1 Gli effetti della digitalizzazione sui modelli di business e sulla disciplina fiscale delle operazioni transfrontaliere.
Negli ultimi decenni l’economia ha subito una trasformazione a livello globale: internet e le nuove tecnologie hanno contribuito al fenomeno della digitalizzazione delle imprese tradizionali nonché all’emersione di nuovi modelli di business.1 Questo fenomeno ha avuto un forte impatto non soltanto sul modo di svolgere l’attività di impresa ma anche – e di riflesso – sulla disciplina fiscale del reddito d’impresa.
Per comprendere le cause che stanno portando a ripensare le regole che disciplinano la tassazione dei redditi transnazionali, è necessario fare un passo indietro ed analizzare le caratteristiche peculiari della digital economy che la differenziano dai modelli tradizionali d’impresa.2
L’avvento di internet e il rapido sviluppo delle tecnologie digitali3 hanno rappresentato i fattori-chiave della crescita e della evoluzione dell’economia mondiale: le imprese (e ancor di più i gruppi multinazionali), sfruttando i benefici offerti dall’economia digitale (tra cui l’abbattimento dei costi operativi e la possibilità di intercettare consumatori finali residenti anche in mercati lontani dallo Stato di residenza), hanno iniziato ad intensificare le transazioni commerciali in un numero sempre crescente di Paesi senza dovervi necessariamente instaurare una propria presenza fisica. Già da queste prime considerazioni si può desumere che “a-territorialità”, transnazionalità e de-materalizzazione4 sono i caratteri intrinseci della digital economy.5 In dettaglio, il concetto di “a-territorialità” afferisce alla capacità dei nuovi modelli di business di ottenere profitti – o meglio di catturare la ricchezza, il valore – che il mercato digitale è in grado di generare, anche grazie al contributo (quasi sempre inconsapevole) degli utenti e dei consumatori finali.6 e che, a causa delle modalità con cui avvengono le operazioni commerciali (interamente on-line, soprattutto attraverso i siti web e le piattaforme digitali) e con cui vengono esercitate le funzioni dell’impresa (principalmente da remoto), mal si prestano ad essere collegati al territorio di uno specifico Paese. Il processo di automazione che ha investito le funzioni operative dell’impresa ha consentito di dislocarle in Stati diversi e la digitalizzazione ha consentito di coordinarle a distanza; un’impresa può, oggi, intercettare i potenziali clienti residenti worldwide tramite un sito web accessibile da qualsiasi dispositivo mobile, non essendo più necessaria una presenza fisica nel territorio in cui cede i propri beni o i propri servizi.
La trasformazione digitale ha anche fatto sì che gli intangibles assumessero un ruolo predominante sotto diversi profili. Si parla di “de-materializzazione”, sia perché i beni oggetto di scambio sono spesso beni immateriali (ad esempio, gli e-books), sia perché sono proprio i beni immateriali (software, know-how, brevetti, ecc.) quelli che maggiormente contribuiscono alla creazione del valore per le imprese più capitalizzate del nuovo millennio.7
L’economia digitale, dunque, è connotata da un alto tasso di mobilità (dei profitti, soprattutto, ma anche dei beni e dei servizi commercializzati) e flessibilità (dell’organizzazione societaria) così come emerge altresì dall’analisi dei modelli di business in cui si estrinseca: a) il commercio elettronico diretto (ovverosia il commercio online di beni e servizi); b) il commercio elettronico indiretto (in cui ad una componente dematerializzata – quale, ad esempio, la conclusione del contratto – se ne associa una materiale – quale la consegna di un bene tangibile al consumatore finale); c) il commercio multidimensionale (in cui allo scambio di servizi gratuito tra soggetti residenti in Paesi diversi si associa la fornitura di servizi pubblicitari a pagamento a favore di soggetti residenti in un Paese terzo).8
Proprio in virtù delle caratteristiche peculiari che la contraddistinguono, gli strumenti negoziali tipici della digital economy mal si prestano a rientrare nelle categorie civilistiche “tradizionali”, con conseguenze – com’è ovvio – anche sul piano fiscale,9 esasperando i fenomeni di erosione della base imponibile e della diversione dei profitti (c.d. Base Erosion and Profit Shifting).
Le multinazionali del digitale riescono a creare “stateless income” (redditi apolidi),10 ovverosia redditi che non sono riconducibili né al Paese di residenza dell’impresa, né al mercato in cui questa cede i propri beni e servizi e nel quale, infatti, manca una sua sede fissa. Inoltre, la maggior parte dei profitti delle imprese digitali deriva dallo sfruttamento degli intangibles – nel senso di cui innanzi si è fatto cenno – che contribuisce al fenomeno dell’erosione delle basi imponibili: tali beni, infatti, mal si prestano ad una agevole “valorizzazione” e, comunque, possono essere spostati con facilità da un Paese all’altro. Tanto, dal punto di vista fiscale, si traduce nella difficoltà sia di determinare il quantum da assoggettare a tassazione sia di individuare il Paese cui spetta l’esercizio del potere impositivo.
Le regole che per più di un secolo e ancora oggi disciplinano la tassazione dei redditi transnazionali poggiano su due principi fondamentali: il world-wide taxation principle, ovverosia il principio secondo cui ciascuno Stato può tassare i redditi ovunque prodotti posseduti dai soggetti residenti, e il source-based taxation principle, ovverosia il principio secondo cui ciascuno Stato (quale Stato della fonte del reddito) può tassare i redditi prodotti nel proprio territorio dai soggetti non residenti.
Per eliminare i possibili fenomeni di doppia imposizione che potrebbero derivare dalla combinazione dei principi anzidetti, ciascuno Stato (quale Stato della residenza dell’impresa multinazionale) – attraverso la stipula di accordi con altri Paesi e l’adozione di norme fiscali interne – prevede l’esenzione dei redditi di fonte estera ovvero il riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero: in tal modo, viene altresì ripartito il carico fiscale tra i vari Paesi in cui uno stesso soggetto realizza i presupposti impositivi.11 Si tratta di un sistema di imposizione “personale”, che fa prevalere la potestà impositiva dello Stato di residenza del contribuente su quella dello Stato della fonte del reddito; allo Stato estero in cui è localizzata la fonte del reddito dell’impresa multinazionale, infatti, è riconosciuta una potestà impositiva limitata al reddito effettivamente e direttamente attribuibile alla fonte.12
Il nexus tradizionalmente riconosciuto per ricollegare il reddito d’impresa al territorio è la stabile organizzazione, articolazione fisica qualificata (materiale o personale) presente nel territorio di un Paese estero che “costituisce la fattispecie in cui si verifica quella forma di collegamento con il territorio dello Stato che legittima quest’ultimo a tassare il reddito prodotto da un’impresa estera”.13 Nel caso in cui, invece, i redditi siano prodotti all’estero non per il tramite di una stabile organizzazione, come nel caso di interessi, dividendi e royalty, lo Stato della fonte – ovverosia lo Stato in cui sono localizzati i soggetti eroganti – limita la tassazione ad alcuni punti percentuali, mentre lo Stato di residenza dell’impresa beneficiaria ne assoggetta ad imposizione ordinaria il reddito complessivo.14 In definitiva, quindi, quando un’impresa multinazionale opera in uno Stato estero tramite una stabile organizzazione, essa subisce in detto Stato la tassazione ordinaria del reddito (netto) ivi prodotto; nell’ipotesi in cui, invece, siano prodotti all’estero redditi qualificati come interessi, dividendi e royalty, questi saranno tassati (al lordo) – anche se con aliquote ridotte – attraverso l’applicazione delle ritenute nello Stato della fonte.15
Come è intuibile, la realtà economica attuale non corrisponde più al modello a cui si ispira il Modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni: l’impianto normativo sull’allocazione delle basi imponibili è inadatto a tassare i redditi prodotti dalle digital companies nel Paese della fonte, qualora manchi un collegamento “fisico” con il territorio di tale Paese che ne giustifichi la pretesa impositiva.16
2 La proposta dell’OCSE
La crescente attenzione mondiale nei confronti dell’economia digitale e delle sue ripercussioni in campo fiscale ha trovato espressione negli studi dell’OCSE. Il programma di lavoro17 pubblicato dall’OCSE il 31 maggio 2019 (e formalmente approvato al summit G20 di Fukuoka dell’8–9 giugno 201918), che si pone l’obiettivo di trovare una soluzione di consenso alle sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia entro la fine del 2020, è il precipitato dei precedenti lavori – Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report19 e Tax Challenges Arising from Digitalisation-Interim Report 201820 – della Task Force on Digital Economy (istituita nel 2013), filtrati dai rilievi e dalle osservazioni degli Stati che fanno parte dell’Organizzazione.
Di fatto, già nel Final Report del 201521 l’OCSE evidenziava come la digitalizzazione avesse pervaso l’economia mondiale al punto da non poter più riconoscere la digital economy come un settore a sé stante destinatario di soluzioni mirate. L’OCSE individuava, tuttavia, alcuni tratti comuni ai nuovi modelli di business più digitalizzati, rilevanti sotto il profilo fiscale, ossia:
- la mobilità, riferita agli intangibles (sui quali si basa prevalentemente l’economia digitale), agli utenti e alle funzioni aziendali (come conseguenza della minore necessità di personale locale per svolgere determinate funzioni e della flessibilità, in molti casi, di scegliere dove allocare i server e le altre risorse);
- l’utilizzo intensivo dei dati, compreso in particolare l’uso dei c.d. big data;22
- la presenza di c.d. “effetti di rete”, con riferimento alla partecipazione degli utenti al processo di creazione di valore, all’integrazione e alle sinergie tra gli stessi;
- il ricorso a modelli di business multilaterali, in cui le due parti contraenti possono trovarsi in ordinamenti giuridici diversi;
- la tendenza al monopolio o all’oligopolio in alcuni modelli di business che dipendono fortemente dagli effetti di rete;
- la volatilità del mercato, dovuta all’assenza di barriere all’ingresso e alla rapida evoluzione della tecnologia.23
Sulla scorta di tali considerazioni, l’OCSE, da un lato, suggeriva di individuare le soluzioni anti-BEPS per la digital economy nell’ambito delle altre Azioni del Progetto, e, dall’altro, evidenziava l’importanza di approfondire tre tematiche fondamentali per la risoluzione del problema dell’allocazione dei diritti impositivi tra Paesi diversi, ovvero l’individuazione del criterio di collegamento di un’impresa non residente con un certo territorio (c.d. nexus), la valorizzazione dei dati nella creazione di valore nei modelli di business delle imprese digitali e la qualificazione dei pagamenti relativi alla fruizione dei beni e dei servizi digitali (c.d. characterisation).24 Infine, il Final Report del 2015 suggeriva tre possibili soluzioni alle sfide poste dalla digital economy: a) l’introduzione del concetto di significant economic presence, secondo cui sarebbe fiscalmente rilevante la presenza di un’impresa non residente quando sorretta da fattori (quali i redditi conseguiti localmente, fattori digitali – come la presenza di domini, siti web o piattaforme specificatamente rivolte al mercato locale – ed indicatori relativi all’utenza locale) che indichino un’interazione volontaria e continuativa con l’economia di un altro Paese, anche in assenza dei tradizionali presupposti materiali; b) l’introduzione di una withholding tax da applicare ad alcuni tipi di pagamenti effettuati da soggetti residenti per l’acquisto online di beni e servizi offerti da soggetti non residenti; c) l’introduzione di un’equalization levy,25 ossia di un prelievo perequativo che sopperisca alle disparità di trattamento fiscale tra le imprese residenti e le imprese non residenti dotate di una significant economic presence.26
La scelta di ricorrere ad una di queste possibili misure era stata rimessa ai singoli Stati: l’OCSE, infatti, ha ritenuto che
none of the other three options analysed by the TFDE (Task Force on Digital Economy) were recommended at this stage. This is because, among other reasons, it is expected that the measures developed in the BEPS Project will have a substantial impact on BEPS issues previously identified in the digital economy, that certain BEPS measures will mitigate some aspects of the broader tax challenges, and that consumption taxes will be levied effectively in the market country.27
A seguito dell’invito rivolto all’OCSE dal G20 di implementare il progetto BEPS su tali temi coinvolgendo un numero maggiore di Paesi, nel giugno 2016 è stato istituito l’Inclusive Framework on BEPS – a cui hanno aderito oltre 110 Paesi – ed è stato rinnovato il mandato alla Task Force on Digital Economy, con il compito di analizzare nel dettaglio i mutamenti dello scenario economico dovuti alla digitalizzazione e le eventuali falle del sistema fiscale internazionale che gli stessi avrebbero potuto far emergere.
Il 16 marzo 2018 la Task Force on Digital Economy ha pubblicato un rapporto intermedio (Tax Challenges Arising From Digitalisation – Interim Report), in cui sono state prioritariamente analizzate le modalità di creazione del valore nei modelli di business digitale; di questi ultimi è stata approfondita l’analisi delle caratteristiche comuni, ovverosia “cross-jurisdictional scale without mass, the importance of intangible assets, and the importance of data, user participation and their synergies with IP.”28 Pur concordando sulla rilevanza di tali fattori nell’economia digitale, i Paesi partecipanti all’Inclusive Framework hanno espresso pareri contrastanti riguardo al ruolo e al peso specifico dei data e della partecipazione degli utenti alla creazione di valore.29 Per di più, la Task Force ha rilevato che gli effetti del Progetto BEPS sull’economia digitale sono ben lontani da quelli auspicati ed auspicabili, a causa della complessità delle sfide poste dal digitale alla fiscalità internazionale.
È stato osservato come l’espansione del fenomeno della cross-jurisdictional scale without mass possa condizionare la distribuzione dei diritti impositivi tra Stati, riducendo il numero di luoghi in cui i profitti di una multinazionale vengono tassati. Per gli asset immateriali hanno trovato conferma, anche dopo il progetto BEPS, i timori relativi alla mobilità e alla difficile individuazione di chiare connessioni tra i profitti ad essi attribuiti ed il concreto svolgimento dell’attività economica. In particolare, sono state messe in luce le criticità inerenti all’identificazione della proprietà e alla localizzazione di alcune categorie di asset immateriali largamente impiegati dalle imprese digitali. È stato, inoltre, fatto cenno alla facoltà dei gruppi multinazionali di continuare a compiere dislocazioni strumentali dei profitti, costituendo nelle market jurisdictions entità che, non svolgendo funzioni rilevanti in relazione agli asset immateriali (di maggior valore), non acquisiscono titolo a remunerazioni significative (cd. limited risk distributors – LRD’s). Infine, sul ruolo degli utenti, è stata ricordata la necessità di ricomporre la spaccatura venutasi a creare tra gli Stati (a cui si è fatto cenno innanzi), sia per quanto concerne la loro possibile rilevanza nei processi di creazione del valore, sia per quanto attiene al loro peso nella definizione del nesso territoriale imponibile.
Tenuto conto dei rilievi mossi dai membri dell’Inclusive Framework nei confronti dell’analisi svolta dall’OCSE, quest’ultima ha intensificato i propri lavori sul dossier della fiscalità digitale fino alla pubblicazione, il 23 gennaio 2019, di una Policy Note30 a cui ha fatto seguito una consultazione pubblica degli stakeholders, accompagnata dalla diffusione di un discussion document31 con cui sono state illustrate, in sintesi, le nuove iniziative.
Nel discussion document le nuove proposte al vaglio dell’Inclusive Framework sono state suddivise in due pilastri. Il primo, come concordato nella cornice dell’Interim Report, relativo alle modifiche della regola del nexus e dell’allocazione dei profitti delle imprese che operano worldwide; il secondo pilastro, invece, afferente alle questioni BEPS rimaste irrisolte.
Il primo pilastro si propone di dare risposta alle domande “come tassare”, “dove tassare” e “cosa tassare” rivedendo le norme fiscali ad oggi vigenti in tema di ripartizione della potestà impositiva tra i Paesi in cui opera una stessa impresa multinazionale, incluse le regole sui prezzi di trasferimento ed il principio di libera concorrenza (arm’s lenght principle). A tal fine, secondo l’OCSE, si rende necessario rivedere prioritariamente le c.d. regole “nexus”, che consentono di determinare la connessione di un’impresa con un determinato Stato.
La prima proposta, denominata user participation proposal, delinea un meccanismo di allocazione dei profitti riconducibili ad alcuni specifici modelli di business altamente digitalizzati (in cui il coinvolgimento continuo ed attivo degli utenti è fondamentale per la creazione di valore e, quindi, di profitti, come ad esempio le piattaforme di social media, i motori di ricerca, i market place online) che valorizza il luogo in cui è creato il valore, ossia lo Stato in cui si trovano gli utenti. Il reddito imponibile da attribuire a tale Stato, secondo questa proposta, dovrebbe essere calcolato secondo il metodo del non routine or residual profit split,32 che consiste nel destinare alla user jurisdiction una parte dei profitti che non derivano dalla gestione ordinaria bensì dallo sfruttamento del valore creato dalle attività degli utenti.
La seconda proposta – marketing intangible proposal – suggerisce di attribuire il potere impositivo agli ordinamenti giuridici di localizzazione dei beni immateriali (marchi, nomi commerciali, liste-clienti, informazioni sulla clientela e mercato), i quali costituirebbero il collegamento funzionale tra l’impresa proprietaria dei marketing intangibles ed il territorio dello Stato in cui sono creati. Tale meccanismo si applicherebbe ad ogni impresa che realizzi un profitto correlato agli intangibles, pure nel caso in cui questa operi mediante una presenza fisica minima sul territorio. Anche in questo caso i profitti attribuibili alla market jurisdiction sarebbero quelli residuali rispetto ai profitti della gestione ordinaria, attinenti alla predetta categoria di beni, calcolati secondo le regole del transfer pricing con uno specifico correttivo33 ovvero applicando un metodo molto simile a quello previsto dalla user participation proposal.
La terza e ultima proposta contenuta nel primo pilastro – significant economic presence proposal – valorizza il concetto di presenza economica significativa, riprendendo quanto previsto nell’Action 1 del Progetto BEPS (per cui la presenza fiscalmente rilevante di un’impresa in un dato Paese deve essere individuata sulla scorta dell’intenzionalità e della persistenza dell’interazione economica tra l’impresa non residente e il Paese stesso, valutata sulla base di una combinazione di fattori, sia di natura economico-quantitativa – volume di ricavi conseguito localmente –, sia tecnologico-fattuale – esistenza di una base-utenti, mantenimento da parte dell’impresa di un sito web in lingua locale, di sistemi di fatturazione e pagamento specifici per il mercato locale, ecc.). La proposta prevede che l’allocazione dei profitti alla significant economic presence avvenga secondo il fractional apportionment method (di cui all’Action 1 del Progetto BEPS) che si articola in tre fasi: a) determinazione della base imponibile da ripartire tra l’impresa non residente e la significant economic presence; b) definizione di specifiche allocation keys per la ripartizione di tale base imponibile; c) attribuzione di un peso specifico a ciascuna allocation key. La base imponibile potrebbe essere determinata applicando il tasso di profitto globale del gruppo multinazionale ai ricavi generati in un dato Paese e verrebbe ripartita tenendo conto di fattori quali le vendite, gli asset ed il personale, nonché gli utenti (per le imprese per le quali questi ultimi contribuiscono in modo significativo al processo di creazione di valore).34
Sono oggetto del secondo pilastro, invece, i rischi di erosione della base imponibile globale e di spostamento dei profitti da parte delle imprese verso Paesi a fiscalità privilegiata emersi a seguito della crescente digitalizzazione dell’economia; rischi rimasti irrisolti anche a seguito delle modifiche al Progetto BEPS.
Sulla scorta di tali premesse è stata avanzata la Global anti-base erosion proposal (c.d. GloBe) che si compone di due serie di norme interdipendenti: a) una income inclusion rule, che prevede l’inclusione del reddito della branch (o della controllata) estera nella base imponibile della società cui appartiene (o della controllante) qualora il carico fiscale effettivo a cui è assoggettata la prima sia particolarmente basso; b) una tax on base eroding payments, che consiste nel negare la deducibilità di un pagamento tra parti correlate se la relativa componente reddituale non è assoggettata ad una aliquota effettiva minima nel Paese di destinazione (undertaxed payments rule) e di disconoscere – nella stessa ipotesi – i benefici fiscali previsti nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (subject to tax rule).35
Negli auspici dei suoi promotori, la GloBe, così strutturata, ovvierebbe ai restanti rischi BEPS attraverso il rafforzamento del potere impositivo di ciascuno Stato che potrebbe autonomamente stabilire il livello della pressione fiscale, ferma restando la potestà impositiva “sussidiaria” degli altri Stati nel caso in cui i profitti d’impresa non vengano tassati o lo siano al di sotto della soglia minima determinata in via convenzionale.
Il 31 maggio 2019 l’OCSE ha pubblicato il programma di lavoro36 che chiarisce le modalità di interazione tra le proposte oggetto dei due pilastri e riduce il numero di soluzioni perseguite nell’ambito del primo, con l’intento di facilitare il raggiungimento di una soluzione di consenso a lungo termine alle sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia entro la fine del 2020.
Nel programma di lavoro, l’OCSE esorta ad intensificare le discussioni internazionali intorno ai due pilastri principali di riforma esposti nella Policy Note diffusa a gennaio 2019, descrivendo una road map tecnica da seguire. In dettaglio, visto il mancato accordo politico in merito alla scelta tra le soluzioni proposte per ripartire tra gli Stati il diritto di tassare il reddito generato dalle attività transfrontaliere delle imprese del digitale – user participation proposal, marketing intangible proposal e significant economic presence proposal – i punti in comune esistenti suggeriscono che esiste un margine di manovra sufficiente per stabilire un programma di lavoro che tenga conto di alcune key design features per una soluzione basata sul consenso nell’ambito del primo pilastro. Pertanto, i lavori verteranno su tre questioni: a) l’individuazione di diversi criteri per determinare l’ammontare degli profitti assoggettati al nuovo diritto di imposizione e la ripartizione di tali profitti tra diversi Stati;37 b) l’elaborazione di una nuova regola del nexus che rifletta un nuovo concetto di presenza economica nella c.d. market jurisdiction che rifletta le trasformazioni dell’economia e non sia vincolata al requisito della presenza fisica;38 c) la predisposizione di una serie di strumenti che assicurino la piena attuazione e l’efficiente gestione del nuovo diritto di imposizione, che consentano l’effettiva eliminazione della doppia imposizione ed evitino l’insorgenza di controversie.39
Quanto al secondo pilastro, invece, l’OCSE prospetta un’analisi approfondita della Global Anti-BEPS Proposal, nelle sue due principali componenti, la income inclusion rule e la tax on base eroding payments.
La income inclusion rule (che, come detto, verrebbe applicata ai redditi di fonte estera qualora fossero assoggettati a tassazione con un’aliquota effettiva inferiore ad un’aliquota minima) would apply where the income is not taxed at least at the minimum level – that is, it would operate as a top up to achieve the minimum rate of tax. A top-up to a minimum rate increases the likelihood of the proposal resulting in a transparent and simple global standard that sets a floor for tax competition and makes it easier to develop consistent and co-ordinated rules. It would further increase the likelihood of achieving a level playing field for both jurisdictions and MNEs [multinational enterprises] and reduces the incentive for inversions and other restructuring transactions designed to take advantage of low effective rates of taxation below the threshold.40
Operando come una minimum tax, la regola dell’inclusione incrementerebbe il prelievo fiscale fino al livello minimo concordato, ferma restando la libertà degli Stati di stabilire una tassazione più elevata dei redditi di fonte estera (come previsto, ad esempio, nei regimi CFC). Per determinare quando il reddito di fonte estera è stato tassato ad un livello minimo d’imposta, si suggerisce l’adozione di un’aliquota d’imposta in misura fissa, mentre per il calcolo della base imponibile si invita a fare riferimento alle disposizioni in materia di CFC vigenti negli ordinamenti giuridici dello Stato della parent company (o in mancanza, quelle in materia di reddito d’impresa). Infine, sarà analizzata un’ulteriore problematica connessa all’applicazione della inclusion rule, ovverosia il possibile ricorso a meccanismi di blending che potrebbero essere messi in atto dalle multinazionali del digitale grazie alla capacità di “mix high-tax and low-tax income to arrive at a blended rate of tax on income that is above the minimum rate”.41 Per rendere possibile l’applicazione efficiente dell’income inclusion rule anche al reddito attribuibile alle stabili organizzazioni – se tassato al di sotto del livello minimo – si metterà a punto una switch-over rule che consenta allo Stato di residenza della parent company di applicare il metodo del credito d’imposta invece del regime dell’esenzione quando gli utili attribuibili alla stabile organizzazione sono soggetti ad un’aliquota effettiva inferiore all’aliquota minima.
A completamento del meccanismo dell’income inclusion rule, l’OCSE prevede l’introduzione di una tax on base eroding payments, che, come ricordato, consiste nel negare la deducibilità di un pagamento tra parti correlate se la relativa componente reddituale non è assoggettata ad una aliquota effettiva minima nel Paese di destinazione (undertaxed payments rule) e di disconoscere – nella stessa ipotesi – i benefici fiscali previsti nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (subject to tax rule). Questo meccanismo dovrebbe eliminare il rischio del fenomeno dell’erosione della base imponibile per lo Stato della fonte. Riguardo la undertaxed payment rule, l’analisi si concentrerà su alcuni aspetti, quali the types of related party payments covered by the rule (including measures to address conduit and indirect payments); the test for determining whether a payment is “undertaxed”, which will include dealing with loss situations; the nature, extent and operation of the adjustment to be made under the rule (including whether it should be on the gross amount of the payment or limited to net income),42 mentre, riguardo la subject to tax rule (la cui applicazione comporterebbe la revisione dell’oggetto e del perimetro di applicazione di alcune norme convenzionali, in particolare gli artt. 7, 9, 10, 11–13 e 21 del modello OCSE), si suggerisce di approfondire il coordinamento con la undertaxed payment rule per eludere il rischio che gli effetti dei due meccanismi si sovrappongano, vanificandosi.
Con l’intento di accelerare il raggiungimento di un accordo in merito alle questioni inerenti il primo pilastro e di colmare i divari tra le tre proposte innanzi ricordate, il 9 ottobre 2019 il Segretariato Generale dell’OCSE ha pubblicato un documento di consultazione pubblica43 in cui si propone un c.d. Unified Approach alle regole di individuazione del nexus e di allocazione dei profitti44 per rafforzare ed ampliare i diritti impositivi delle cc.dd. market jurisdictions nei confronti delle multinazionali digitali.
La proposta del Segretariato OCSE si basa su alcuni punti chiave: a) il campo di applicazione, ristretto ai modelli di business altamente digitalizzati comprese le società digitali che si rivolgono direttamente ai consumatori; b) un nuovo concetto di nexus, che non dipende dalla presenza fisica dell’impresa ma si basa principalmente sul volume delle vendite, con la previsione di soglie specifiche per ciascun Paese calibrate in modo da garantire che anche gli Stati con economie più piccole possano trarne beneficio in termini di gettito fiscale; c) una nuova regola di allocazione dei profitti che vada oltre l’arm’s length principle, relativa ai contribuenti che rientrano nel campo di applicazione della proposta indipendentemente dal fatto che essi siano presenti fisicamente (con una stabile organizzazione o una subsidiary) nel Paese di commercializzazione o di distribuzione ovvero che si avvalgano di cc.dd. distributors; d) maggiore certezza fiscale per i contribuenti e le amministrazioni fiscali grazie ad un meccanismo di allocazione dei profitti a tre livelli (c.d. Three Tier Mechanism).
In dettaglio, il c.d. Unified Approach, attraverso il ricorso al Three Tier Mechanism, riconosce alle cc.dd. market jurisdictions il diritto di tassare tre tipologie di importi. Il primo, c.d. Amount A, è dato da una quota-parte dei presunti profitti residui dei gruppi multinazionali, che, secondo il Segretariato, "would be the profit that remains after allocating what would be regarded as a deemed routine profit on activities to the countries where the activities are performed".45 Il c.d. Amount B, invece, è costituito da una quota fissa di profitti percepiti a titolo di remunerazione per le attività di marketing e di distribuzione svolte nella market jurisdiction e a quest’ultima attribuita. A tal proposito, si sottolinea che Activities in market jurisdictions, and in particular distribution functions, would remain taxable according to existing rules (e.g. transfer pricing under the arm’s length principle and permanent establishment allocation under Article 7). However, given the large number of tax disputes related to distribution functions, the possibility of using fixed remunerations would be explored, reflecting an assumed baseline activity. Appropriate and negotiated fixed returns could provide certainty to both taxpayers and tax administrations, and reduce the dissatisfaction with the current transfer pricing rules.46
Infine, il c.d. Amount C, che si aggiungerebbe ai precedenti e che deriva dall’applicazione dell’arm’s length principle, in due casi, ossia se in the marketing and distribution activities taking place in the market jurisdiction go beyond the baseline level of functionality and therefore warrant a profit in excess of the fixed return contemplated under Amount B, or that the MNE group or company perform other business activities in the jurisdiction unrelated to marketing and distribution.4748
In definitiva, la proposta del Segretariato OCSE è tesa ad affrontare le sfide fiscali conseguenti alla digitalizzazione dell’economia e a concedere nuovi diritti impositivi ai Paesi in cui si concentrano gli utenti raggiunti dalle imprese che ricorrono a modelli di business altamente digitalizzati.
Anche in questa occasione, quindi, viene ribadito che l’attribuzione di nuovi diritti impositivi alle c.d. market jurisdictions attraverso nuove regole per la determinazione del nexus e di allocazione dei profitti costituisce la normale conseguenza del mutato contesto economico, in cui le imprese riescono ad “inserirsi” nella vita quotidiana dei consumatori (utenti compresi), ad interagire con la loro clientela e a creare valore senza la necessità di essere fisicamente presenti sul mercato. Il Segretariato, tuttavia, evidenzia come questo fenomeno riguardi non soltanto le imprese altamente digitalizzate che interagiscono a distanza con gli utenti – che potrebbero anche non essere loro clienti – ma anche quelle imprese che commercializzano i propri prodotti/servizi sfruttando le nuove tecnologie per ampliare la propria clientela.
L’Unified Approach parte comunque dal presupposto che, nonostante sembri evidente che i membri dell’Inclusive Framework concordino che le operazioni routinarie possano essere valutate secondo l’arm’s length principle, vi sono crescenti dubbi sul fatto che il predetto principio possa essere utilizzato per ottenere un risultato adeguato in tutti i casi (come, ad esempio, riguardo i non-routine profits from intangibles49). In questo contesto, il suggerimento del Segretariato consiste nel mantenere le regole attuali ispirate all’arm’s length principle nei casi in cui si ritiene che esse possano funzionare in maniera efficace ed efficiente e, contestualmente, introdurre formula-based solutions nei casi in cui, a causa del fenomeno della digitalizzazione dell’economia, le predette regole non garantirebbero il risultato sperato.
Il nuovo concetto di nexus (che si aggiunge al tradizionale concetto di stabile organizzazione) affronterebbe questo problema essendo applicabile in tutti i casi in cui un’impresa abbia un coinvolgimento significativo e costante nell’economia della c.d. market jurisdiction, ad esempio attraverso l’interazione ed il coinvolgimento degli utenti/consumatori presenti, indipendentemente dalla sua presenza fisica in quello Stato. Nelle indicazioni del Segretariato, il modo più semplice di applicare la nuova regola del nexus sarebbe quello di definire la quota di revenue prodotta dall’impresa nel mercato (il cui importo potrebbe essere adattato alle dimensioni del mercato stesso), quale indicatore primario di un coinvolgimento duraturo e significativo dell’impresa in tale Stato, che tenga conto, ad esempio, anche dei servizi di pubblicità online rivolti agli utenti (non consumatori finali) localizzati in Paesi diversi da quelli in cui sono contabilizzati i relativi ricavi. In tal modo sarebbe garantita la neutralità tra i diversi modelli di business, coinvolgendo nel campo di applicazione delle nuove regole impositive tutte le forme di coinvolgimento remoto di un’impresa nell’economia di una c.d. market jurisdiction (quindi, sia le società del mondo digitale che si rivolgono direttamente agli utenti/consumatori, sia quelle che si avvalgono di un c.d. “distributor” per commercializzare i propri prodotti e servizi digitali).50
Al fine di facilitare il raggiungimento di una soluzione condivisa anche con riguardo al Pillar Two e, in particolare, alla c.d. GloBE, il Segretariato OCSE, l’8 Novembre 2019 ha diffuso un secondo documento di consultazione pubblica – il cui oggetto è limitato alla income inclusion rule – sollecitando gli stakeholders a presentare commenti su tre specifiche questioni tecniche per la determinazione del carico fiscale effettivo delle società della digital economy: a) se e in che misura i conti finanziari potrebbero essere usati come base imponibile per determinare l’aliquota fiscale effettiva (c.d. ETR, effective tax rate) cui dovrebbe essere assoggettata una multinazionale del digitale; b) in che misura il calcolo dell’aliquota fiscale effettiva dovrebbe tener conto delle imposte pagate da una multinazionale su base globale oppure su base nazionale; e c) la possibilità di prevedere esclusioni dall’ambito applicativo della proposta GloBe.5152
Sulla scorta dei suggerimenti ed anche dei dubbi espressi dalle parti interessate (governi, mondo imprenditoriale, esperti del settore, comunità accademica), a Gennaio 2020 l’Inclusive Framework ed il G20 hanno approvato un nuovo Programma di Lavoro riguardante il Primo Pilastro, che sostituisce il precedente (pubblicato a Maggio 2019).53
Lo Statement innova lo schema dell’Unified Approach relativamente al Pillar One così da consentire la negoziazione di una soluzione consensuale da concordare entro la metà del 2020 e illustra il programma di lavoro che dovrebbe consentire di attuare le soluzioni prospettate entro la fine del 2020.54
L’OCSE si concentra soprattutto sull’Amount A, che costituirebbe la principale risposta alle sfide fiscali dell’economia digitale, e precisa che il nuovo diritto di imposizione fiscale riconosciuto alle cc.dd. market jurisdictions sulla scorta di specifiche formule sarebbe esercitabile su una parte degli profitti residui (appunto, l’Amount A) di alcune specifiche categorie di soggetti passivi, quali: a) le imprese che forniscono i cc.dd. automated digital services, ossia servizi digitali automatizzati e standardizzati a una clientela o a una platea di utenti estese a livello globale, operando a distanza e utilizzando al minimo o per nulla le infrastrutture locali; b) i cc.dd. consumer-facing businesses, ossia le imprese che generano ricavi dalla vendita di beni e servizi solitamente rivolta ai consumatori (ossia individui che acquistano per uso personale e non per scopi commerciali o professionali), sia direttamente che indirettamente attraverso rivenditori terzi o intermediari che svolgono attività minoritarie quali quelle di montaggio e di imballaggio; c) le imprese che generano ricavi dai diritti di licenza su prodotti di consumo a marchio registrato; d) le imprese che generano ricavi attraverso la concessione in licenza di un marchio (e del know-how commerciale), come nel caso del modello commerciale del franchising.
Il nuovo diritto impositivo opererà, tuttavia, con una serie di limitazioni. In primo luogo sarà esercitabile nei confronti dei gruppi multinazionali che raggiungono una certa soglia di ricavi lordi (che, secondo l’OCSE, potrebbe essere la stessa di quella prevista dai Country-by-Country reporting standards ai sensi dell’Action 13 del BEPS, ossia entrate lorde superiori a 750 milioni di euro), i quali, tuttavia, potrebbero beneficiare di un’ulteriore esclusione se il totale dei ricavi realizzati dall’intero gruppo che derivano dalle attività rientranti nell’ambito di applicazione del Pillar One sia inferiore ad una certa soglia. Inoltre, verrà presa in considerazione l’ipotesi di escludere altresì le situazioni in cui il reddito totale da assegnare alle market jurisdictions in base al nuovo diritto di imposizione fiscale non raggiungerebbe un certo importo minimo, fermo restando che sono allo studio anche ulteriori esclusioni e limitazioni che rileverebbero per il calcolo effettivo dell’Amount A e dell’applicazione della nuova regola del nexus.
Proprio per quanto riguarda il nexus, l’OCSE chiarisce che la nuova regola si baserà su indicatori di un coinvolgimento significativo e duraturo dell’impresa con le market jurisdictions e che la prova primaria sarà costituita dalla realizzazione di ricavi derivanti dallo svolgimento di attività che rientrano nell’ambito del Pillar One in un arco temporale di più anni. In ogni caso, le soglie dovranno essere concordate in base alle dimensioni del mercato di riferimento, fermo restando un minimo assoluto. Mentre per i cc.dd. automated digitalised businesses la soglia di reddito che verrà stabilita costituirà il solo test richiesto per verificare la presenza di un nexus con la market jurisdiction, con riguardo alle altre attività rilevanti l’obiettivo non è quello di creare un nuovo nexus se l’impresa multinazionale si limita a vendere beni di consumo in una market jurisdiction senza un’interazione significativa con il mercato stesso.
L’obiettivo è quello di progettare test che siano semplici, che contribuiscano a scongiurare il rischio della doppia imposizione. Allo stesso modo, si vorrebbero evitare (o limitare al minimo indispensabile) ulteriori obblighi fiscali e amministrativi derivanti dall’attribuzione del nuovo diritto di imposizione a più market jurisdictions per cui sarà necessario prevedere meccanismi semplificati di reporting e di registrazione (ad esempio, one stop shop) e il deposito esclusivo Paese di residenza fiscale della capogruppo (come nel caso del Country-by-Country Reporting).
Gran parte del lavoro, tuttavia, dovrà essere focalizzato sul calcolo dell’Amount A e sulla sua ripartizione tra le market jurisdictions.
Secondo l’OCSE, l’Amount A sarà determinato sulla base del risultato che emerge dal bilancio consolidato del gruppo, per cui, qualora i ricavi connessi ad attività escluse dall’ambito di applicazione delle nuove regole impositive fossero considerevoli, potrebbe essere necessario predisporre bilanci “segmentati” che fotografino soltanto i segmenti di business rilevanti al fine dell’allocazione dell’Amount A tra diversi Stati. In alcuni casi potrebbe essere richiesta la rendicontazione “segmentata” tra più Paesi e/o linee di business, quando la capacità contributiva legata al nuovo diritto impositivo varia significativamente tra gli stessi. Da quanto emerso dalle precedenti consultazioni pubbliche, il reddito al lordo delle imposte (profit befor tax, c.d. PBT) è l’indicatore da preferire per il computo dell’Amount A in quanto, nella maggior parte dei casi, si avvicina maggiormente alla misura del reddito con riferimento alla quale viene normalmente applicata l’imposta sul reddito delle società.
Una volta calcolato l’Amount A sarà poi necessario ripartirlo tra le market jurisdictions qualificate utilizzando una regola concordata che dovrebbe basarsi sull’ammontare delle vendite che genera un nexus (V. supra, a proposito del nexus), anche se dovranno essere sviluppate regole ad hoc in riferimento a diversi modelli di business. Ad esempio, per la pubblicità online tali regole prenderanno in considerazione i provenienti realizzati nel Paese in cui la pubblicità viene visualizzata piuttosto che quelli realizzati nel Paese in cui la pubblicità viene acquistata.
L’Amount B, invece, dovrebbe rappresentare la remunerazione fissa dei distributori (siano essi costituiti come società controllata o come stabile organizzazione tradizionale) che acquistano prodotti da parti correlate allo scopo di rivenderli e, nel far ciò, svolgono specifiche baseline marketing and distribution activities. In altre parole, tale importo costituirebbe una remunerazione fissa per i distributori che rientrano in questa definizione basata sull’arm’s lenght principle (cioè l’Amount B non sarebbe facoltativo né costituirebbe un safe harbour), nel tentativo di semplificare il calcolo del rendimento delle attività che rientrano nell’ambito di applicazione del Pillar One e di ridurre le controversie e l’incertezza sui prezzi di alcuni tipi di attività di distribuzione.
L’OCSE riconosce che il raggiungimento di un accordo sull’ammontare dell’Amount B richiederà ai Paesi di giungere a dei compromessi tra il rigoroso rispetto del principio di piena concorrenza e l’amministrabilità della predetta “remunerazione fissa”.
Infine, nello Statement si legge che si sta valutando l’opzione di implementare il Pillar One su base opzionale, in modo che ciascun gruppo multinazionale possa decidere se assoggettarsi o meno alle nuove regole fiscali previste dal Pillar One. Il c.d. global safe harbour system è stato proposto dal Governo degli Stati Uniti, secondo cui l’applicazione delle regole del nuovo Unified Appoach comporterebbero deroghe considerevoli alle tradizionali regole dell’arm’s lengh principle, del transfer pricing e della stabile organizzazione, pilastri di lunga data del sistema fiscale internazionale su cui si basano i contribuenti statunitensi. Gli Stati Uniti ritengono che tali preoccupazioni possano essere affrontate e che gli obiettivi del Pillar One possano essere sostanzialmente raggiunti facendo di quest’ultimo un regime opzionale. Gli altri Paesi, tuttavia, hanno espresso la loro preoccupazione riguardo la possibilità di prevedere un approccio opzionale al Pillar One che spazzerebbe via gli sforzi dell’OCSE per raggiungere una soluzione globalmente concordata.55
3 Quali prospettive?
Le sfide che pone l’economia digitale sono numerose anche se, forse, riconducibili ad un unico interrogativo: si riuscirà ad arrivare ad una soluzione condivisa a livello internazionale? Dai lavori dell’OCSE emerge con chiarezza come la difficoltà maggiore nel cercare una strategia efficace per “governare” il mondo della digital economy consista proprio nella ricerca di un compromesso tra la necessità di eliminare – o quantomeno limitare – i rischi di base erosion and profit shifting connessi alla digital economy e quella di garantire agli Stati un certo margine di manovra per quanto riguarda la tassazione dei redditi che ne derivano.
3.1 Possibili effetti dell’attribuzione della potestà impositiva residuale alla market jurisdiction
L’approccio dell’Organizzazione internazionale, dunque, appare condivisibile laddove mira a plasmare il sistema di tassazione transfrontaliera per adattarlo alla realtà attuale. Se è vero, come detto, che l’economia digitale non è un settore a sé stante ma, piuttosto, l’economia stessa dei giorni nostri, ben si comprende come la strategia fiscale debba essere trasversale. Tanto, allora, giustifica anche la proposta di ridistribuire la potestà impositiva tra gli Stati sulla scorta di un criterio “rivoluzionario”, quale il luogo di creazione del valore, che valorizzi il rapporto di do ut des tra l’impresa e lo Stato, in virtù del quale a quest’ultimo viene riconosciuto il potere di tassare le attività che producono reddito sul proprio territorio a fronte dello sfruttamento, da parte dell’impresa, del territorio stesso, dei servizi che offre e dei benefici che le sono concessi. In altre parole, lo Stato consente all’impresa digitale di produrre ricavi e dedurre costi e questa, in cambio, deve contribuire alle spese pubbliche. D’altronde, la scelta di riconoscere una potestà impositiva residuale al market country, ossia al Paese in cui, in definitiva, è collocata la domanda, è in linea con il fondamentale ruolo svolto dai consumatori/utenti, non più passivi consumer di beni e servizi, ma attivi prosumer, al tempo stesso consumatori e produttori nel processo di creazione di valore.56
E’ possibile già anticipare quali Stati beneficeranno dei nuovi meccanismi impositivi dei profitti delle imprese del web. Non vi è dubbio che i Paesi emergenti, che possono contare su un numero di consumatori sempre in crescita, potenzialmente beneficeranno di un netto aumento delle entrate fiscali. Viceversa, Stati come l’Irlanda che, non potendo contare sulla quantità di prosumers, hanno modellato la loro forza attrattiva sulle infrastrutture e sulla specializzazione dei propri lavoratori, oltre che su una tassazione agevolata, potrebbero perdere una ingente quota del gettito fiscale a causa dei nuovi meccanismi di riallocazione dei profitti (soprattutto – nel caso irlandese – se l’aliquota minima fosse superiore al 12,50%).
3.2 Gli ostacoli (politici) ad una soluzione condivisa
Ferme restando queste prime approssimative riflessioni, non vi è dubbio che il risultato finale della strategia OCSE potrà essere apprezzato solo una volta determinato con precisione il meccanismo di riallocazione dei profitti, in particolare, considerando il tipo e la quantità e, nonostante siano stati fatti passi avanti nei mesi scorsi, come ammesso dall’OCSE stessa, l’Unified Approach presenta ancora numerose lacune e resta ancora molto lavoro per raggiungere un consenso sul primo e sul secondo pilastro entro la scadenza della fine del 2020, soprattutto con riguardo a numerose questioni tecniche, attuative e amministrative. Un approccio unico basato sul consenso internazionale può offrire vantaggi significativi rispetto alla prospettiva della proliferazione di un gran numero di web taxes distinte, il che significa ottenere il consenso anche degli Stati Uniti, sede della maggior parte delle più grandi (e prospere) società del digitale.57 Dal G20 tenutosi a Riyad il 22–23 febbraio 2020 è emersa la volontà di convalidare il lavoro dell’OCSE ma anche un forte scetticismo (espresso soprattutto dalla Francia) nei confronti della proposta americana di declassare il Pillar One-Unified Approach ad un safe harbour solo opzionale, che è comunque al vaglio dell’Inclusive Framework. In tal caso, la buona riuscita dell’Unified Approach dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità dell’OCSE di mettere insieme regole dettagliate che offrano certezza e non siano eccessivamente onerose per le imprese.
Si potrebbe ipotizzare un’implementazione graduale delle nuove regole fiscali, ad esempio introducendo dapprima quelle inerenti il Pillar One e limitatamente ad alcune imprese soltanto, per studiarne gli effetti e l’efficacia, per poi estenderne l’ambito soggettivo di applicazione ed infine procedere all’implementazione del Pillar Two. Tanto consentirebbe anche ai singoli Stati di verificare in concreto la fattibilità della trasformazione radicale del nuovo impianto della fiscalità internazionale, anche e soprattutto dal punto di vista della tenuta dei sistemi fiscali interni e della capacità delle amministrazioni finanziarie di gestire la nuova imposta.
3.3 Punti deboli del c.d. Three Tier Mechanism
Tanto premesso, da un punto di vista tecnico non c’è dubbio che le difficoltà maggiori riguardino il c.d. Three Tier Mechanism, che rischia di realizzare effetti distorsivi del mercato considerato che, come detto, le remunerazioni delle attività routinarie dovrebbero essere predeterminate sulla scorta dei vari settori in cui opera l’impresa senza considerare le peculiarità di ciascun caso.58
Nello Statement pubblicato a Gennaio 2020 particolare attenzione viene posta sul calcolo dell’Amount A, ossia gli extra-profitti che eccedono la normale remunerazione prevista per le attività routinarie, e sulla sua distribuzione tra diverse market jurisdictions. La base di partenza per la determinazione dell’Amount A dovrebbe essere costituita di bilanci consolidati di gruppo delle multinazionali del digitale; secondo l’OCSE While MNE groups produce consolidated financial statements under different accounting standards, most of the variations identified between different accounting standards are timing differences which do not affect the aggregate amount of income reported over time. This means that the type of adjustments required to harmonise the use of different financial accounting standards across different jurisdictions are likely to be kept to a minimum and relate only to material items, meaning differences that are significant in amount and duration. It also assists the calculation of a measure of profit on a broadly consistent basis across jurisdictions.
In altre parole, il ricorso a principi contabili differenti da parte delle diverse market jurisdictions sembrerebbe un problema facilmente superabile grazie a dei correttivi che consentano di eliminare le differenze più significative. Tuttavia, premesso che lo scopo principale dei principi contabili internazionali è quello di fornire informazioni finanziarie rilevanti agli stakeholders e, quindi, non ha nulla a che vedere con quello dei sistemi fiscali, sembrerebbe evidente che, in realtà, il ricorso a principi e regole contabili differenti avrebbe effetti ben più gravi sul disegno del Pillar One: si pensi al potenziale riconoscimento di utili non realizzati (nel caso degli US GAAP o degli IFRS) o alla generazione di riserve occulte attraverso regole basate sulla prudenza (nei GAAP locali) e al loro impatto sulla capacità contributiva delle imprese. Tali aspetti non possono essere tralasciati o, comunque, sottovalutati nella ricerca di un insieme specifico di regole contabili per determinare l’utile aggregato delle imprese multinazionali. Il ricorso ad alcuni correttivi potrebbe aiutare a far emergere la capacità contributiva effettiva delle stesse imprese digitali ma, per un verso, potrebbe andare a discapito della semplicità richiesta dalla comunità internazionale e, per altro verso, potrebbe risultare difficoltoso giungere ad una soluzione di consenso sul punto. La determinazione della base imponibile della nuova imposta che l’OCSE, strenuamente, sta tentando di implementare dovrebbe scongiurare il rischio di disparità di trattamento tra i soggetti passivi.
3.4 Rischio di nuovi fenomeni di doppia imposizione
Ulteriori problemi sembrerebbero emergere a causa dell’interazione dell’Amount A con le attuale regole della fiscalità internazionale: dato che sia le regole fiscali tradizionali che quelle messe a punto dall’OCSE per colpire le società del digitale mirano a tassare gli utili societari, potrebbero presentarsi numerosi casi in cui si realizzerebbe una differenza di trattamento in circostanze analoghe, il che contrasterebbe con il principio della capacità contributiva. La stessa considerazione varrebbe anche con riguardo alla proposta di predisporre bilanci “segmentati” che fotografino soltanto i segmenti di business o le linee di business rilevanti al fine dell’allocazione dell’Amount A tra diversi Stati. Anche in questi casi si correrebbe il rischio di violare il principio di capacità contributiva nei casi in cui un’impresa multinazionale abbia una linea di business molto redditizia a discapito di ingenti perdite a livello aggregato, perché dovrebbe pagare le imposte su redditi inesistenti nelle market jurisdictions in cui verrebbe allocata la parte degli utili “segmentati”.
Un ulteriore rischio che sembrerebbe emergere dallo schema proposto nello Statement dello scorso Gennaio è quello della doppia imposizione. L’interazione dell’Amount A con gli Amounts B e C, e, a sua volta, l’interazione di tutti questi con l’attuale ordinamento fiscale internazionale potrebbe dare luogo al fenomeno della doppia imposizione a causa del conteggio multiplo degli stessi utili. Ad esempio, le remunerazioni delle attività di marketing, che dovrebbero essere ricomprese nell’ambito degli Amounts B e C, potrebbero avere rilevanza anche nell’ambito dell’Amount A quali extra-profitti derivanti da attività non routinarie. Il problema maggiore che si potrebbe presentare riguarda le ipotesi in cui gli Stati di residenza (identificati secondo le regole fiscali tradizionali) decidessero di tassare lo stesso reddito che è stato attribuito alle market jurisdictions (qualificate secondo le nuove regole dell’Unified Approach) senza concedere esenzioni o agevolazioni fiscali. Di fatto, a fronte dell’attuale sistema che pone l’obbligo di eliminare la doppia imposizione in capo allo Stato della residenza, l’OCSE adotta un approccio globale riguardo la distribuzione dei redditi di una stessa multinazionale tra diversi Paesi che renderebbe estremamente difficile stabilire quale Paese dovrebbe rinunciare al proprio potere impositivo a favore della/e market jurisdiction/s. Se le entità che attraggono redditi “residui” (secondo le regole per il calcolo dell’Amount A) sono fiscalmente residenti in Stati diversi da quello della capogruppo, sarebbe insensato richiedere allo Stato di residenza di quest’ultima di prevedere meccanismi per l’eliminazione della doppia imposizione riguardo l’Amount A. In ogni caso, questo è uno dei problemi più delicati che si dovrà affrontare, perché è evidente che il nuovo assetto di regole prospettato dall’Inclusive Framework comporta una nuova allocazione del potere impositivo che può portare alcuni Paesi ad opporsi all’implementazione dell’Unified Approach, come già affermato dagli Stati Uniti.
In conclusione, sebbene molte questioni siano ancora aperte e, quindi, ci sarebbe ancora margine per la ricerca di una soluzione condivisa, è indubbio che l’affermazione del principio per cui gli Stati hanno il diritto di tassare i gruppi multinazionali del digitale indipendentemente dalla presenza fisica degli stessi sul proprio territorio rappresenti una “pietra miliare” nella ridefinizione dello scenario fiscale internazionale.
Sul punto, ex multis, Haskel e Westlake descrivono dettagliatamente il ruolo che hanno svolto gli intangibles in alcuni dei grandi cambiamenti economici dell’ultimo decennio; Cfr. J. Haskel e S. Westlake, Capitalism without Capital: The Rise of the Intangible Economy, Princeton University Press, 2018.↩︎
Sul tema V. L. Carpentieri, La crisi del binomio diritto-territorio e la tassazione delle imprese multinazionali, in Rivista di Diritto Tributario, 2018, fasc. 4, I, 351 ss.; L. Del Federico - C. Ricci (a cura di), Le nuove forme di tassazione della digital economy, Roma, 2018; L. Carpentieri - S. Micossi - P. Parascandolo, Tassazione di impresa ed economia digitale, in Economia italiana, 2019, fasc. 1, 65 ss.; AA.VV., Profili fiscali dell’economia digitale (a cura di L. Carpentieri), Collana del Dipartimento di Studi economici e giuridici dell’Università di Napoli Parthenope, Torino, 2020.↩︎
Come ricorda De Bellis, la digitalizzazione consente la creazione di valore economico grazie all’utilizzo dei dati e delle informazioni associabili a quanto digitalizzato; A. De Bellis, I fattori portanti nella trasformazione dell’economia, nell’epoca digitale, in Management delle utilities e delle infrastrutture, 2018, XVI, fasc. 2, 53–56.↩︎
Secondo Leo L’economia digitale è, anzitutto, “a-territoriale”, in quanto la sua formazione e sviluppo non ha nessi tangibili di collegamento con il territorio di creazione della ricchezza, nonché naturalmente transnazionale, in virtù della facilità con cui gli operatori possono travalicare i confini nazionali degli Stati utilizzando i mezzi tecnologici. Altro elemento intrinseco all’economia digitale è, poi, la sua sostanziale dematerializzazione, dal momento che essa si basa su scambi non fisici e il trasferimento di beni non inclusi in supporti materiali. M. Leo, Quale tassazione per l’economia digitale, in Il fisco, 2018, 21, 2007.↩︎
Ulteriori caratteristiche dell’economia digitale sono state individuate dall’OCSE: a) nell’uso massiccio di dati riguardanti gli utenti, i suppliers e le operazioni; b) nella capacità di fare leva sui cosiddetti effetti di network grazie alla fitta interazione fra gli users; c) nella capacità di raggiungere posizioni dominanti nel mercato in tempi molto brevi creando oligopoli o monopoli grazie alla combinazione degli effetti di network e alla possibilità di operare con costi incrementali molto bassi; d) nella volatilità figlia della continua innovazione tecnologica e della quasi inesistenza di barriere all’ingresso per le nuove imprese del settore. Cfr. OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/9789264241046-en, 64–65.↩︎
L’enorme mole di dati che – più o meno consapevolmente – gli utenti immettono in internet costituisce valore per le imprese della digital economy: i c.d. big data, grazie all’utilizzo di software e di sofisticati algoritmi, vengono raccolti, rielaborati, riutilizzati e rivenduti. Un esempio è quello della pubblicità on-line: è possibile generare pubblicità mirata in base alle preferenze espresse dall’utente, ai siti web che ha visitato piuttosto che alle piattaforme digitali che è solito “frequentare”.↩︎
L’OCSE, a tal proposito, ricorda che Based on the analysis of the World Intellectual Property Organisation (WIPO) statistical database, the demand for intellectual property (IP) rights experienced strong growth over the previous decade. Taking industrial designs, patents, trademarks and utility models together, total IP rights applications have increased by an annual average of around 7.1% from 2004 to 2016, leading to an increase of more than 125% over the same period (WIPO, 2018). … The phenomenon of increased use and filing of IP rights seems to translate into aggregate growth, confirming the importance of intangibles in value creation. … While the heavy reliance upon intangibles represents a common characteristic of digitalised businesses, the exploitation of intangible assets are becoming an increasingly important driver of value creation in all businesses, not just digitalised businesses. Cfr. OECD (2018), Tax Challenges Arising from Digitalisation – Interim Report 2018: Inclusive Framework on BEPS, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/9789264293083-en, 52–53.↩︎
A. De Stefano, L’economia digitale tra libertà di stabilimento ed elusione fiscale, in Diritto Mercato Tecnologia, 2016, fasc. 1, 147–148.↩︎
Cfr. M. Leo, cit., pag. 2008.↩︎
Sul punto, si veda S. Cipollina, I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, 2014, 21.↩︎
Come sottolineato in dottrina, l’originaria coerenza del paradigma fiscale degli anni Venti, che regola una partita internazionale a due giocatori — lo Stato della fonte, dove il capitale estero è stato investito, e lo Stato della residenza dell’investitore — sfuma quando l’ingresso di altri giocatori sul terreno di gioco altera lo schema duale assunto dalle norme distributive. Verso la fine del Novecento, l’emersione di queste forme di nomadismo reddituale sposta parzialmente il focus dalla doppia imposizione internazionale alla doppia non imposizione internazionale. E tuttavia, il principio della “single taxation” — uno degli assiomi della fiscalità internazionale, risalente quasi a un secolo fa — include nel proprio ambito applicativo anche questa ipotesi “negativa”, perché ha un duplice significato: le imposte vanno pagate una sola volta, ma almeno una volta. Così S. Cipollina, Profili evolutivi della cfc legislation: dalle origini all’economia digitale, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2015, vol. LXXIV, fasc. 3, 356 ss..↩︎
Sintetizza bene i principi di fiscalità internazionale richiamati Fransoni nel Suo commento alla Comunicazione al Parlamento Europeo e al Consiglio sulla tassazione dell’economia digitale del 21 marzo 2018. Cfr. G. Fransoni, La web tax: miti, retorica e realtà, in Rivista di Diritto Tributario, supplemento online, aprile 2018.↩︎
L. Tosi - R. Baggio, Lineamenti di diritto tributario internazionale, Padova, 2018, 40. Si veda anche C. Sacchetto, Territorialità (dir. trib.), Enciclopedia del Diritto, XLIV, Torino, 1992, e dello Stesso Autore, L’evoluzione del principio di territorialità e la crisi della tassazione del reddito mondiale nel Paese di residenza, in Rivista di diritto tributario internazionale, 2001, fasc. 2, 35–57.↩︎
L. Tosi - R. Baggio, cit., 32 e ss..↩︎
In un recente studio, Olbert, Spengel e Werner analizzano l’attrattività dal punto di vista fiscale di trentatré Paesi, sulla scorta delle norme ad oggi vigenti in tema di stabile organizzazione (nexus), per le imprese digitalizzate. Dal Loro studio emerge che le imprese digitali sono gravate da aliquote fiscali effettive medie generalmente più basse rispetto a quelle che gravano sui modelli di business tradizionali, soprattutto perché una quota considerevole delle attività delle imprese digitali consiste in attività di ricerca e sviluppo che godono, nella maggior parte dei Paesi, di considerevoli agevolazioni fiscali. Sempre secondo gli Autori, quindi, il carico fiscale rappresenta un fattore di costo decisivo per quanto riguarda le decisioni relative agli investimenti nell’economia digitale che influisce anche sulla scelta del Paese in cui creare un nexus; M. Olbert - C. Spengel - A.C. Werner, Measuring and Interpreting Countries’ Tax Attractiveness for Investments in Digital Business Models, in Intertax, 2018, vol. 47, Issue 2, 148–160.↩︎
In merito all’impatto della digitalizzazione sulla tassazione delle società, Devereux e Vella espongono e commentano in modo dettagliato differenti soluzioni: dall’eliminazione dell’imposta sui redditi d’impresa, alla tassazione “per trasparenza” in capo ai soci, alla tassazione basata sulla localizzazione dei consumatori attuabile sui profitti o sul cash flow. A tale ultimo proposito, gli Autori propongono di tassare gli utili d’impresa nel luogo in cui si trovano i consumatori finali. Uno dei problemi principali che pone quest’ultimo modello è che l’attribuzione in via esclusiva del potere impositivo al Paese di destinazione potrebbe risultare del tutto arbitraria e le argomentazioni che gli Autori espongono a favore di tale modello non sembrerebbero comunque reggere ad alcuni rilievi critici; infatti, i Paesi attualmente più “forti” dal punta di vista economico e politico potrebbero trovare ulteriori argomenti teorici per opporsi all’attribuzione esclusiva del potere impositivo ai Paesi che costituiscono il luogo di destinazione dei beni e servizi offerti dalle società digitali, mentre i Paesi in via di sviluppo - che potrebbero considerarsi vincitori all’esito della transizione verso un sistema fiscale di tale tipo – potrebbero essere comunque disincentivati a mettere in atto un simile cambiamento se tanto dovesse comportare il ricorso a dei sistemi di riscossione troppo difficili da amministrare e/o troppo dispendiosi. Cfr. M.P. Devereux - J. Vella, Implication of digitalization for international corporate tax reform, Oxford University Centre for Business Taxation, Working Paper n. 7, 2017; A. Auerbach - M.P. Devereux - M. Keen - J. Vella, Destination-Based Cash Flow Tax, Oxford University Center for Business Taxation, Working Paper n. 17, 2017; M. Devereux - J. Vella, Are we heading towards a corporate tax system fit for the 21st century?, Oxford University Centre for Business Taxation, Working Paper no. 25, 2014. Per alcune riflessioni critiche riguardo la proposta di Devereux e Vella, cfr. A.B. Moreno, A Note on Some Radical Alternatives to the Existing International Corporate Tax and Their Implications for the Digital(ized) Economy, in Intertax, 2018, vol. 46, Issue 6–7, 560–564.↩︎
OECD (2019), Programme of Work to Develop a Consensus Solution to the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, OECD, Paris, <www.oecd.org/tax/beps/programme-of-work-to-develop-aconsensus-solution-to-the-tax-challenges-arising-from-the-digitalisation-of-the-economy.htm>.↩︎
G20 (2019), Finance ministers and central bank governors meeting – Fukuoka Jun. 8–9, final Communiqué, June 2019, in http://www.oecd.org/tax/oecd-secretary-general-tax-report-g20-finance-ministers-june-2019.pdf.↩︎
OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report, cit.. Giova ricordare che l’Action 1 del progetto BEPS – Addressing the tax challenges of the digital economy – si propone di identificare le principali difficoltà che emergono dall’applicazione delle regole della fiscalità internazionale all’economia digitale nonché di elaborare opzioni idonee a superare tali difficoltà, attraverso un approccio olistico e considerando sia la tassazione diretta che la tassazione indiretta.↩︎
OECD (2018), Tax Challenges Arising from Digitalisation – Interim Report 2018: Inclusive Framework on BEPS, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, cit..↩︎
Per un’analisi critica del punto di vista dell’OCSE espresso nel Final Report del 2015 e delle proposte di riforma riguardo la tassazione dell’economia digitale, si veda M. Olbert - C. Spengel, International Taxation in the Digital Economy: Challenge Accepted?, in World Tax Journal, February 2017, 3–46.↩︎
Non esiste una definizione univoca di “big data”, sebbene, in termini generali, sia possibile parlare di un insieme di dati sufficientemente grande da non poter essere gestito o analizzato con i tipici strumenti di gestione dei database. Sul punto, si veda OECD (2013–06–18), Exploring Data-Driven Innovation as a New Source of Growth: Mapping the Policy Issues Raised by “Big Data”, OECD Digital Economy Papers, No. 222, OECD Publishing, Paris, http://dx.doi.org/10.1787/5k47zw3fcp43-en.↩︎
Cfr. OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report, cit..↩︎
Riguardo al tema del nexus, nel Final Report del 2015 dell’OCSE si afferma che The continual increase in the potential of digital technologies and the reduced need in many cases for extensive physical presence in order to carry on business, combined with the increasing role of network effects generated by customer interactions, can raise questions as to whether the current rules to determine nexus with a jurisdiction for tax purposes are appropriate; riguardo ai data, invece The growth in sophistication of information technologies has permitted companies in the digital economy to gather and use information across borders to an unprecedented degree. This raises the issues of how to attribute value created from the generation of data through digital products and services, and of how to characterise for tax purposes a person or entity’s supply of data in a transaction, for example, as a free supply of a good, as a barter transaction, or some other way; infine, riguardo al tema della “characterisation”, si legge the development of new digital products or means of delivering services creates uncertainties in relation to the proper characterisation of payments made in the context of new business models, particularly in relation to cloud computing. Ibidem, par. 7.2.↩︎
L’India nel 2016 ha introdotto un contributo di perequazione (equalization levy) con l’aliquota del 6%, una misura che rappresenta una fedele declinazione dell’equalization levy proposta dall’OCSE e che si propone di assicurare la parità di trattamento fiscale tra imprese digitalizzate non residenti e le imprese concorrenti indiane, che offrono beni o servizi simili. Il prelievo viene effettuato sotto-forma di ritenuta da imprenditori o professionisti indiani (ovvero da stabili organizzazioni di soggetti non residenti) sui pagamenti effettuati per determinati servizi di pubblicità online forniti da soggetti non residenti (privi di una stabile organizzazione in India) che operano nell’ambito dell’economia digitale. In dettaglio, ricadono nell’ambito oggettivo di applicazione di questa misura online advertisement, any provision for digital advertising space or any other facility or service for the purpose of online advertisement and includes any other service as may be notified by the Central Government in this behalf (cfr. art. 161, lett. i), Financial Bill, 2016). L’obbligo di trattenere il 6% del pagamento sussiste solo se l’importo aggregato annuo dei pagamenti per uno specifico servizio supera il valore di 100.000 rupie. L’equalization levy si aggiunge alla ordinaria service tax, l’imposta sul consumo dei servizi indiana, la quale viene applicata dal fruitore del servizio con aliquota del 14,5%. Essendo qualificata come tributo non reddituale, l’equalization levy non ricade nell’ambito di applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni; tuttavia, alcuni Autori ritengono che la funzione e la struttura di questa misura la rendano simile ad un’imposta sui redditi, il che comporterebbe una serie di problemi di compatibilità con le previsioni degli accordi bilaterali di cui è parte l’India (che si rifanno al Modello OCSE). Su tutti, si veda il contributo di Ismer e Jescheck i quali osservano che The Indian equalization levy arguably qualifies as a covered tax under Article 2 of the OECD Model. The tax is imposed on digital services where the provider is a non-resident company and the recipient is a resident. The formal debtor of the tax is the recipient of the services, which must deduct and transfer 6% of the price to the tax authorities. Yet the actual tax burden is borne by the provider, as it receives a lower payment for its services. This makes the tax close to an income tax. The specific design of the tax brings further clarity, in that the equalization levy does not apply when the non-resident service provider maintains a PE in India. In that case, the regular income tax rate of 40% applies and expenses may be deducted from the tax base. The close connection to income tax implies that the equalization levy qualifies as a tax on income. The fact that the tax is levied on gross, rather than net, income does not make it a turnover tax, as gross taxation at source is commonly practiced and recognized under Articles 10(2) and 11(2) of the OECD Model. Cfr. R. Ismer - C. Jescheck, Taxes on Digital Services and the Substantive Scope of Application of Tax Treaties: Pushing the Boundaries of Article 2 of the OECD Model?, in Intertax, 2016, vol. 46, Issue 6 - 7, 575. Per ulteriori approfondimenti, si veda M. K. Singh, Taxation of digital economy: An Indian Perspective, in Intertax, 2017, vol. 45, Issue 6 - 7, 467–481; A. Unnikishnan - M. Nagappan, Virtual Permanent Establishments: Indian Law and Practice, in Intertax, 2016, vol. 45, Issue 6 - 7, 520 ss.; S. Basak, Equalization Levy: A New Perspective of E-Commerce Taxation, in Intertax, 2016, vol. 44, Issue 11, 845–852.↩︎
Cfr. OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 - 2015 Final Report, cit..↩︎
Ibidem, 148.↩︎
Cfr. OECD (2018), Tax Challenges Arising from Digitalisation – Interim Report 2018, cit..↩︎
Come riassunto da Confidustria alcuni Paesi partecipanti all’IF hanno sostenuto che i dati e la “partecipazione attiva” degli utenti possano effettivamente generare valore e costituire il collante dei noti effetti-rete frequentemente rilevati nelle imprese digitalizzate. In questa prospettiva, il contributo degli utenti, come ad esempio, la scrittura di una recensione o il caricamento di una fotografia su una piattaforma digitale, risulterebbe cruciale per instaurare il clima di fiducia e la crescita reputazionale necessaria ai brand del digitale per acquisire rilevanza e valore nel mercato. L’utilizzo dei dati per estendere il raggio d’azione delle piattaforme multilaterali o per somministrare pubblicità mirate agli utenti, costituirebbe parte integrante di un processo di creazione del valore che avviene essenzialmente nella giurisdizione in cui gli utenti si trovano, anche se la piattaforma è gestita, ed i servizi sono forniti, da remoto e in assenza di infrastrutture locali. Per i Paesi che condividono tale visione, la partecipazione degli utenti (o se si preferisce lo sfruttamento dei dati da essi generati) costituirebbero dunque elementi di un rapporto nuovo e sostanzialmente diverso dal mero consumo di un servizio digitale. Di opinione opposta, gli Stati che hanno inquadrato la partecipazione degli utenti alla stregua di un rapporto di interscambio. Fornendo i propri dati (consapevolmente o meno), gli utenti offrirebbero una compensazione di natura non monetaria a fronte di servizi erogati “gratuitamente” dalle imprese del digitale (si pensi alla raccolta dei dati degli utenti al consumo di servizi di ricerca su internet, di hosting di contenuti digitali, di posta elettronica, di messaggistica istantanea, ecc). Si tratterebbe pertanto di un processo di creazione del valore imputabile, almeno in parte, agli utenti (la creazione del contenuto) e non direttamente e integralmente all’impresa. Quest’ultima acquisirebbe infatti i dati alla stregua di un qualsiasi altro input produttivo. Pur riconoscendo la possibilità che si realizzi uno scambio utente-impresa di natura essenzialmente commerciale, i sostenitori di tale approccio hanno messo in risalto la difficoltà insite nella cattura di un simile fenomeno sul piano fiscale in applicazione delle regole vigenti (ad esempio inquadrandolo nelle logiche dell’arm’s lenght principle), considerata l’assenza di una transazione di natura finanziaria e di un relativo prezzo di trasferimento. Cfr. Confindustria, Nota di Aggiornamento, Principi fiscali internazionali e digitalizzazione dell’economia, giugno 2019, in https://www.confindustria.it/wcm/connect/709d0622-b64a-4e5e-98a8-b0ca44978022/Position+Paper\_Principi+fiscali+internazionali+e+digitalizzazione+dell%27economia\_25.6.19\_Confindustria.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT\_TO=url&CACHEID=ROOTWORKSPACE-709d0622-b64a-4e5e-98a8-b0ca44978022-mKfijyE.↩︎
OECD (2019), Addressing the tax challenges of the digitalization of the economy – Policy Note, January 2019, in https://www.oecd.org/tax/beps/policy-note-beps-inclusive-framework-addressing-tax-challenges-digitalisation.pdf.↩︎
OECD (2019), Addressing the tax challenges of the digitalization of the economy – Public consultation document, February 2019, in https://www.oecd.org/tax/beps/public-consultation-document-addressing-the-tax-challenges-of-the-digitalisation-of-the-economy.pdf.↩︎
Nel documento di consultazione, l’OCSE delinea, a titolo esemplicativo, la seguente procedura per il calcolo dei profitti attribuibili alla “user jurisdiction”: 1. Calculating the residual or non-routine profit of a business, i.e. the profits that remain after routine activities have been allocated an arm’s length return; 2. Attributing a proportion of those profits to the value created by the activities of users, which could be determined through quantitative/qualitative information, or through a simple pre-agreed percentage; 3. Allocating those profits between the jurisdictions in which the business has users, based on an agreed allocation metric (e.g. revenues); and 4. Giving those jurisdictions a right to tax that profit, irrespective of whether the business has a taxable presence in their jurisdictions that meets the current nexus threshold. Ibidem, 10–11.↩︎
Cfr OECD (2019), Addressing the tax challenges of the digitalization of the economy – Public consultation document, February 2019, cit., 14–16.↩︎
Al di là delle specificità di ciascuna proposta, appare evidente che queste siano tutte legate da un unico fil rouge costituito dal criterio della tassazione dei redditi d’impresa nei luoghi in cui sono generati, da individuarsi attraverso l’analisi del ruolo degli utenti nella creazione di valore.↩︎
Si rileva che molti aspetti fondamentali della proposta GLOBE sono stati lasciati al dibattito, tra questi: la soglia di proprietà o controllo da considerare rilevante, l’entità dell’effective tax rate minimo ed il test per verificarne il raggiungimento, la possibilità di prevedere esclusioni soggettive, settoriali, di altra natura, ecc. Cfr. OECD (2019), Addressing the tax challenges of the digitalization of the economy – Policy Note, January 2019, cit.↩︎
Cfr. OECD (2019), Programme of Work to Develop a Consensus Solution to the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, cit.. Si ricorda che il Programma di lavoro è stato formalmente approvato al summit G20 di Fukuoka dell’8–9 giugno 2019.↩︎
Relativamente ai metodi di allocazione dei profitti, il programma di lavoro ha definito la tabella di marcia per tre soluzioni: (i) il metodo di ripartizione dell’utile residuale (Modified Residual Profit Split – MRPS); (ii) il metodo dell’allocazione frazionata (Fractional Apportionment - FA) o (iii) altri metodi semplificati (Distribution Based Approach).↩︎
In tale prospettiva viene preso in considerazione sia lo sviluppo di un concetto di presenza fiscale remota (remote taxable presence) e dell’insieme di standard per rilevarne la sussistenza; sia l’identificazione di una nuova categoria di reddito tassabile alla fonte. In entrambi i casi il relativo diritto impositivo dovrebbe sorgere svincolato dai requisiti di natura fisico-materiale che connotano le attuali regole di nesso.↩︎
L’attenzione è richiamata sulla definizione di metodi che rendano agevole identificare i soggetti tenuti agli obblighi dichiarativi e al versamento delle imposte in ottemperanza alle nuove regole. A ciò è aggiunto un appello a trovare soluzioni che garantiscano la riscossione di quanto dovuto. Poiché il nuovo quadro regolatorio potrebbe condurre alla richiesta e alla gestione di informazioni addizionali (ad esempio, dati sui profitti complessivi, sui profitti attinenti a specifiche linee di business, sulle vendite, sugli utenti, ecc) il programma di lavoro ha opportunamente puntualizzato che occorrerà studiare soluzioni che limitino gli oneri sulle imprese e agevolino la circolazione delle informazioni tra le amministrazioni finanziarie.↩︎
Cfr. OECD (2019), Programme of Work to Develop a Consensus Solution to the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, cit., 27.↩︎
Ibidem, 29.↩︎
Ibidem, 31.↩︎
Cfr. OECD (2019), Public consultation document - Secretariat Proposal for a “Unified Approach” under Pillar One. 9 October 2019 – 12 November 2019, OECD, Paris, in https://www.oecd.org/tax/beps/public-consultation-document-secretariat-proposal-unified-approach-pillar-one.pdf.↩︎
La proposta del Segretariato Generale dell’OCSE è stata precedentemente discussa dalla Task Force on Digital Economy il 1° ottobre 2019. Cfr. OECD (2019), OECD Secretary-General Tax Report to G20 Finance Ministers and Central Bank Governors – October 2019, OECD, Paris, in <www.oecd.org/tax/oecd-secretary-general-tax-report-g20-finance-ministers-october-2019.pdf>.↩︎
Il Segretariato Generale OCSE specifica che This would be determined by simplifying conventions, and require the determination of the level of the deemed routine profit and also a decision on the proportion of the deemed residual profit that should go to the market, which in turn would be allocated to particular markets meeting the new nexus rule through a formula based on sales. Percentages remain to be determined and would be part of the consensus-based agreement among Inclusive Framework members. Cfr. OECD (2019), Public consultation document - Secretariat Proposal for a “Unified Approach” under Pillar One. 9 October 2019 – 12 November 2019, cit., 9. Nel documento diffuso dal Segretariato, inoltre, viene descritto anche il possibile meccanismo per la determinazione dell’Amount A: The starting point for the determination of Amount A would be the identification of the MNE group’s profits. The relevant measure of profits could be derived from the consolidated financial statements8 under the accounting standards of the headquarters jurisdiction prepared in accordance with the Generally Accepted Accounting Principles (GAAP) or the International Financial Reporting Standards (IFRS). The advantages of such an approach are that consolidated financial statements are (1) normally readily available and (2) not easily manipulated. To better approximate a proxy of residual profit, further consideration will need to be given to the appropriate measure of profits and also to potential standardised adjustments to the reported profit (as per the consolidated financial accounts). In addition, the fact that the profitability of an MNE group can vary substantially across business lines, regions or markets suggests that the relevant measure of profits may need to be determined on a business line and/or regional/ market basis. … The second step in calculating Amount A would seek to approximate the remuneration of the routine activities based on an agreed level of profitability. In broad terms, these are profits which, by analogy to the residual profit split method, would be regarded as rewarding routine functions. They are accordingly excluded from the calculation of the pool of profits from which the allocation to market jurisdictions would be made. The level of profitability deemed to represent such “routine” profits could be determined using a variety of approaches, but a simplified approach would be to agree a fixed percentage(s), possibly with variances by industry. … Once profits in excess of the stipulated level of profitability are deemed to be the group’s non-routine profits, it is then necessary to determine the split of those deemed non-routine profits between the portion that is attributable to the market jurisdiction and the portion that is attributable to other factors such as trade intangibles, capital and risk, etc. This is important as non-routine profit generated by MNE groups is attributable to many activities including those not targeted by the new taxing right. … Given the practical difficulties of using conventional transfer pricing rules for this step, the proposed approach assumes that a share of the deemed non-routine profit attributable to the market jurisdiction would be determined in accordance with a simplifying convention, such as non-routine profit multiplied by an internationally-agreed fixed percentage, though it is possible that different percentages might be applied to different industries or business lines. … The final step of the proposed approach would be to allocate the relevant portion of the deemed non-routine profit … among the eligible market jurisdictions. This allocation should be based on a previously agreed allocation key, using variables such as sales. The selected variables would seek to approximate the appropriate profit due to the new taxing right. Ibidem, 14–15.↩︎
A tale riguardo, il Segretariato ricorda che … a clear definition of the activities that qualify for the fixed return would be required. The quantum of the fixed return could be determined in a variety of ways: it could be (1) a single fixed percentage; (2) a fixed percentage that varied by industry and/or region; or (3) some other agreed method. Ibidem, 15–16.↩︎
Tra l’altro, In relation to Amount C, it would also be important to ensure that the profit under Amount A could not (whether in whole or part) be duplicated in the market jurisdiction, for example based on an argument that some or all of the profit under Amount A is also in some way referable to the functional activity in the market jurisdiction which is rewarded by Amount C. Further work on certain aspects of the detailed interaction of Amounts A and C would therefore be warranted. Ibidem, 16. Inoltre, al fine di dirimere le possibili controversie tra la market jurisdiction ed il contribuente con riguardo a qualsiasi aspetto della proposta ed in particolare nelle ipotesi in cui sia messo in dubbio il risultato del meccanismo di allocazione dei profitti proposto, il Segretariato suggerisce che Any dispute between the market jurisdiction and the taxpayer over any element of the proposal should be subject to legally binding and effective dispute prevention and resolution mechanisms. This would include those cases where there are more functions in the market jurisdiction than have been accounted for by reference to the local entity’s assumed baseline activity (which is subject to the fixed return in B …), and that jurisdiction seeks to tax an additional profit on those extra functions in accordance with the existing transfer pricing rules. Ibidem, 9.↩︎
Il nuovo diritto di tassazione (che incide sui profitti indicati quale Amount A) aumenterebbe l’ammontare dei profitti d’impresa assegnati alle cc.dd. market jurisdictions, anche in assenza di una presenza fisica della società che li abbia prodotti. I cc.dd. Amount B e C, invece, spetterebbero ai predetti Paesi solo se generati attraverso una presenza fisica dell’impresa sul proprio territorio (subsidiary o stabile organizzazione) e non anche se riferibili ad un’entità rientrante nel nuovo concetto di nexus (in tal caso, infatti, rientrerebbero nella categoria "Amount A"). Ibidem, 13.↩︎
Ibidem, 6.↩︎
Le osservazioni degli stakeholders in merito alla Proposta del Segretariato Generale diffusa lo scorso 9 Ottobre sono state oggetto di un dibattito pubblico tenutosi in data 21–22 Novembre 2019, durante il quale è emerso che l’ambito soggettivo di applicazione dell’Unified Approach elaborato dall’OCSE risulterebbe non definito con precisione, risultando ingiustificata l’esclusione di alcune tipologie di contribuenti e foriera di possibili effetti distorsivi del mercato. Inoltre, il meccanismo a tre livelli ipotizzato nella Proposta non sembrerebbe risolvere del tutto il possibile rischio della doppia imposizione nell’ipotesi in cui non interagisse perfettamente con le attuali regole del transfer pricing.↩︎
Cfr. OECD (2019), Public consultation document – Global Anti-Base Erosion Proposal (“GloBE”) – Pillar Two. 8 November 2019 – 2 December 2019, OECD, Paris, in https://www.oecd.org/tax/beps/public-consultation-document-global-anti-base-erosion-proposal-pillar-two.pdf.pdf.↩︎
Dai commenti ricevuti dall’OCSE ed anche a seguito del Public Consultation Meeting tenutosi il 9 Dicembre 2019 è emerso un generale disaccordo riguardo gli aspetti fondamentali della GloBe Proposal: ad esempio, mentre una parte degli stakeholders propenderebbe per la semplificazione del meccanismo di calcolo dell’ETR che dovrebbe avvenire su base globale, un’altra parte degli stakeholders sosterrebbe l’applicazione della “income inclusion rule” su base nazionale, affinché le multinazionali paghino la differenza di imposta negli Stati in cui l’aliquota effettiva sia inferiore all’aliquota fiscale minima concordata.↩︎
Cfr. OECD (2020), Statement by the OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS on the Two-Pillar Approach to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy – January 2020, OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, OECD, Paris, in <www.oecd.org/tax/beps/statement-by-the-oecd-g20-inclusive-framework-on-beps-january-2020.pdf>.↩︎
Per approfondimenti, si veda, ex multis, D. Avolio - E. De Angelis, Transfer pricing, Profit Split e Pillar One: quale futuro nell’era post BEPS?, in il fisco, 2020, fasc. 7, 653 ss..↩︎
Ci sono poche novità da riferire riguardo il Pillar Two, a parte il fatto che l’Inclusive Framework continua fare buoni progressi dal punto di vista tecnico per affrontare le questioni poste dalla proposta GloBe, ma resta ancora molto lavoro da fare per giungere ad una soluzione condivisa. In particolare, ci si sta concentrando sulla fattibilità dell’utilizzo della contabilità finanziaria come base per determinare l’applicazione della c.d. GloBe rule. Cfr. OECD (2020), Statement by the OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS on the Two-Pillar Approach to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy – January 2020, cit., 27 ss..↩︎
La proposta dell’OCSE che riconosce una potestà impositiva residuale al market country poggia sul principio-base della “creazione di valore”, che, tuttavia, sembrerebbe essere un concetto teorico e arbitrario. Di fatto, nel panorama scientifico internazionale non vi è un’opinione unanime riguardo l’impatto del criterio del luogo di creazione del “valore” sull’allocazione della potestà impositiva tra gli Stati: mentre una parte della dottrina nega la rilevanza di tale criterio a tale scopo, in quanto il concetto stesso di “valore” risulterebbe ambiguo (cfr., ex multis, J. Hey, “Taxation Where Value is Created” and the OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Initiative, in Bulletin for International Taxation, 2018, vol. 72, nn. 4–5, 203–208; W. Schön, Ten questions about why and how to tax the digitalized economy, in Bulletin for International Taxation, 2018, vol. 72, nn. 4–5, 278–292; M.P. Devereux - J. Vella, Are we heading towards a corporate tax system fit for the 21st century?, in Fiscal Studies, 2014, vol. 35, n. 4, 449–475), altra parte della dottrina, invece, ritiene che il nexus di un’impresa digitale con uno Stato dovrebbe essere costituito proprio dalla circostanza che l’impresa in quello Stato “crea valore” (cfr., ex multis, J. Becker - J. Englisch, Taxing where value is created: what’s “user involvement” got to do with it?, in Intertax, 2019, vol. 47, Issue 2, 162–165; P. Pistone - J.F. Pinto Nogueira - B. Andrade Rodríguez, The 2019 OECD Proposal for Addressing the Tax Challenges of the digitalization of the economy: an assessment, in International Tax Studies, 2019, vol. 2, n. 2, 8–9; M. Olbert - C. Spengel, International taxation in the digital economy: challenge accepted?, cit.).↩︎
Le notevoli incertezze riguardo il coordinamento fiscale internazionale dovute anche alla posizione assunta dagli USA sono più evidenti se si analizzano le caratteristiche e le motivazioni della riforma fiscale attuata dall’amministrazione Trump. La riforma fiscale Trump del 2017 (nota come Tax Cuts & Jobs Act (TCJA)), incentrata sul passaggio dalla tassazione world-wide a quella territoriale, ha come scopo quello di aumentare la competitività fiscale degli Stati Uniti, attrarre investimenti e incentivare, al tempo stesso, la produzione domestica. Tra le principali misure introdotte, la GILTI (Global Intangible Low Taxed Income) garantisce un’imposizione minima del reddito prodotto all’estero dalle multinazionali americane attraverso le loro CFC (in sostanza, una sorta di regime CFC rafforzato) mentre la BEAT (Base Erosion Alternative Tax), che costituisce il completamento della GILTI e ne condivide le finalità anti-elusive, assicura che i redditi prodotti a livello nazionale delle società statunitensi siano soggetti a un livello minimo di tassazione. In generale, quindi, la posizione assunta dagli Stati Uniti è quella secondo cui i redditi delle multinazionali americane dovrebbero essere tassati negli USA, prescindendo dall’analisi caso per caso della tassazione nel singolo Stato di origine in cui opera la multinazionale e realizzando, così, un rapporto dicotomico (USA-resto del mondo) piuttosto che multilaterale. In altre parole, è la stessa riforma fiscale Trump che sembrerebbe prescindere dall’esigenza di un coordinamento fiscale internazionale e che, per questo, potrebbe rendere più gravoso e difficile giungere ad una soluzione condivisa riguardo la tassazione delle multinazionali (americane) digitali, come auspicato dall’OCSE. Sul punto, cfr. V. Ceriani - G. Ricotti, Riflessioni sul coordinamento internazionale della fiscalità d’impresa, in Rassegna Tributaria, 2019, n. 1, 38–49; M. Herzfeld, Can GILTI + BEAT = GLOBE?, in Intertax, 2019, vol. 47, Issue 5, 504–513.↩︎
Sul punto, cfr. G. Foglia - M. Poziello, Prelievo OCSE sui big da delimitare meglio, in Quotidiano del Fisco, 2019, n. 11, in http://www.bd24.ilsole24ore.com.↩︎