sono residenti a fini fiscali nella stessa giurisdizione; b) uno o più dei partecipanti al meccanismo sono simultaneamente residenti a fini fiscali in più di una giurisdizione; c) uno o più dei partecipanti al meccanismo svolgono un’attività d’impresa in un’altra giurisdizione tramite una stabile organizzazione situata in tale giurisdizione e il meccanismo fa parte dell’attività d’impresa o costituisce l’intera attività d’impresa della suddetta stabile organizzazione; d) uno o più dei partecipanti al meccanismo svolge un’attività in un’altra giurisdizione senza essere residente a fini fiscali né costituire una stabile organizzazione situata in tale giurisdizione; e) tale meccanismo ha un possibile impatto sullo scambio automatico di informazioni o sull’identificazione del titolare effettivo». Il punto 19 dell’art. 3 (anch’esso introdotto dalla DAC 6) prevede poi che per meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di notifica si deve intendere qualunque meccanismo transfrontaliero che contenga almeno uno degli hallmarks (di cui si dirà nel testo).↩︎

  15. La DAC 1, all’art. 3, punto 21 (aggiunto dalla DAC 6) precisa che per “intermediario” si deve intendere «qualunque persona che elabori, commercializzi, organizzi o metta a disposizione a fini di attuazione o gestisca l’attuazione di un meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di notifica. Indica altresì qualunque persona che, in considerazione dei fatti e delle circostanze pertinenti e sulla base delle informazioni disponibili e delle pertinenti competenze e comprensione necessarie per fornire tali servizi, sia a conoscenza, o si possa ragionevolmente presumere che sia a conoscenza, del fatto che si è impegnata a fornire, direttamente o attraverso altre persone, aiuto, assistenza o consulenza riguardo all’elaborazione, commercializzazione, organizzazione, messa a disposizione a fini di attuazione o gestione dell’attuazione di un meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di notifica». La disposizione precisa, inoltre, che «per potersi qualificare come intermediario, è necessario che la persona soddisfi almeno una delle condizioni seguenti: a) essere residente a fini fiscali in uno Stato membro; b) disporre di una stabile organizzazione in uno Stato membro attraverso la quale sono forniti i servizi con riguardo al meccanismo; c) essere costituita in uno Stato membro o essere disciplinata dal diritto di uno Stato membro; d) essere registrata presso un’associazione professionale di servizi in ambito legale, fiscale o di consulenza in uno Stato membro».↩︎

  16. Il punto 20 dell’art. 3 della DAC 1, aggiunto dalla DAC 6, definisce l’elemento distintivo come «una caratteristica o peculiarità di un meccanismo transfrontaliero che presenti un’indicazione di potenziale rischio di elusione fiscale, come elencato nell’allegato IV».↩︎

  17. Ai sensi dell’art. 3, punto 22 (aggiunto dalla DAC 6), della DAC 1 per contribuente pertinente deve intendersi «qualunque persona a disposizione della quale è messo, a fini di attuazione, un meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di notifica o che è pronta ad attuare un meccanismo transfrontaliero soggetto all’obbligo di notifica o che ha attuato la prima fase di un tale meccanismo».↩︎

  18. In tal senso G. BARONI, Scambio automatico cit., loco cit.↩︎

  19. Osserva, a riguardo, G. SELICATO, Le comunicazioni cit., 121, che «[c]i si trova di fronte a un nuovo modo di intendere la collaborazione tra contribuenti e Fisco, a un sistema che, eleggendo a valore supremo la “trasparenza”, presenta notevoli fattori di discontinuità con il passato». Sul tema della trasparenza nella DAC 6 si veda altresì G. BARONI, op. e loco ult. cit.↩︎

  20. Sui profili di equità fiscale della DAC 6 si veda M. BELLINI-S. DI TRAPANI, DAC 6 e transfer pricing cit., loco cit.↩︎

  21. Il tema dell’equità, e quello connesso dell’eguaglianza in senso formale e sostanziale come principio ordinatore dell’attività amministrativa in un’ottica internazionale è affrontato ampiamente da E. ZANIBONI, Le diseguaglianze economiche interne agli Stati nella prospettiva giuridica internazionale, in Tutela dei soggetti deboli e trasformazioni del lavoro tra diritti e libertà. Prospettive nazionali e internazionali, a cura di M. D’Onghia e E. Zaniboni, Napoli, 2017, 135 ss. In particolare, quanto all’obiettivo di una maggiore equità all’interno del mercato interno, anche nel riferimento alle considerazioni dell’ex Presidente della Commissione europea (Juncker), l’Autore segnala (ivi 157) che esso rappresenta «uno dei punti qualificanti del programma politico della Commissione europea espresso dal presidente Juncker» (J.C. JUNCKER, Un nuovo inizio per l’Europa. Il mio programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico, Strasburgo, 15 luglio 2014, 7, disponibile on line).↩︎

  22. Questi temi sono ampiamente affrontati da T. DAGAN, International Tax Policy. Between Competition and Cooperation, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, 43 ss. e 142 ss.↩︎

  23. Cfr. T. DAGAN, op. cit., 170 ss.↩︎

  24. Osserva, a riguardo, T. DAGAN, op. cit., 158, che «[…] the mechanism endorsed in the recommendations would be costly for poor countries, which lack the enforcement agencies, computing capacities, and administrative capabilities necessary for implementation».↩︎

  25. Concorda con la visione della Dagan, A. P. DOURADO, International Standards, Base Erosion and Developing Countries, in Tax Design Issues Worldwide (Geerten M.M. Michielse & Victor Thuronyi eds.), 2015, 179 ss. Per una diversa posizione, che ravvisa nell’uniformazione degli standard della reportistica un beneficio per le economie emergenti, si veda I. GRINBERG, Taxing Capital Income in Emerging Countries: Will FATCA Open the Door?, World Tax J., 2013, 325 ss..↩︎

  26. Su cui si veda anche E. A. BAISTROCCHI, The Structure of the Asymmetric Tax Treaty Network: Theory and Implications (Bepress Legal Series Working Paper 1991, Feb. 8, 2007), http://law.bepress.com/expresso/eps/1991.↩︎

  27. Cfr. T. DAGAN, op. cit., 171. Sul punto si veda anche M.L. KATZ-C. SHAPIRO, Network Externalities, Competition, and Compatibility, Am. Econ. Rev., 1985, 75 ss.↩︎

  28. Così T. DAGAN., op. cit., 171: «[l]ikewise, when other users are using a certain format for collecting and disseminating tax information, it makes sense for new users to use similar formatting so as to save on the costs of processing the information being exchanged; when other states are using the model tax treaty standard, it makes sense to adopt a similar standard. By joining and staying in a network, users benefit from their compatibility with other users. This is known as the “network effect”».↩︎

  29. Il tema della collaborazione del contribuente all’accertamento tributario nel nostro ordinamento è stato variamente affrontato in dottrina. Per alcuni riferimenti monografici, e senza pretesa di esaustività, si veda L. SALVINI, La partecipazione del privato all’accertamento (nelle imposte sui redditi e nell’Iva), Padova, 1990; M. TRIVELLIN, Il principio della collaborazione e buona fede nel rapporto tributario, Padova, 2008; G. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 61 ss.; M. BASILE, Il principio di collaborazione tra fisco e contribuente, Bari, 2010. Quanto ai contributi più recenti, ancora una volta senza pretesa di esaustività, si segnala G.M. CARTANESE, La collaborazione tra fisco e contribuente. Il sostegno alla compliance, in AA.VV., La verifica fiscale tra poteri autoritativi e diritti di partecipazione. I controlli del fisco nelle dimensioni reale e virtuale, Roma, 2018, 7 ss.↩︎

  30. L’espressione è di G. SELICATO, Le comunicazioni cit., 114.↩︎

  31. Osserva, a riguardo G. SELICATO, op. cit., 114, che «[n]ei più classici schemi della tax compliance … gli istituti inibitori del conflitto con il Fisco, quali il ravvedimento operoso, l’adesione all’accertamento, le conciliazioni giudiziali e altre forme di definizione consensuale del prelievo, hanno avuto successo proprio in ragione del loro regime premiale»↩︎

  32. Su cui si veda G. SALANITRO, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo, tra la tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, in Riv. dir. trib., 2016, I, 623 ss.; F. PISTOLESI, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, in Corr. Trib., n. 30/2017, pag. 2412 ss.↩︎

  33. Sul tema sia consentito il riferimento ad A. PERRONE, Sull’inquadramento sistematico e sulla natura giuridica degli accordi preventivi per le imprese con attività internazionale e sulla loro estensibilità all’IVA, in Riv. dir. trib., n. 4/2019, 387 ss, e bibliografia ivi citata.↩︎

  34. Osserva ancora G. SELICATO, op. cit., 116, che « I nuovi istituti non s’incentrano, infatti, sulle riduzioni d’imposta, sulle dilazioni di versamento né sulla mitigazione delle conseguenze sanzionatorie della condotta illecita. Ma ciò non vuol dire che il contribuente non ne tragga beneficio: al contrario, grazie alla preventiva intesa con gli Uffici finanziari sui riflessi impositivi delle proprie scelte, l’impresa accede alla tanto auspicata “stabilità” degli schemi di riferimento e, dunque, a condizioni favorevoli alla definizione di una strategia imprenditoriale …»↩︎

  35. Occorre ricordare che, ai sensi della DAC 6, così come ai sensi della bozza di decreto legislativo in corso di discussione in Italia, gli hallmark concernenti i prezzi di trasferimento (quali quelli previsti nella categoria E) non sono soggetti alla clausola del cd. «vantaggio principale» e quindi vanno comunicati a prescindere dalla circostanza che essi generino o meno un vantaggio fiscale per l’utilizzatore. Cfr. M. BELLINI-S. DI TRAPANI, DAC 6 e transfer pricing cit., loco cit.↩︎

  36. Sul tema G. MAISTO, Il punto su… - Giugno 2020 - DAC 6 e transfer pricing: l’hallmark dei safe harbours unilaterali, su Riv. dir. trib., supplemento online, del 4 giugno 2020 (http://www.rivistadirittotributario.it/2020/06/04/editoriale-maggio-2020-dac-6-transfer-pricing-lhallmark-dei-safe-harbours-unilaterali/); M. BELLINI-S. DI TRAPANI, DAC 6 e transfer pricing cit., loco cit.↩︎

  37. In particolare la DAC 6 ha previsto i seguenti criteri di collegamento fra l’intermediario e lo Stato: i) residenza ai fini fiscali nel territorio dello Stato; ii) possesso di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato per il tramite della quale sono forniti i servizi con riguardo al meccanismo transfrontaliero oggetto di comunicazione; iii) soggetto intermediario costituito, disciplinato o regolamentato “secondo la legge dello Stato”; iv) avvenuta registrazione dell’intermediario presso un’associazione professionale di servizi in ambito legale, fiscale o di consulenza nel territorio dello Stato. Sul punto si veda G. SELICATO, Le comunicazioni cit., 124.↩︎

  38. Il tema è ampiamente affrontato dalla letteratura internazionale soprattutto con riferimento ai profili della global tax justice. L’aspetto principale dell’indagine riguarda la funzione redistributiva connessa alla tassazione nell’ottica internazionale e, in particolare, se la redistribuzione debba essere attuata esclusivamente sul piano interno di uno Stato, poiché il dovere di contribuzione è legato alla circostanza di poter godere di diritti fondamentali all’interno dello Stato e quindi il legame che si crea fra Stato e cittadini e fra i cittadini stessi giustifica esclusivamente un obbligo redistributivo interno, o se esista un principio di giustizia globale che imponga attività redistributive anche al di fuori dei confini di uno Stato ed in una prospettiva internazionale. Il punto di partenza dell’indagine è, assai spesso, l’analisi delle teorie rawlsiane e la questione se esse possano trovare applicazione esclusivamente all’interno dell’Istituzione “Stato” o se possano travalicare i confini dello Stato. Senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano su queste tematiche, T. POGGE, Realizing Rawls, Cornell University Press, 1989; T. NAGEL, The Problem of Global Justice, in Philosophy & Public Affairs, 2005, 113 ss.; J. COHEN & C. SABEL, Extram Republicam Nulla Justitia?, in Philosophy & Public Affairs, 2006, 147 ss.. A. SANGIOVANNI, Global Justice, Reciprocity, and the State, in Philosophy & Public Affairs, 2007, 15 ss.; M. RONZONI, Global Tax Governance: The Bullets Internationalists Must Bite – and Those They Must Not, in Moral Phil. & Pol., 2014, 37 ss.; M.BLAKE & P.T. SMITH, International Distributive Justice, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Edward N. Zalta ed., 2013), http://plato.stanford.edu/archives/win2013/entries/international-justice;; P. DIETSCH, Catching Capital. The Ethics of Tax Competition, Oxford University Press, 2015; T. DAGAN, op. cit. 185 ss. Quanto alla letteratura Italiana, anche in questo caso senza pretesa di esaustività, il tema dell’appartenenza allo Stato come fonte dell’obbligo contributivo, nella dialettica fra diritti e doveri, è affrontato da G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, 222 ss. Il profilo “comunitario” della tassazione è ampiamente affrontato da P. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2001; ID., La concorrenza fiscale tra Stati: verso un nuovo ordine della fiscalità internazionale, in AA. VV., La concorrenza fiscale tra Stati (a cura di Pietro Boria), Milano, 2018, 9 ss.↩︎

  39. L’aspetto comunitario della fiscalità, sotto il profilo della necessità che ha ogni organizzazione sociale di svolgere attività comuni – attività che comportano un costo, inteso come «destinazione di risorse individuali alle attività comuni» – è altresì analizzato da G. FRANSONI, Discorso intorno al diritto tributario, Pisa, 2017, 15 ss.↩︎

  40. Osserva, in tal senso, P. BORIA, La concorrenza fiscale tra Stati cit., 9, che alla base delle «scelte diffuse nelle costituzioni dei singoli Stati» vi è il riconoscimento di un preciso ruolo della fiscalità a cui è affidato il compito di attuare una «funzione propulsiva rispetto ai processi di trasformazione sociale». Per cui, seguita l’A., «l’attuazione di un sistema tributario efficiente ed equilibrato assolve […] ad un ruolo cruciale nei programmi di sviluppo dell’assetto sociale in linea con la fondamentale regola dell’eguaglianza sostanziale recepita formalmente in diverse carte costituzionali (si pensi all’art. 3 comma 2 della costituzione italiana) e comunque accolta nella costituzione materiale di ciascun paese democratico». In questo senso, pertanto, la «regolazione della fiscalità», ciò che l’A. definisce «interesse fiscale dello Stato comunità», si connette alla protezione di una serie di valori che comportano la «promozione di una integrazione sociale attraverso la costituzione di adeguate “chances di vita” che permettano agli individui di realizzare effettivamente il processo di attuazione della libertà sociale». Tale “interesse fiscale” nelle costituzioni nazionali «appare dunque come un principio di “liberazione dalla privazione”, in forza del quale viene emesso un impulso a correggere gli squilibri nella distribuzione naturale delle risorse così da favorire il processo di trasformazione sociale».↩︎

  41. Ove la Corte, con riferimento al criterio della «prevedibile pertinenza» contenuto nella DAC 1, ha riconosciuto non soltanto il diritto della società Lussemburghese Berlioz ad impugnare la decisione di ingiunzione con la quale le erano state irrogate sanzioni per non aver adempiuto ad un obbligo di informazioni richiestole dall’amministrazione lussemburghese (a sua volta interpellata dall’amministrazione francese), ma altresì la possibilità che il giudice dello Stato membro valuti il contenuto della richiesta di informazioni e la loro rispondenza alla «prevedibile pertinenza» e ciò in considerazione del fatto che la «prevedibile pertinenza» delle informazioni richieste da uno Stato membro a un altro Stato membro costituisce una condizione che la richiesta di informazioni deve soddisfare per essere idonea a innescare in capo allo Stato membro interpellato l’obbligo di rispondervi. Sul tema del rapporto fra interessi degli Stati membri ad ottenere informazioni fiscalmente rilevanti e diritti del contribuente si veda E. TRAVERSA, La protezione dei diritti dei contribuenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Dir. prat. trib. int., 2016, 1365 ss. Per un commento alla sentenza Berlioz, si veda S. DORIGO, La tutela del contribuente nel corso di procedure di scambio di informazioni: la sentenza Berlioz della Corte di giustizia, in Riv. dir. trib., suppl. on line, agosto 2017; P. MASTELLONE, Una nuova alba per i diritti fondamentali del contribuente europeo: alcuni spunti sistematici a margine della sentenza Berlioz della Corte di Giustizia, in Dir. Prat. Trib. 2017, 591 ss. Il tema è affrontato altresì da G. SELICATO, Le comunicazioni cit., 117–119. Con particolare riferimento al tema della tutela del diritto alla privacy del contribuente nel contesto della DAC si veda A. CONTRINO, Banche dati tributarie, scambio di informazioni fra autorità fiscali e “protezione dei dati personali”: quali diritti e tutele per i contribuenti?, in Riv. dir. trib., supplemento on line, del 29 maggio 2019, il quale evidenzia altresì una certa altalenanza nell’orientamento della Corte di Giustizia (nel confronto fra i precedenti Berlioz e Sabou) a fronte, invece, di una maggiore unitarietà nell’orientamento della Corte EDU.↩︎

  42. P. DIETSCH, Catching Capital cit., 80 ss.↩︎